I risultati del Midterm ci hanno lasciato almeno un verdetto chiaro: anche Donald Trump subisce gli effetti della legge di gravità nella sua versione politica. Un Presidente per molti versi eccezionale ha sperimentato il normale trattamento riservato dagli elettori americani in occasione delle elezioni di metà mandato, per cui il partito della Casa Bianca perde terreno. La Camera passa ai Democratici con una maggioranza abbondante, sebbene i Repubblicani mantengano il controllo del Senato con un margine più ampio rispetto al 2016.
E’ vero senza dubbio che Trump conserva una grande forza d’urto politica: lo si è visto soprattutto nelle vittorie dei candidati che ha direttamente appoggiato, soprattutto al Senato dove ha concentrato i suoi sforzi. Ciò detto, il quadro è obiettivamente cambiato, e se ne possono trarre alcune prime ragionevoli proiezioni verso l’appuntamento presidenziale del novembre 2020. Si tratta in realtà di facili previsioni su tendenze strutturali, nel senso che non considerano i sempre possibili “cigni neri”; ma i dati strutturali sono un utile punto di partenza.
In primo luogo, i maggiori protagonisti della vita politica americana guardano d’ora in avanti proprio al ciclo presidenziale che si chiuderà con il voto tra 24 mesi, mentre il ciclo economico ha alte probabilità di registrare un netto rallentamento: questa è la doppia cornice in cui i comportamenti di Donald Trump saranno valutati, anche dai sui alleati più o meno convinti o dubbiosi. Per i Democratici ciò significa naturalmente preparare da subito una strategia di attacco (al contempo economica e sociale) e identificare candidati credibili a correre per la presidenza. Se finora il risentimento economico-sociale (in parte della classe media e in parte dei “blue collars”) ha avvantaggiato il Presidente, soprattutto per la disponibilità della classica ricetta del taglio fiscale, in una fase di rallentamento della crescita le cose potrebbero cambiare notevolmente. In quel diverso contesto, alcune idee del campo progressista – e forse perfino dei “Socialisti d’America” su posizioni più a sinistra – avrebbero maggiore risonanza con l’elettorato.
In secondo luogo, Trump avrà un rapporto ancora più turbolento con il Congresso, a cui darà la colpa di quasi ogni inefficienza del sistema politico e legislativo. Lo ha già fatto quando entrambe le camere erano a maggioranza repubblicana, e lo farà ora con molta più intensità. Essendo la Corte Suprema in mani saldamente conservatrici (come anche la maggioranza dei governatorati, dove comunque i Democratici hanno riguadagnato terreno), è sul Congresso che si scaricheranno le tensioni dell’agenda politica che il Presidente farà molta fatica a realizzare. A maggior ragione se, come probabile, saranno presto avviate indagini parlamentari di vario tipo contro diversi membri dell’Amministrazione, fino allo stesso Capo dell’esecutivo. Prepariamoci ad attacchi al vetriolo contro i pigri e incapaci membri della “peggiore” élite di Washington. Il clima politico non diventerà affatto più disteso.
Infine, le decisioni di politica estera rimangono essenzialmente una prerogativa presidenziale, ma il Congresso (seppure in misura assai minore la Camera rispetto al Senato) ha un suo ruolo costituzionale significativo. Vedremo dunque, in ogni caso, un certo attivismo della leadership democratica alla Camera nel contrastare molte scelte del Presidente; queste iniziative potranno a volte mettere in difficoltà anche la maggioranza repubblicana al Senato – viste le divisioni interne al GOP sul commercio internazionale, sui criteri per l’uso della forza militare nelle crisi regionali, sul valore delle grandi alleanze come la NATO, e su altri temi importanti.
E’ possibile insomma che si creino temporanee coalizioni parlamentari per porre un freno alla volatilità della Casa Bianca. E non va dimenticato che in eventuali situazioni di crisi acuta – economica o di sicurezza – Donald Trump ha un grave handicap: non riesce a unire il Paese attorno alla presidenza.