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Studiare Mario Draghi – a partire da Rimini

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L’intervento di Draghi al meeting di Rimini dell’agosto 2020 può essere oggi riletto per interpretare le sue prime mosse come Presidente del Consiglio, e meglio collocarlo concettualmente. L’intervento prende le mosse da una discussione che, a partire dall’analisi delle politiche di bilancio e delle modalità di intervento sui mercati da parte delle autorità monetarie (Banche Centrali – BC) post-crisi finanziaria, è poi sfociata nella valutazione del finanziamento delle prime da parte delle seconde, con proposte più o meno velate di tornare al consolidamento del bilancio delle BC all’interno del bilancio statale. Si è così riaperta una diatriba che data decenni con polemiche, spesso aspre, e che ritornano con la regolarità di un pendolo al variare delle crisi e del ciclo economico.

Mario Draghi

 

Lo scritto di Martino Lo Cascio e Mauro Aliano (Draghi a Rimini. Note e letture al contorno sull’Europa, il villaggio globale e il buon samaritano, Biblioteca Scientifica Europea), prendendo lo spunto proprio dalla relazione fatta da Mario Draghi a Rimini, richiama alcuni tra gli elementi più caldi della discussione di politica economica e monetaria di questi ultimi anni, non solo a partire dalla esplosione della pandemia Covid-19 ma già dalla precedente crisi finanziaria del 2008-09, seguita dal credit crunch in Europa del 2011-12.

In realtà, Draghi ha preso l’occasione del meeting di Rimini per parlare a 360 gradi del ruolo delle politiche economiche e dei fattori determinanti che dovrebbero guidare l’azione dei policy maker. Agli elementi relativi alle modalità di intervento delle Banche Centrali, si accompagnano dunque considerazioni di tipo etico sulla necessità di affrontare la pandemia e la profonda crisi economica da essa causata tenendo presente non solo il dramma che essa ha comportato per l’elevato numero di perdite di vite umane, ma anche le difficoltà indotte dalla caduta dell’occupazione, dalla perdita di produzione e consumi e dall’aumento della povertà.

In questo contesto, alcuni punti – tra i tanti ripresi da Lo Cascio e Aliano – appaiono particolarmente rilevanti.

Le crisi recenti, compresa quella conseguente alla pandemia, trovano radice nei – o vengono amplificate dai – problemi strutturali che le economie avanzate hanno cumulato negli ultimi decenni e sfociati nella “stagnazione secolare” (concetto diffuso in particolare prima da Robert Gordon e pochi mesi dopo da Lawrence Summers). I principali sono noti e gli autori non mancano di ricordarli: il baby boom demografico, prima e l’invecchiamento della popolazione, poi, a determinare gravi squilibri nei sistemi di welfare e nei bilanci pubblici; il rallentamento della dinamica del progresso tecnologico seguente all’affievolirsi della penetrazione della digitalizzazione; la preoccupante ascesa del debito globale sia pubblico che privato.

Con la crisi finanziaria dei subprime prima e quella della pandemia Covid-19 poi, il mondo si è trovato davanti a un bivio – procedere verso la cooperazione sociale e internazionale oppure ripiegarsi nel nazionalismo e nel protezionismo. Dal punto di vista del sistema economico le armi a disposizione non restavano che quelle dell’espansione monetaria e fiscale – oggi, marzo 2021, possiamo dire (con qualche valida speranza) che abbia prevalso la cooperazione.

L’emergenza sociale paradossalmente più urgente e allo stesso tempo dalle conseguenze di lungo termine più rilevanti riguarda la potenziale perdita di fiducia e di prospettiva futura da parte delle nuove generazioni. Particolarmente interessante e utile in questo contesto il richiamo degli autori alle nuove forme di lavoro, quelle knowledge intensive, ossia quelle più legate alle tecnologie più avanzate e alla preparazione personale. “Un lavoro, quest’ultimo, avrebbe detto Keynes, ai confini con il tempo libero, non più in trade-off con il capitale, ma esso stesso un output che ha come input la conoscenza”. Queste nuove forme di lavoro-prodotto appaiono caratterizzarsi da un allontanamento dalle categorie storiche del “lavoro” e del “prodotto” usate fino ad oggi. Forse oggi esse ci appaiono knowledge-intensive perché alle frontiere della odierna conoscenza e tra 50 anni saranno considerate “lavoro” come noi oggi vediamo il lavoro per produrre una lampadina, lavoro che a fine ‘800 era appunto ad alto tasso di conoscenza. Ma la discriminante vera e moderna sarà nella capacità di auto-innovarsi e auto-aggiornarsi, ossia nella capacità di flessibilità e riorientamento ricevuta dalla formazione scolastica e poi dalla formazione continua. Se sarà così, e questo si legge tra le righe di quello che dicono gli autori, il lavoratore potrà contare sulle proprie conoscenze come fonte di reddito e avremo fatto un grande passo in avanti nella direzione della libertà individuale.

Una considerazione più discutibile è invece quella che indica il Quantitative Easing (QE) come una forma di svalutazione del debito, paragonato ad una forma di condono del debito stile Hammurabi.

Per gli autori “il binomio tecnologia-globalizzazione, con l’estensione geografica di segmenti di filiere esternalizzate dalle transnazionali apolidi ha determinato una sorta di Vulnerability Jump i cui rischi non son chiarificati dal mercato e si aggiungono nell’occidente soprattutto europeo ai rischi di deflazione. Chi ne detiene il potere di esclusione nei confronti delle produzioni nazionali tramite politiche di prezzo calante o di qualità crescente (obsolescenza indotta e pubblicità per ogni dove) si accrediterebbe di risorse monetarie o di carta cui non corrispondono sempre investimenti o domanda reali. Viene via via sempre meno l’endogeneizzazione delle condizioni di lavoro proprie dell’economia fordista. I QE dei ruler delle banche centrali costituiscono una risposta euristica alla inutilizzazione del fattore lavoro, del mancato ammortamento dello stock fisico e naturale e delle conseguenti domande, una svalutazione del debito che si sarebbe realizzata con inflazione nei tempi andati”.

Gli autori si rifanno a Keinichi Ohmae (un ingegnere chimico, diventato molto noto come teorico del management) che stimava già 15 anni fa come la ricchezza di “carta” fosse pari a 5 volte il PIL mondiale (un dato però distorto dalla valutazione degli strumenti derivati e che non trova riscontro nei dati ufficiali delle organizzazioni internazionali). Secondo l’interpretazione degli autori, Draghi avrebbe suggerito, nella situazione attuale, una cancellazione del debito alle imprese “buone” finanziato, in ultima istanza, dalla garanzia dello stato. Secondo questa interpretazione “i QE servirebbero a comprare tempo e a ritardare, non neutralizzare il meccanismo di aumento del rapporto ricchezza finanziaria sullo stock monetario di capitale, che incide sulla sperequazione dei redditi e della ricchezza”. Mentre appare condivisibile la considerazione del QE come policy orientata a guadagnare tempo, al fondo delle considerazioni di Lo Cascio e Aliano appare esserci una sottovalutazione della complessità del sistema moderno di relazioni economiche, industriali e finanziarie. L’intreccio tra creditore “buono” e creditore “cattivo” è oggi inestricabile. Allo stesso tempo la stagnazione secolare con la forte deflazione che ne è derivata non consente di considerare il QE come una forma di svalutazione del debito.

In realtà, a fronte di questa interpretazione, relativa alla cancellazione del debito solo alle imprese “buone”, c’è il complesso tentativo di Draghi, portato avanti in numerosi suoi interventi pubblici a fronte delle “acque incognite” nelle quali stiamo navigando, di combinare in maniera ottimale politica monetaria e politica fiscale, mantenendone comunque la separazione.

A ciò si aggiunge una considerazione di tipo etico. Una qualsiasi forma di condono del debito come strumento di policy è poco attenta alle esigenze di equità tra debitore e creditore (a meno che quest’ultimo non si sia impossessato del suo capitale illegalmente). Peraltro, il condono à la Hammurabi – richiamato nel libro – era possibile solo perché il sovrano era in definitiva l’unico creditore e poteva decidere di sua sponte di condonare il debito senza che ciò comportasse (beato lui) alcuna diminuzione della sua ricchezza o di quella del suo entourage.

Così non è nel mondo moderno, dove perfino le banche centrali non sono in grado di annullare quote significative di debito senza conseguenze perverse sul sistema economico. Oggi il solo parlare di condono o svalutazione del debito può presentare risvolti dubbi sia etici che pratici, questi ultimi a causa della moral hazard del debitore che ne conseguirebbe inevitabilmente.