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Ursula von der Leyen, fenomenologia di una nomina

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  A rigor di logica, in questi giorni avremmo dovuto vedere il cristiano-sociale bavarese Manfred Weber salire alla guida della Commissione europea. Era lui infatti, secondo la regola dei capolista, la figura teoricamente prescelta in quanto Spitzenkandidat del raggruppamento politico più votato alle Europee, il Partito Popolare. Weber invece è stato disarcionato dall’illusione di Socialisti e Liberali di raggiungere, da soli, un accordo in seno al Consiglio europeo da imporre ai Popolari. E’ il Consiglio europeo (Ce), cioè i Capi di Stato e di governo dei Paesi membri della UE riuniti, che propone la nomina del presidente della Commissione al Parlamento. L’accordo tra Socialisti e Liberali indicava il laburista olandese Frans Timmermans, Spitzenkandidat del raggruppamento socialista.

 

Fuga in avanti, macchina indietro

Al momento di fare i conti, però, nel Ce è emersa una minoranza di blocco che ha fatto saltare il patto – perfezionato informalmente a Osaka ai margini del G20 dai premier di Spagna (socialista), Paesi Bassi (liberale), Francia (liberale) e Germania (popolare ma al governo con i socialisti). Perché i Popolari accettavano un accordo che li sfavoriva? Perché erano convinti che Liberali e Socialisti avrebbero potuto contare anche su Verdi e Sinistra in Parlamento, dove sarebbe avvenuta la ratifica della nomina. Numericamente, gli eurodeputati “da Tsipras a Macron”, ossia appunto appartenenti ai gruppi di Sinistra, Verdi, Socialisti e Liberali, costituiscono una maggioranza, sia pur risicata: una maggioranza che poteva affondare Weber. Invece di subire quella che si prospettava come una cocente sconfitta parlamentare del loro candidato, i Popolari preferivano far passare Timmermans con il proprio consenso, invece che subirne la scelta rimanendo esclusi.

Come detto, però, in Consiglio europeo i numeri per Timmermans non sono usciti. I Capi di Stato e di governo sono allora tornati in “terra cognita”: Popolari, Socialisti e Liberali hanno stretto un altro accordo, con i primi però a dare le carte, accaparrandosi i due posti chiave della nomenclatura dell’Unione: non solo la Commissione, ma anche la Banca Centrale Europea con Christine Lagarde al posto di Mario Draghi. Ai Liberali andava la presidenza del Ce con il premier belga Charles Michel. Ai Socialisti, che sognavano di entrare nella stanza dei bottoni di Bruxelles, toccavano invece i posti di prestigio con poca sostanza: presidenza del Parlamento (David Sassoli) e Alto Rappresentante (Josep Borrell).

 

Mal di pancia in Parlamento

I gruppi parlamentari, inizialmente, hanno rifiutato questo doppio voltafaccia. Non solo per l’imponderabile logica della scelta di Ursula von der Leyen dopo i tonfi di Weber e Timmermans. Ma anche perché in questo modo si finiva a ripetere la formula del mandato di Jean-Claude Juncker, nonostante le belle parole sull’apertura a nuove forze e la comprensione del risultato elettorale. L’accordo a porte chiuse, inoltre, faceva saltare il principio dello Spitzenkandidat, “ponte” tra l’elettorato e le segrete stanze di Bruxelles: Ursula von der Leyen non era mai stata proposta né presentata ai votanti europei come possibile candidata alla Commissione. Tra gli europarlamentari socialisti, inoltre, si aggiungeva un senso di delusione e tradimento: molti di loro non avevano affatto intenzione di sostenere una nuova “grande coalizione” con i Popolari.

La nomina di Ursula von der Leyen ha portato Weber fuori dalla scena: gli resta la carica di capogruppo popolare in Parlamento. Frans Timmermans, invece, ha accettato la nomina a vice-presidente della Commissione (lo era anche con Juncker). Ricoprirà la carica insieme alla liberale danese Margrethe Vestager. Nel suo discorso parlamentare, Ursula von der Leyen ha incluso la sua proposta di monitoraggio permanente e periodico di tutti i Paesi membri sul rispetto dello stato di diritto, benché abbia evitato di menzionare l’articolo 7 dei Trattati e la procedura di infrazione e sanzione, probabilmente per non sollevare problemi con Polonia e Ungheria in questa fase delicata.

 

Captatio benevolentiae

Viste le reazioni dei gruppi, infatti, non era affatto scontato che in Parlamento si trovasse una maggioranza disposta a ratificare la nomina di Ursula von der Leyen – passata infatti per soli 9 voti. Tra il 2 luglio, giorno della decisione del Consiglio europeo, e il 16 luglio, giorno della votazione parlamentare, von der Leyen ha tentato una manovra di ammorbidimento dei parlamentari. Prima ha ascoltato i vari gruppi politici, poi ha inviato delle lettere programmatiche. Ma la ex ministra della Difesa tedesca ha scontato qui la sua totale inesperienza nella politica europea: sia le audizioni che le lettere sono state accolte molto male dai parlamentari coinvolti, dei gruppi Popolare, Liberale e Socialista.

Cosciente dell’insuccesso, e terrorizzata dalla possibilità di una bocciatura parlamentare aperta, la Presidente nominata ha giocato la sua ultima carta proprio durante la seduta plenaria di ratifica, in cui ha cercato di catturare la benevolenza degli europarlamentari con un discorso – sintesi di un programma-quadro di 24 pagine – oltremodo ambizioso, una vera wish-list, una lista dei desideri in cui si sono volute sommare le agende dei vari partiti, con particolare attenzione a quelle socialiste e verdi. Un tentativo, anche in considerazione della segretezza del voto, di portare a più miti consigli i tanti franchi tiratori annunciati.

Ursula von der Leyen risponde alle domande degli europarlamentari il 16 luglio

 

D’altronde, con un catalogo di promesse inclusive anche se vaghe, von der Leyen non fa altro che seguire la tecnica di molti leader politici dell’attualità. Un terzo dei deputati Socialisti, nonostante l’impegno sul salario minimo in ogni Paese UE, ha votato comunque contro. Hanno votato contro anche tutti i deputati Verdi, nonostante le tantissime promesse sulla transizione energetica e sul Green New Deal, furiosi per essere stati esclusi e tenuti all’oscuro sulle trattative del Ce. D’altronde, i Verdi sanno bene che tra le “agende verdi” e la loro messa in pratica c’è un arcobaleno di possibilità differenti.

 

Sorprese di luglio

Ne sono consapevoli anche la grande impresa e la finanza europea, che restano prudenti nei loro commenti. Da un lato in attesa di capire appunto se la transizione energetica sarà compiuta contro o a favore dell’industria continentale. Dall’altro, preoccupate che il clima di dissenso e divisione presente in Parlamento complichi l’adozione di politiche business-friendly. Da questo punto di vista, non è piaciuta l’assenza di una posizione sulla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma anche sulle politiche di concorrenza, sull’eventualità di un ulteriore allargamento e sul bilancio europeo.

Tra le promesse più inattese c’è stata quella di conferire l’iniziativa legislativa al Parlamento. Si tratta di una novità sostanziale che scriverebbe una pagina di “costituzione materiale” europea, se fosse davvero applicata. Nella pratica, la Commissione passerebbe i testi su cui lavora al Parlamento, anche quando questo secondo le procedure non dovrebbe essere coinvolto. E’ ovvio che ciò aprirebbe un grande conflitto di potere e attribuzioni con il Consiglio europeo (ma anche all’interno della futura Commissione: chi può dire che tutti i suoi membri saranno d’accordo?). Presumibilmente il Parlamento produrrebbe delle linee-guida con obiettivi e risorse, che poi la Commissione dovrebbe tradurre in testi legislativi coerenti; ma questo contrasta con la natura (anche) politica del mandato che il Ce ritiene di conferire alla Commissione, e con le potestà anche conquistate in maniera informale negli ultimi anni dal Consiglio europeo (Capi di Stato e di governo) e dal Consiglio UE (ministri).

 

Questioni di genere

Ursula von der Leyen ha anche garantito che la sua Commissione sarà composta per la metà da donne: la questione di genere è uno dei pochi punti di forza iniziale del suo mandato, per cui è probabile che questo impegno sarà mantenuto. Alcuni Paesi tuttavia hanno indicato i “loro” Commissari già prima della nomina della Presidente, e dunque la lista potenziale è sbilanciata. Anche questa promessa richiederà importanti abilità politiche; il metodo potrebbe essere quello di chiedere sia il nome di un uomo che di una donna per ogni stato membro.

Tra gli altri potenziali punti di forza di Ursula von der Leyen vanno contati la sua alterità rispetto al personaggio di Jean-Claude Juncker, e la possibilità eventuale di agire fuori dagli schemi, data la sua non appartenenza diretta alle logiche della politica bruxellese. Come primo atto della nuova presidenza, è stato dato il benservito al contestato e potente segretario generale della Commissione Juncker, il tedesco Martin Selmayr – le cui dimissioni erano state già richieste due volte dal Parlamento.

 

Fratture, ricomposizioni, alleanze

La Commissione von der Leyen, però, parte con il peggiore risultato in una votazione parlamentare di ratifica della nomina del Presidente:

Von der Leyen:      383 sì – 327 no – 22 astenuti
Juncker:                422 sì – 250 no – 47 astenuti
Barroso 2:             382 sì – 219 no – 117 astenuti
Barroso 1:             413 sì – 215 no – 44 astenuti
Prodi:                    510 sì – 51 no – 28 astenuti

La tendenza sui “no” è evidente. Se la si considera dal punto di vista della tecnicità della Commissione, del consenso per un organo che dovrebbe essere rappresentativo prima che partigiano, si tratta di un dato preoccupante. Se invece la si considera un progresso nella politicizzazione della politica europea, il dato può essere letto quasi come una “normalizzazione” dell’arena continentale. Con il caveat di una frattura che non separa destra e sinistra, ma invece vede un centro dalle caratteristiche tecnocratiche che affronta una destra e una sinistra diverse tra loro, ma accomunate dall’opposizione agli accordi tra i partiti del centro. Partiti del centro che al momento non sembrano godere di grande salute: un’altra prova della debolezza della Commissione è che se la nomina di von der Leyen non fosse passata, Consiglio europeo e Parlamento sarebbero caduti nel caos, senza neanche l’ombra di un piano alternativo.

Visto che la maggioranza che la sorregge è così risicata, è possibile che anche qualche membro dei partiti di opposizione meno radicali sia coinvolto nella rosa dei futuri commissari. Le poltrone nella Commissione e in altre istituzioni europee sono un modo sia per far rientrare il dissenso interno, sia per allargare il numero dei sostenitori: i 383 voti ottenuti in Parlamento vanno confrontati ai 444 che in teoria il sostegno di Popolari, Socialisti e Liberali doveva garantire a von der Leyen. E i disertori non sono stati solo 61: dato che tra i favorevoli si sono contati anche i voti del Movimento 5 Stelle e del partito polacco Diritto e Giustizia, in realtà la dissidenza interna ammonta a un centinaio di europarlamentari.

 

L’incognita delle minoranze

Più difficile, invece, che le minoranze (nel senso delle forze contrarie agli accordi di maggioranza) sia a sinistra che a destra siano incluse nelle future nomine. Le minoranze sono rimaste sempre in sostanza escluse dalle Direzioni Generali della Commissione, ma anche dalle cariche parlamentari. Delle 25 commissioni dell’ultima legislatura, solo quattro sono andate a politici non appartenenti ai gruppi Popolari, Socialisti, o Liberali. Uno alla Sinistra, uno ai Verdi e due al gruppo nazional-conservatore (con un membro polacco e uno rumeno).

Per quanto riguarda i vice presidenti del Parlamento, più o meno si è seguita la stessa logica. Nella legislatura che si sta aprendo, i vice-presidenti sono ben 14. Di questi, solo quattro non appartengono ai gruppi Popolari, Socialisti o Liberali: due Verdi, uno della Sinistra e uno del M5S. Nella scorsa legislatura la ripartizione era 11/3. Nella precedente (2009-2014) 12/2. Tra i tanti vice-presidenti, tre hanno un’importanza speciale, perché sono destinati a far parte del comitato di conciliazione che deve discutere con il Consiglio UE (i ministri) le proposte parlamentari che questo non approva, fino a trovare appunto una mediazione. Nell’ultima legislatura, i tre erano un popolare, un socialista e un liberale: alle “minoranze”, nulla.