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USA 2024: due strategie comunicative a confronto

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Nel teatro politico statunitense, la comunicazione è tradizionalmente un’arma potente: essere in grado di trasmettere efficacemente agli elettori le proprie proposte e la propria visione del mondo, di sedurre e convincere, è da sempre una capacità fondamentale per chi vuole ascendere al vertice della piramide politica. Alcune strategie comunicative particolarmente efficaci, alla base di grandi successi elettorali del passato, sono rimaste celebri. Basti pensare a John Fitzgerald Kennedy, o per rimanere negli ultimi anni, a Barack Obama, o anche in un certo senso allo stesso Donald Trump.

In questo contesto, la campagna elettorale del 2024 è particolarmente interessante, in quanto mette uno di fronte all’altro – dopo il ritiro di Joe Biden – due candidati (e due offerte politiche) che si presentano come l’una l’esatto opposto dell’altro. Da un lato abbiamo Kamala Harris, vicepresidente uscente, che sembra puntare su una strategia basata sulle politiche, sulla presentazione di programmi di intervento specifici, nel solco della presidenza Biden, ma con una abbondante spruzzata di novità. Dall’altro c’è Trump, ex presidente e maestro dell’agitazione populista, con il suo approccio audace e senza filtri.

In un’era, e in un contesto elettorale, estremamente polarizzati, le strategie di comunicazione efficaci non si limitano a essere un vettore per un messaggio politico, ma diventano sempre più totalizzanti: parlano a un determinato gruppo di elettori, disegnano filosofie di vita, rappresentano vere e proprie visioni del mondo – spesso con pochi punti in contatto con quelle avversarie.

Per questo, analizzare le strategie comunicative usate dai due candidati, e giudicarne l’efficacia, è particolarmente interessante: permette di ottenere un punto di vista sulle varie idee di America, e di futuro, che si affrontano alle urne.

 

Kamala Harris: un fragile equilibrio tra novità e continuità

Partiamo da Kamala Harris. La strategia comunicativa della candidata democratica oscilla in un sottile (e delicato) equilibrio tra continuità e novità; tra il dover difendere i risultati di un’ amministrazione di cui è stata parte integrante, e la necessità di smarcarsi da un presidente percepito come vecchio e debole.

La continuità è evidente soprattutto a livello di messaggio, che nei fatti si distanzia poco da quello del presidente uscente Biden. I suoi discorsi programmatici tendono così a rimanere in linea con le priorità attuali della Casa Bianca: dal rafforzamento dell’economia alla lotta per i diritti delle minoranze, a livello di policy Harris si presenta come l’erede del presidente uscente, in opposizione al caos anti-istituzionale del mondo trumpiano. Si tratta di una scelta per certi aspetti obbligata, visto il cambio di candidato in corsa e la necessità di inseguire il rivale repubblicano, che non ha permesso (per ora) un vero e proprio reset della campagna, all’insegna di messaggi nuovi.

Il controllo ferreo sui rapporti con i media è un altro tratto distintivo della strategia di Harris ripresa da Biden. A differenza del suo rivale Trump, la vicepresidente fino ad ora è sembrata evitare conferenze stampa ad alto rischio o domande non preparate, preferendo concentrarsi su eventi più “sicuri” e preparati. Questo le ha permesso finora di mantenere una certa disciplina nel messaggio, ma c’è il rischio che possa apparire troppo “costruita” e meno autentica. Un rischio concreto: secondo Thomas Gift, professore di Scienze Politiche alla UCL, “la sua campagna appare ancora un’estensione di quella di Biden, il che potrebbe non essere sufficiente per creare entusiasmo tra gli elettori indecisi”.

Harris però non è una copia di Biden. Veniamo dunque ai punti di novità, che sono molti e importanti: un primo punto di forza di Harris è anagrafico, con la sua freschezza (se non altro relativa rispetto a Biden e a Trump, grazie a oltre 15 anni di differenza) e la sua capacità di parlare a un’ampia base di elettori, in particolare donne, afroamericani, giovani e comunità emarginate. Grazie a messaggi che toccano temi di inclusione e giustizia sociale, e uno stile percepito più rilassato, la vicepresidente punta a galvanizzare le minoranze, che pur costituendo una parte cruciale del blocco elettorale democratico si erano allontanate da Biden.

 

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Un altro aspetto interessante è come la campagna di Harris abbia saputo sfruttare i social media in modo creativo, in particolare Tik Tok. Recentemente, è diventata protagonista di un fenomeno virale chiamato Kamala IS Brat, dove meme ironici nati spontaneamente hanno giocato a suo favore, rendendola più accessibile a un pubblico giovane. Un altro esempio più strategico di questo approccio sono i ripetuti tentativi di dipingere Trump e i suoi seguaci come weird, “strani”, a rimarcare una differenza quasi antropologica. Come ha sottolineato un analista digitale, “questo tipo di viralità ha il potere di umanizzare una figura politica, creando connessioni più informali e immediate con elettori che potrebbero non essere attratti dai tradizionali discorsi politici”.

Sono tali elementi innovativi, innestati su una base che è rimasta tendenzialmente costante, che hanno permesso di risollevare le sorti della campagna elettorale, generando un grande entusiasmo attorno alla candidatura di Harris e riaprendo la partita. Come ha ben sintetizzato Business Insider: “La strategia comunicativa di Harris non è cambiata rispetto a Biden – ma adesso funziona”.

Tuttavia, rimangono alcune criticità, come dimostrerebbe il recente rallentamento dei consensi: i sondaggi di settembre, infatti, hanno registrato un leggero recupero di Donald Trump. In particolare, la sua riluttanza a rispondere ai media viene vista da alcuni come un segnale di debolezza. In questo senso, la scelta di nominare Tim Waltz come suo vice sembra un tentativo di correre ai ripari anche da questo punto di vista, considerata la sua maggiore confidenza con i mezzi di informazione tradizionali e il suo aspetto da “americano medio”.

Un altro problema sembrerebbe essere la sua relativa mancanza di riconoscibilità presso gli elettori, vista la brevità della sua candidatura e dunque dell’esposizione mediatica, contro un Trump onnipresente da anni. Sulla capacità di Harris di cavalcare abilmente il sottile equilibrio tra continuità e novità, e tra il costruirsi una propria voce specifica e assicurare stabilità e affidabilità, si giocherà buona parte della capacità di ottenere consensi tra il centro moderato e gli incerti – il vero obiettivo su cui puntano i Democratici per vincere l’elezione.

 

Donald Trump: l’eterno ritorno dell’uguale

Se la sfida per Kamala Harris è quella di trovare la propria voce (o imporre il proprio brand), questo problema non si pone per il suo avversario. Per la sua terza campagna elettorale consecutiva, Donald Trump si affida a una strategia di comunicazione ben rodata: altamente emotiva e populista, con uno stile diretto e accentratore, che cerca un collegamento immediato tra sé e le paure e frustrazioni di una parte dell’elettorato. Ancora dopo un decennio sulla scena politica e un mandato presidenziale, Trump continua a presentarsi come il paladino della “gente comune”, promettendo di combattere contro le élite politiche e i presunti nemici interni e internazionali.

Al cuore del successo di Trump negli ultimi anni sta la sua capacità di parlare direttamente ai sentimenti delle persone. Non è tanto una questione di dettagliare politiche e soluzioni, ma di una narrazione semplice e potente: lui è l’uomo che può “rendere l’America di nuovo grande”, e se la prima volta non ci è riuscito, è per colpa di un establishment corrotto che glielo ha impedito. Ora, fidatevi di lui: se verrà eletto, si libererà dei suoi nemici e completerà il lavoro. Un messaggio che, per quanto polarizzante, continua ad essere molto apprezzato dai suoi sostenitori.

Se Harris sembra evitare le interviste e i confronti diretti, Trump, forte del suo talento da venditore consumato, abbraccia pienamente il caos e l’improvvisazione. Le sue frasi secche e risposte immediate lo fanno apparire come autentico e gli hanno permesso per anni di dominare il discorso politico, nonostante le frequenti controversie generate – o meglio, proprio grazie a esse.

In questo contesto rientra anche l’abitudine di trovare nomignoli e prendere in giro i suoi avversari – l’ultimo in ordine di tempo, laughing Kamala, strumentalizza l’abitudine di Harris di ridere sonoramente per gettare dubbi sulla sua serietà. Trump dimostra di aver compreso e fatto sua una semplice regola: in politica, spesso, è meglio essere discussi che ignorati.

Anche nell’uso dei social, la strategia di Trump è on brand: nonostante sia stato bandito da Twitter/X in seguito all’assalto al Congresso (fino al suo reintegro qualche settimana fa, suggello della pace siglata con Elon Musk), ha trovato il modo di far circolare i suoi messaggi – spesso deliranti o vere e proprie fake news – attraverso canali alternativi. Attraverso il social network da lui fondato Truth e una galassia di podcaster e youtuber amici, ha continuato a mobilitare e tenere attivi i seguaci, sapendo sfruttare a suo vantaggio anche un momento drammatico come il suo tentato omicidio dello scorso 13 luglio. L’obiettivo di fondo non è mai proporre delle policy: è creare una raffica comunicativa che attiri costantemente l’attenzione su di sé.

 

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Alla base di questa strategia c’è una scommessa: che, in un sistema elettorale come quello statunitense, estremamente polarizzato e basato di fatto su una sequenza di elezioni locali nei singoli Stati, per vincere conta di più mantenere la propria base motivata invece che cercare di conquistare il voto moderato. Per questo Trump non ha mai evitato la polarizzazione, tipicamente rifuggita invece dai candidati convinti che si vincesse “al centro”. Anzi, ne ha fatto una delle sue armi principali. I suoi messaggi, sempre più estremi e divisivi, potranno anche allontanare i votanti più moderati, ma creano un forte senso di appartenenza tra i suoi sostenitori.

Si tratta però appunto di una scommessa. E come tale, non è esente da rischi. Prima di tutto, perché fare affidamento sul ‘rafforzare la base’ e alienare quasi del tutto gli elettori moderati può funzionare se questi ultimi non hanno abbastanza incentivi per andare a votare per il tuo avversario. Ma cosa succede quando invece ne hanno? Nel 2016 contro Hillary Clinton è andata bene; nel 2020 contro Joe Biden, no.

È la dinamica vista dopo il passaggio da Biden a Harris: i consensi per il presidente uscente, visto come troppo debole, non decollavano, e Trump si vedeva già la vittoria in tasca: sembrava proprio che per trionfare bastasse la mobilitazione dei fan più accesi. Ma la situazione è cambiata con l’esplosione di entusiasmo generata dalla nuova candidata Democratica, e la conseguente difficoltà di Trump nel riprogrammare efficacemente la propria strategia di attacco.

Questo esempio è legato a un altro elemento di rischio più indiretto. Affidarsi totalmente a una strategia di comunicazione estremamente idiosincratica come quella di Trump vuol dire, per il partito Repubblicano, privarsi quasi totalmente di un’alternativa: è quasi impossibile per Trump evitare di ‘fare Trump’. Un esempio lampante è stata la convention: per giorni, il partito repubblicano, ancora in vantaggio, ha cercato di dare l’immagine di un partito unito, costruttivo e responsabile, pronto a tornare alla guida del Paese. Un’immagine che è andata in frantumi l’ultimo giorno, quando sul palco è salito lo stesso Trump, lanciandosi nell’ennesimo dei suoi discorsi aggressivi e sconnessi.

La sua incapacità di cambiare marcia, infatti, è oggi un grande peso. Per quanto gli abbia permesso di ottenere grandi risultati in passato, sembra mostrare sempre di più le corde e risultare sempre più prevedibile e attaccabile. Per ridurre al minimo questo rischio, Trump dovrebbe mostrarsi in grado cambiare registro, dove necessario, e di adattarsi a condizioni e a pubblici diversi.

Una missione che per il momento sembra in salita. Il faccia a faccia del 10 settembre ha mostrato un candidato repubblicano incapace di cambiare registro e di mantenere il controllo della sua retorica e della sua proposta politica. Semplicemente, la formula tradizionale è sembrata non funzionare più come una volta, e Trump non sembra più riuscire a proporre un’alternativa.

 

Due strategie per due Americhe a confronto

Quelle descritte sopra sono due strategie profondamente diverse, che riflettono obiettivi elettorali, candidati, e persino concetti di Paese opposti. Buona parte della sfida si giocherà su quale delle due si rivelerà più efficace a raggiungere il proprio obiettivo: consolidare la propria base, anche rischiando di alienarsi gli elettori indecisi (Trump); e ‘allargare la mappa’, cercando consensi tra i moderati (Harris). Il candidato che trionferà a novembre sarà quello che non solo avrà la strategia in astratto migliore, e che riuscirà ad applicarla riducendo al minimo i rischi; ma che dimostrerà anche una certa flessibilità nell’implementarla e adattarla ai cambiamenti e alle sorprese delle ultime settimane.

Un momento potenzialmente decisivo in questo senso è stato proprio il faccia a faccia. Poiché si trattava dell’unico confronto televisivo diretto in programma al momento tra i due candidati alla Casa Bianca, il suo peso specifico era più importante del solito. Da un lato, si poneva come la più importante occasione per Kamala Harris di presentarsi ufficialmente a un gruppo ampio e trasversale di elettori; dall’altro, il compito di Trump, giunto ormai al settimo di questo tipo di incontri, era mettere in risalto la propria forza e dominare la scena, togliendo la terra sotto i piedi all’avversaria.

La maggior parte dei commenti a caldo sul faccia a faccia ha concordato su un fatto: la comunicazione di Harris è stata molto più efficace. La vicepresidente è riuscita a imporre la sua personalità, allo stesso tempo difendendo i risultati dell’Amministrazione Biden e rimarcando la sua novità. Inoltre, come si è visto sopra, ha tenuto a bada Trump, provocandolo e spingendolo a perdere il controllo. L’ex presidente, dal canto suo, non ha mai dato l’impressione di essere in grado di riprendersi e di imporre le sue linee d’attacco.

Insomma, a una prima analisi, il confronto sembrerebbe aver premiato Kamala Harris: la candidata democratica ha utilizzato la sua strategia in maniera più disciplinata e coerente, riuscendo a trovare il giusto equilibrio tra competenza e novità, e tra serietà e leggerezza.

Basterà questo a ottenere la vittoria? Ovviamente, è troppo presto per dirlo. Per quanto importante, il faccia a faccia è solo una tappa in una campagna elettorale lunga mesi: dopotutto, anche nel 2016 a detta della maggior parte dei commentatori, il dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump si era concluso con una vittoria convincente della prima…

Quindi, come insegna la storia, da qui a novembre promettono di esserci ancora molte sorprese e colpi di scena, e la vittoria elettorale sarà sempre determinata da molti fattori, e da come i candidati sapranno rispondere a essi. Ma si può essere certi che, tra questi fattori, un ruolo importante lo giocherà la comunicazione. O meglio, la capacità dei candidati di comunicare efficacemente la loro offerta politica e la loro visione del mondo al più grande numero di elettori.