USA e Paesi del Golfo, fra rilancio dell’alleanza e differenze politiche
“Iran supports violent proxies… Iran is a state sponsor of terrorism”. Leggendo l’intervista di Barack Obama al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat (del 13 maggio, in occasione degli incontri al vertice a Washington e Camp David), era chiaro l’intento di rassicurare gli alleati di sempre. Le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) volevano però impegni concreti. E questi sono solo in parte arrivati: nessun trattato formale (il Congresso non l’avrebbe comunque approvato), ma un comunicato congiunto in cui gli Stati Uniti ribadiscono il loro impegno alla difesa esterna della riva arabica del Golfo. L’obiettivo del summit era proprio quello di rivitalizzare una partnership in affanno, logorata – nella percezione saudita – da due percezioni, al tempo stesso emotive e politiche, sul comportamento americano: il tradimento (accordo preliminare sul dossier nucleare Iran) e l’abbandono (parziale disimpegno USA nel Golfo). E tutto ciò mentre i teatri di instabilità regionali si moltiplicano: Yemen, il sedicente califfato fra Siria e Iraq, Libia.
Nel comunicato finale, Stati Uniti e CCG si impegnano a intensificare la cooperazione su difesa anti-missilistica, sicurezza marittima, cybersecurity, ed esercitazioni militari congiunte. Le monarchie del Golfo potrebbero acquisire lo status di major non-NATO ally (il Bahrein lo è già dal 2002 ma l’ipotesi non viene menzionata nel testo finale), per facilitare le procedure per la fornitura di armi.
Riyadh cercava rassicurazioni sull’Iran, Washington conferme nella lotta al sedicente califfato tra Siria e Iraq: sotto i sorrisi di rito, il vertice ha rimarcato l’attuale distonia politica fra gli alleati, che non possono tuttavia prescindere l’uno dall’altro, proprio a causa della forte instabilità regionale. L’assenza del nuovo Re saudita Salman bin Abdulaziz (la cui partecipazione era stata data per certa) ha impattato più sulla forma che nella sostanza: a guidare la delegazione di Riyadh è stato infatti il Ministro dell’Interno Mohammad bin Nayef, appena nominato Principe ereditario e di fatto numero due del regno. Il Ministro cinquantenne, molto gradito a Washington, sarà quasi certamente Re in un domani non molto lontano. Scampato a un attacco di Al-Qaeda nel 2009, Mohammed bin Nayef gestisce il dossier anti-terrorismo e gli si attribuisce una linea più prudente in politica estera rispetto al Ministro della Difesa e vice Crown Prince Mohammad bin Salman (il trentenne figlio del Re, regista dell’operazione militare in Yemen, che faceva altresì parte della delegazione). La mancata presenza del Re – che peraltro ha salute fragile e non mai viaggiato al di fuori del regno dalla nomina di gennaio – può essere comunque letta come un messaggio volto a evidenziare il momento delicato nei rapporti fra sauditi e statunitensi. Solo gli emiri di Kuwait e Qatar sono stati presenti al vertice, mentre gli altri sovrani – già prima del no di Salman – avevano deciso di inviare loro rappresentanti (per il sultano dell’Oman è una consuetudine).
Il “grande freddo” tra Washington e Riyadh è calato dal 2013, sulla Siria (per il mancato intervento militare americano contro il regime di Assad, protetto da Teheran) e sull’Iran (per la ripresa e l’accelerazione dei negoziati sul nucleare). Non è dunque un caso che gli statunitensi abbiano ripetuto che la firma di un accordo, anche definitivo, sul nucleare iraniano (possibile entro il 30 giugno) non sarà comunque il preludio alla normalizzazione dei rapporti con l’Iran. L’amministrazione Obama è stata finora abile a tenere separati due dossier che avrebbero potuto facilmente confliggere: nucleare iraniano e conflitto in Yemen. Infatti, mentre a Ginevra e Losanna si negoziava con Teheran, nel quadro del 5+1, Washington non esitava invece ad appoggiare politicamente (oltre che a livello logistico e di intelligence) l’operazione militare aerea della coalizione a guida saudita contro le milizie sciite in Yemen.
Finora, l’approccio “equilibrista” degli Stati Uniti fra le due rive del Golfo ha retto, anche a fronte dell’attivismo iraniano in Iraq: le operazioni sul terreno dei reparti speciali iraniani contro gli jihadisti (sunniti) sono convergenti con gli interessi occidentali, ma hanno creato forti malumori nel CCG. Nel corso di una conferenza pubblica all’Atlantic Council (think tank statunitense), lo scorso 7 maggio, l’Ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti (EAU) negli USA (Yousef al-Otaiba) aveva sottolineato la necessità di passare, in tema di sicurezza, da un gentlemen’s agreement a “qualcosa di scritto e di istituzionalizzato”. La sensazione è che la Casa Bianca non voglia spingere in questa direzione, ma punti comunque a intensificare la cooperazione di difesa con e tra gli alleati, per poter poi sostenere meglio gli sforzi negoziali con Teheran.
Alla vigilia del vertice, Washington ha fatto molta pressione sull’Arabia Saudita per strappare una tregua umanitaria in Yemen, ottenendo in effetti cinque giorni rinnovabili, dal 12 maggio. Da parte sua, Re Salman aveva mandato segnali positivi a Washington in occasione del rimpasto di governo, tra l’altro nominando al Ministero degli Esteri (dopo il quarantennio di Saud al-Faysal) Adel al-Jubeir, l’Ambasciatore saudita negli Stati Uniti dal 2007, primo non reale a rivestire questo ruolo.
Un’alleanza di sicurezza rafforzata fra le monarchie del Golfo e Washington potrebbe in parte depotenziare il nascente progetto di una forza militare araba, su cui la Lega Araba sta lavorando su impulso saudita, emiratino ed egiziano. Molto dipenderà dall’esito del negoziato con l’Iran: non va dimenticato che l’iniziativa fu lanciata, a fine 2014, proprio in risposta alla crescita del ruolo regionale e transnazionale di Teheran, nonché in prospettiva di un parziale disimpegno USA dall’area. Il progetto ha già debuttato, sul piano aereo, in Yemen: qui si sta però rivelando inefficace, poiché non ha alterato gli equilibri di forza tra le due fazioni, ma sta invece contribuendo ad alimentare la tensione inter-confessionale, persino fra le stesse comunità arabo-sciite delle monarchie della penisola (Bahrein, Arabia Saudita, ma anche Kuwait). Dato che l’iniziativa ha una forte impronta sunnita e al suo esordio ha colpito alcune milizie sciite (invece che gruppi jihadisti), il rischio è che l’ipotetico esercito arabo divenga un propagatore di divisione settaria in Medio Oriente, piuttosto che uno strumento di stabilità.
Un ombrello di sicurezza USA “più largo” nel Golfo potrebbe comunque ridurre il ricorso unilaterale alle armi da parte dell’area CCG, una tendenza che si sta accentuando (oltre che in Yemen, anche nel caso dei bombardamenti emiratini contro milizie jihadiste a Tripoli, Libia) nell’attuale contesto regionale. L’accresciuta percezione della “minaccia Iran” ha contribuito a ricompattare le monarchie del Golfo, sedando – almeno per ora – le tensioni fra Arabia Saudita-Emirati e Qatar sul sostegno alla Fratellanza Musulmana. La lotta agli Ikhwan non sembra essere più in cima all’agenda politica controrivoluzionaria saudita, e ciò si riflette tra l’altro sulla tattica di Riyadh in Siria: la presa della città siriana nordoccidentale di Idlib da parte di Jabhat al-Nusra (braccio locale di Al-Qaeda) e di altre milizie islamiste potrebbe essere il primo effetto del nuovo patto fra turchi e sauditi, mediato dal Qatar, sul futuro della Siria. L’obiettivo è provare a rovesciare Bashar al-Assad, mettendo sotto pressione il suo feudo costiero di Latakia, prima che l’Iran possa aumentare (anche grazie all’alleggerimento delle sanzioni, ritenuto ormai prossimo) le risorse finanziarie e militari a sostegno del regime siriano e degli Hezbollah libanesi.
Su questo punto, nuove frizioni tra Riyadh e Washington potrebbero essere all’orizzonte: infatti, le priorità della Casa Bianca sono combattere il sedicente Stato Islamico e sostenere il fragile governo iracheno. Pertanto, nonostante le dichiarazioni comuni, la partnership indispensabile fra Stati Uniti e monarchie del Golfo si presenta come un cammino ancora faticoso.