Trump e le prospettive di pace in Ucraina
Quali prospettive apre la Realpolitik di Donald Trump in relazione ai vari conflitti, al di là delle sue vanterie di statista che chiude le guerre e non ne apre di nuove? La grande incognita è la sua politica di deterrenza verso la Cina: prevarrà la sua vocazione isolazionista o l’orgoglioso rifiuto di darla vinta a Pechino su Taiwan e sul rispetto del diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale? In Medio Oriente non è in dubbio l’appoggio incondizionato a Benjamin Netanyahu, che si tratti di Gaza, del Libano, della Cisgiordania o del Tribunale dell’Aja; resta solo da domandarsi se Trump vorrà assecondare un conflitto diretto fra Israele e l’Iran, in cui gli USA verrebbero inevitabilmente coinvolti, o invece – come sembra più ragionevole aspettarsi – si accontenterà di tornare ad esercitare “maximum pressure” per indebolire economicamente l’Iran e tentare di estorcere a Teheran la rinuncia ad armare Hezbollah e gli Houthi.
È sul conflitto russo-ucraino che dal vincitore delle elezioni verrà una spinta verso la pace, dato che – in contrasto con l’atteggiamento verso Israele – è intenzionato ad esercitare pressioni su Volodymyr Zelensky, attraverso un taglio delle forniture militari. Le pressioni non sono certo necessarie per convincerlo a negoziare, giacché il leader ucraino è già ben consapevole della impossibilità di ribaltare le sorti della guerra, e della war fatigue nel Paese, ma per fargli accettare le condizioni che Mosca considera irrinunciabili. Possiamo sperare che Trump resista alle richieste più massimalistiche di Mosca per salvaguardare il proprio prestigio, ma Putin saprà tenergli testa e farà pochi sconti.
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Sul piano territoriale, è da tempo evidente che la guerra sfocerà nella migliore delle ipotesi in una cristallizzazione delle zone occupate, difficilmente reversibile, che Zelensky subirà senza dover consentire alcuna formale cessione di territorio, come è stato in altri “conflitti congelati”: Georgia, Moldova e Cipro. Fra le “realtà esistenti” che esige vengano riconosciute, Mosca include però anche le porzioni non ancora conquistate delle quattro regioni formalmente annesse nel 2022. Cioè, oltre a quelle di Donetsk e Lugansk (Donbass), anche quelle di Zaporižžja e Kherson, con gli omonimi capoluoghi situati in riva e alla foce del Dnepr, tuttora sotto controllo ucraino.
Qui sembra esservi del margine negoziale: se Trump si mostrerà abbastanza risoluto nel respingere ogni ulteriore avanzamento russo oltre la linea di contatto, Mosca dovrà rinunciarvi, pretendendo qualche contropartita, in primo luogo l’evacuazione di eventuali lembi di proprio territorio ancora in mani ucraine. Ma sembra decisa a liberare quelle zone della provincia di Kursk con le armi, prima dell’insediamento di Trump, e non al tavolo dei negoziati; e tenta di fare altrettanto con le parti ancora non conquistate delle quattro regioni, e per questo sta intensificando l’offensiva senza badare al costo in vite umane. Se ci riuscirà, la questione territoriale sarà stata risolta sul campo di battaglia.
Kiev dovrà comunque rassegnarsi a lasciare alcuni milioni di connazionali ucraini in balia di un regime oppressivo e della russificazione forzata, ma questo sacrificio è proponibile solo se bilanciato da clausole che garantiscano il diritto di emigrare verso le regioni libere e, per converso, il diritto dei “rifugiati” di tornare alle proprie case se disposti a sottomettersi all’occupazione russa.
Al di là delle mire territoriali, il Cremlino ha, anche recentemente, subordinato la disponibilità ad un armistizio al raggiungimento dei suoi obiettivi bellici, dichiarati sin dall’inizio della “operazione speciale”: neutralizzazione, la cosiddetta denazificazione, smilitarizzazione.
La non ammissione alla NATO ha una certa valenza geopolitica, ma in funzione più simbolica che di sicurezza: attenua quello che agli occhi dei russi è un umiliante accerchiamento. Non impedisce, come non ha impedito in questi dieci anni, di armare l’esercito ucraino ed addestrarlo. È una moneta di scambio che Zelensky e i suoi protettori occidentali devono essere pronti a spendere, certo non gratuitamente.
La denazificazione, originariamente intesa come regime change, con la creazione di un governo fantoccio e purghe di elementi nazionalisti, può essere derubricata all’indizione di nuove elezioni (preferibilmente con la rinuncia di Zelensky a presentarsi, che però non sarà facile imporre), eventualmente con l’esclusione di liste che si richiamano alla tradizione di milizie collaborazioniste dell’epoca dell’invasione nazista.
Più problematica è la pretesa di smilitarizzazione unilaterale dell’Ucraina, con clausole analoghe a quelle imposte alla Germania a Versailles, perché verrebbe percepita come il preludio al terzo balzo per la conquista dell’intero paese entro qualche anno. Zelensky aveva accettato di discuterne nella primavera del 2022, non potrà perciò escluderle categoricamente ora che la sua posizione è molto più debole. Sarà un negoziato particolarmente difficile.
Ad evitare che ciascuna parte sospetti l’altra di voler solo ottenere una pausa per rimettersi in grado di attaccare l’altra, si parla di una forza di interposizione europea. Un progetto poco attraente per Mosca, e comunque di difficile realizzazione. Quali Paesi europei sarebbero disposti a fornire contingenti armati? Quali regole di ingaggio concordare? Quanto numeroso dovrebbe essere uno schieramento del genere per essere realmente efficace lungo un confine di centinaia di chilometri? Esistono pochi precedenti efficaci, e non riguardano conflitti di cui sia parte una grande potenza. UNIFIL non ha mai impedito invasioni di territorio libanese, limitandosi ad osservarle. E il corpo di osservatori dispiegato dall’ OSCE in Ucraina dopo gli accordi di Minsk non ha impedito le frequenti violazioni del cessate-il-fuoco, le ha solo contabilizzate.
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Perché la pace “realistica” qui ipotizzata – non certo una “pace giusta”– possa durare occorrerà, volens nolens, che sia accompagnata da una graduale normalizzazione dei rapporti con la Russia, compresa l’attenuazione delle sanzioni. A più breve termine, nell’attesa di una iniziativa diplomatica del Presidente americano entrante, è essenziale che l’Ucraina riceva tutte le armi necessarie ad impedire un crollo del fronte che la esporrebbe ad un vero e proprio Diktat.
Lo slogan “Basta armi, è l’ora della diplomazia” fa il gioco della propaganda di Mosca, che non ha dato alcun segno di voler negoziare seriamente prima di avere ulteriormente migliorato le proprie posizioni sul terreno. Questione diversa è l’invio di missili offensivi da impiegare sul territorio russo, di cui è discutibile il valore strategico ma sicuro il potenziale di escalation.