Un approccio europeo pragmatico al contro-terrorismo: imparare dagli errori
Il terrorismo di ispirazione islamista mette a dura prova istituzioni e società europee, ma con gradualità e accenti diversi. La posizione del tema nell’agenda politica non è apicale per tutti. I Paesi del Nord, per esempio, non vedono la questione come pressante, mentre per quelli della parte centrale del Continente – come Francia e Belgio – e di frontiera – come l’Italia – la lotta al terrorismo rappresenta un tema tanto sensibile quanto controverso.
L’incidenza del fenomeno si declina diversamente in base a caratteristiche endogene dei vari Paesi. Per Belgio e Francia – rispettivamente gli Stati con il più alto numero di foreign fighters per milione di abitanti (41) e di cittadini e/o residenti combattenti all’estero (900 su un totale di circa 4000 stimati per l’intera area UE) – la questione riguarda principalmente le periferie. Luoghi di particolare esclusione sociale, queste rappresentano terreno fertile per la radicalizzazione, sia in termini di reclutamento tramite internet sia per numero di foreign fighters. Le stesse periferie, invece, risultano meno problematiche nel caso di Germania e Gran Bretagna, gli altri due Paesi con maggior numero di combattenti.
In Italia il numero di islamisti radicali e foreign fighters non risulta particolarmente elevato, ma in quanto destinazione di ingenti flussi migratori il territorio italiano può essere utilizzato come base logistica (ad esempio per il transito di armi o per la creazione di documenti falsi, come già accertato).
Nonostante sia possibile tracciare alcune linee di azione e criticità comuni, il fatto che la questione terroristica rientri nell’alveo della sicurezza nazionale rende la cooperazione a livello europeo ancora più complessa di quanto non avvenga in altri settori.
È indubbio che una maggiore condivisione delle informazioni tra i Paesi membri consentirebbe più efficienza nel contrasto al fenomeno – sempre più transnazionale nelle sue modalità. Sarebbe altrettanto utile la creazione di uno schema d’azione generale a livello politico-strategico, ma anche operativo. L’individuazione di un piano politico di azione condiviso dai Paesi membri, oggi mancante, porrebbe le basi per un utilizzo efficiente degli strumenti operativi comuni già a disposizione o futuri (come la condivisione delle informazioni del PNR). Per fare un esempio, la condivisione delle informazioni con Europol (struttura che conta 900 funzionari e 185 ufficiali distaccati a fronte di 500 milioni di europei) avviene ad oggi su base volontaria.
Sebbene l’utilizzo di database come l’Europol Information System e il SIS II (Schenghen Information System) sia in aumento, la copertura offerta da questi strumenti risulta parziale e frammentata – per esempio, i foreign fighters censiti sono 1500 a fronte dei 4-5000 partiti.
L’introduzione di una simile cornice politico-giuridica sancirebbe quindi il superamento della reticenza statale rispetto alla condivisione delle informazioni. Ma la sua efficacia sarebbe subordinata alla risoluzione di uno dei problemi a oggi più rilevanti nella lotta al terrorismo internazionale in Europa: la selezione delle informazioni rilevanti. Come emerso a seguito degli attentati che hanno colpito Francia e Belgio tra novembre 2015 e marzo 2016, i servizi di intelligence raccolgono a oggi enormi quantità di informazioni, ma incontrano difficoltà nel classificarle in ordine di priorità. La circostanza è confermata dal fatto che quasi tutti gli attentatori di Parigi e Bruxelles erano passati sotto la lente dei servizi. Complice la radicalizzazione rapida e “informatizzata”, risulta difficile controllare costantemente tutti gli individui potenzialmente pericolosi con le forze oggi a disposizione – che oltre a essere in numero esiguo, si trovano spesso impreparate all’analisi di un fenomeno con caratteristiche peculiari e sfuggenti, e in continua evoluzione.
Utilizzando i mezzi e le risorse umane disponibili, e trovandosi nella necessità di attuare delle strategie di emergenza per aver tralasciato a lungo la questione (seppure non certo recente per il Vecchio continente), i Paesi europei stanno intervenendo in modo prevalentemente reattivo. In particolare, questo approccio si concretizza in strategie di mitigazione del rischio che trovano il loro apice nell’aumento dei controlli. Camminando per le strade di Parigi e Bruxelles, così come in quelle di Londra e Roma, o per gli aeroporti e le stazioni ferroviarie di Berlino e Madrid,, quello che emerge è il forte dispiegamento di forze per il pattugliamento del territorio e soprattutto dei “punti deboli” meglio noti. In sostanza, la visibilità di forze di sicurezza armate si aggiunge all’intensa attività basata su intercettazioni e monitoraggio con strumenti tecnologicamente avanzati.
Se questo rappresentasse il prodromo di un ritorno all’HUMINT (la HUMan INTelligence tanto utilizzata durante la Guerra fredda), i Paesi europei starebbero probabilmente andando nella direzione giusta. Ma il solo aumento dei controlli e delle restrizioni (legislazione di emergenza francese su tutte), per quanto si stia rivelando efficace in alcuni casi – diversi sono stati gli attentati sventati negli ultimi mesi –, non ha la capillarità né l’efficienza che servirebbero per contrastare più a fondo un fenomeno che si evolve più velocemente delle strategie pensate per arginarlo. Più concretamente, mentre ci si concentra sullo smantellamento di cellule strutturate, si moltiplicano le azioni di soggetti singoli, spesso radicalizzatisi attraverso internet e non sempre legati a gruppi ben organizzati.
Nonostante la loro presenza non sia una novità nel panorama europeo, i lupi solitari rappresentano a oggi la sfida più grande nella lotta al terrorismo. Fra le cause principali della loro diffusione si può individuare un’altra carenza nelle strategie di contrasto, cioè l’assenza di “controinformazione” e “contronarrativa” adeguate rispetto alla minaccia diretta e concreta posta dalla comunicazione massiccia proveniente da fonti estremiste.
In questo il fallimento attuale riguarda l’informazione nella sua accezione più ampia: invece di creare una narrativa atta a contrastare le azioni dei lupi solitari, i racconti e il lessico dei media fanno in qualche modo gioco alla narrativa dello Stato Islamico. L’assassinio della parlamentare Jo Cox in Gran Bretagna, la strage di Orlando e l’uccisione di due poliziotti a Magnanville (60 km da Parigi), ricondotti tutti sotto il cappello di “terrorismo”, non dovrebbero essere analizzati secondo la stessa lente. Facendolo, si dà al terrorismo di matrice jihadista una coesione che in realtà esso non ha, con conseguenze tanto importanti quanto pericolose. La possibilità di contribuire alla causa di ISIS rende la radicalizzazione attraente per i giovani delle periferie, che la interpretano come la possibilità di guadagnarsi il proprio posto nel mondo. Dall’altro la paura generalizzata aumenta, fomentando sentimenti xenofobi e, conseguentemente, la stessa radicalizzazione. E ancora, tutto questo funge da pubblicità indiretta per lo Stato islamico: il movimento maschera le continue sconfitte sui campi di battaglia del “Siraq” millantando una diffusione capillare della lotta contro gli infedeli e giustificandola attraverso la rivendicazione di qualsiasi azione con connotazione vagamente terroristica.
Fornendo gli strumenti per meglio comprendere la reale entità della minaccia terrorismo islamico in Europa, controinformazione e contronarrativa potrebbero rivelarsi un’arma efficace per spezzare il circolo vizioso appena descritto – anche se per sua natura un tale approccio richiede tempo e non può comunque avere effetti miracolosi
La Francia sembra comunque aver colto questa necessità. Con la campagna di informazione Stop-djihadisme, il Governo francese mira a smantellare la filiera di reclutamento nel Paese e ad attivare la popolazione contro la radicalizzazione. Su internet e sui social network vengono diffuse informazioni su cosa è la minaccia terroristica e come Parigi cerca di contrastarla, come si recluta via web e come la popolazione francese può agire per arginare la radicalizzazione. Iniziative di questo genere potranno essere estese e meglio focalizzate ai vari contesti nazionali o locali, proprio in base all’esperienza che sarà accumulata raccogliendo i feedback dei cittadini più attivi e meglio informati.
Il terrorismo in Europa non è un fenomeno nuovo nella sostanza, ma assume oggi una forma peculiare. In questo l’azione a livello comune può essere certamente un aiuto – sia a livello di corretta informazione che per quanto riguarda la condivisione dei dati – ma non è risolutiva senza delle strategie nazionali efficaci.
La sfida per i Paesi europei è quella di uscire dall’attuale reattività e passare alla proattività, cercando di agire sui punti nevralgici che rendono il terrorismo diffuso nella sostanza e – forse ancor di più – nelle percezioni.