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Storia di due bilanci

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ll D-(eal) Day dell’Europa post-COVID è arrivato dopo cinque giorni e quattro notti di negoziato. Le trattative si sono chiuse all’alba del 21 luglio – che a Bruxelles, dove i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea si sono riuniti per la prima volta in presenza dall’inizio della pandemia, è festa nazionale. “Una giornata storica”, nelle parole del presidente francese Emmanuel Macron, che si è confermato nella cabina di regia dell’intesa insieme alla Cancelliera tedesca Angela Merkel e al presidente del Consiglio europeo Charles Michel. E sull’intesa è arrivata addirittura la benedizione del Dalai Lama: “La UE dimostra saggezza e maturità in un mondo spesso destabilizzato”.

L’accordo sul Recovery Fund “Next Generation EU” e sul bilancio pluriennale 2021-2027 (il Multiannual Financial Framework, MFF) è stato salutato coralmente come un atto di coraggio e di solidarietà da parte di un’Unione acciaccata che, di fronte alle disastrose conseguenze socio-economiche della pandemia, ha deciso non solo di restare unita, ma –  nonostante le differenze di vedute e di agenda politica nazionale fra diverse coalizioni di Stati membri – anche di rilanciare in qualche modo il proprio impegno per il progetto politico di integrazione. Lo ha fatto mettendo sul tavolo la più imponente dotazione finanziaria settennale vista ad oggi, autorizzando per la prima volta l’emissione di debito comune (un tabù, ancora qualche mese fa), da ripagare entro il 2058 anche facendo ricorso a nuove risorse proprie, il meccanismo di entrate di natura fiscale dell’Unione.

Il primo ministro olandese Mark Rutte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, il Presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e il Presidente francese Emmanuel Macron, tra i protagonisti delle trattative per il Recovery Fund

 

L’altalena dei numeri

Eppure, le 67 fitte pagine di Conclusioni del Consiglio europeo raccontano un film più complesso. Raccontano la storia di due bilanci. Da un lato c’è il Recovery Fund, il piano per la ripresa dell’Unione, mirato in particolare ai territori e ai settori economici maggiormente colpiti dalla crisi sanitaria e dai conseguenti lockdown. La bozza era stata formalizzata a fine maggio dalla Commissione sulla scia della proposta congiunta avanzata poco prima da Francia e Germania, di cui il Consiglio europeo ha mantenuto inalterato l’ammontare complessivo (750 miliardi di euro, tutte le cifre sono da intendersi in prezzi costanti 2018), pur variando la ripartizione tra sovvenzioni (390 miliardi, anziché 500) e prestiti (360 miliardi, anziché 250).

Dall’altro c’è invece l’MFF, il bilancio settennale che da decenni finanzia i programmi europei, dalla ricerca all’agricoltura, dal sociale all’istruzione, dal digitale all’azione esterna, finito in secondo piano, sacrificato sull’altare dell’agognata intesa tra i capi di Stato e di governo. L’accordo sul bilancio prevede oggi una dotazione complessiva pari a 1.074mila miliardi, pressoché analoga (nonostante sia nel frattempo intervenuta la Brexit) a quella del settennato che sta per concludersi, ma una cifra al ribasso rispetto ai 1.100 previsti dalla Commissione e decisamente lontana da quota 1.300, auspicata dal Parlamento europeo ancora tre mesi fa. L’MFF s’è rivelato, in buona sostanza, vittima della stessa intuizione della Commissione europea di ancorare il Recovery Fund all’esistente proposta di budget per rivitalizzare un negoziato che s’era andato a cacciare in un vicolo cieco. La proposta di MFF 2021-2027 era infatti finita impantanata per due anni nelle trattative interistituzionali; e ciò nonostante fra meno di sei mesi dovrà essere in vigore per finanziare i capitoli di spesa dell’Unione.

Invece, il Recovery Fund si è sviluppato “per partenogenesi” in seno all’MFF ed è uscito, in solitudine, trionfante dal Consiglio europeo, dirottando sul bilancio settennale e sui programmi che lo compongono le controversie e, in ultima analisi, i tagli (o, meglio, i mancati aumenti o stanziamenti).

Il Parlamento europeo non ha tardato a sottolineare questo aspetto, in una risoluzione condivisa dai maggiori gruppi politici dell’emiciclo: i leader degli Stati membri dell’Unione hanno fatto uno sforzo senza precedenti per mettere a punto una risposta storica alla pandemia, ma hanno privilegiato il breve termine (Recovery Fund) alla programmazione di medio-lungo respiro (MFF), e la ripresa nell’immediato alla programmazione proiettata nel futuro, quella “resilienza” che pure è slogan ricorrente di “Next Generation EU”.

Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli

 

Il bilancio 2021-2027 “perde” (sempre che di vittorie e sconfitte si possa parlare, davanti a un negoziato così complesso) su due fronti. Per prima cosa, appunto, la dotazione globale non si attesta alle quote più ambiziose proposte da Commissione o Parlamento,  necessarie per triplicare Erasmus+ o potenziare la difesa e le capacità militari dell’UE. Inoltre, l’accordo del Consiglio europeo altera parzialmente l’architettura originaria di “Next Generation EU”, tagliando quei trasferimenti provenienti dal Recovery Fund che avrebbero “rimpolpato” le finanze dei programmi dell’Unione come Horizon Europe, per la ricerca, o creato una strategia di sviluppo dei sistemi sanitari europei (EU4Health, scomparsa dai radar). Due programmi che avevano l’obiettivo fondamentale di “comunitarizzare” – anziché nazionalizzazione – la risposta straordinaria alla pandemia.

A beneficiare di questa operazione è infatti la “Recovery and Resilience Facility (RRF)” – aumentata di oltre 110 miliardi di euro – cioè la linea che finanzierà gli stessi Stati membri sulla base dei loro piani di ripresa post-pandemia. I fondi della RRF non sono erogati attraverso i programmi del bilancio europeo ma sono destinati direttamente agli Stati membri che, per avervi accesso, dovranno presentare dei piani nazionali la cui sostenibilità sarà garantita da “riforme strutturali”. Questi saranno valutati dalla Commissione europea, anche sulla base di condizioni specifiche e della coerenza con le raccomandazioni proprie del Semestre europeo. Saranno infine approvati – amara concessione nella governance del fondo fatta all’istituzione più vicina alle istanze intergovernative – dal Consiglio dell’Unione a maggioranza qualificata dei suoi membri. La maggioranza qualificata sarà soddisfatta se sono integrati contemporaneamente due requisiti: il 55% degli Stati (15 su 27) che rappresentino almeno il 65% della popolazione totale dell’UE, il che rende una minoranza di blocco sempre possibile, ma meno plausibile senza il concorso di uno dei Paesi più grandi.

Nella traslazione verso gli Stati del giudizio sui piani nazionali di implementazione delle risorse del Recovery Fund, su spinta ungherese-polacca l’ancoraggio dei fondi al rispetto dello stato di diritto è stato molto attenuato, mentre la volontà olandese di richiedere l’unanimità è stata diluita in un più blando “freno d’emergenza” attivabile da “uno o più Stati membri” laddove si ritenga “che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”. Si tratta di uno stop capace non di bloccare la decisione ma di ritardarla, riferendo la questione al Consiglio europeo, e dandole cioè il più ampio respiro politico.

 

Vincitori e vinti tra marketing e realtà

Insomma, un puzzle di mosse politiche da “rivendere” in patria per i singoli leader, e per alcune delle quali potrebbe rilevare più l’interpretazione domestica che la sostanza.

Nel walzer di numeri e percentuali, il dato di riferimento è quello che fa la differenza anche nel marketing politico. Per Charles Michel – che, forte dell’esperienza da mediatore come premier del litigioso Belgio, emerge dalla cinque giorni con la statura di leader europeo – l’aumento è chiaro e netto se rapportato al bilancio 2014-2020 (1.087 miliardi, in prezzi 2018) e soprattutto al venire meno del contributo di un membro “pesante” quale il Regno Unito.

La “standing ovation” al Senato per Giuseppe Conte alla prima seduta dopo l’approvazione del Recovery Fund

 

Per la Commissione il libro dei sogni parlava però di altri numeri e tracciava un disegno che partendo dall’emergenza avrebbe tracciato il futuro di un’Unione più geopolitica, verde e digitalizzata, facendo leva proprio sulle nuove risorse di “Next Generation EU” (permane comunque forte il legame con gli obiettivi climatici, che dovranno rappresentare il 30% dell’intero stanziamento).

Il Parlamento, da par suo, reclama un ruolo nella gestione del Recovery Fund e un aumento della spesa per i programmi dell’MFF. Per non parlare dei rebate, gli sconti a cui hanno diritto i Paesi che sono contributori netti del bilancio UE e di cui nei negoziati appena conclusi hanno beneficiato i cosiddetti “frugali”, ma anche la Germania: “Retaggio di una vecchia Europa” – si è sentito dire in Aula – quella di Margaret Thatcher, storica campionessa dei rebates, che usava il libro contabile per calcolare vantaggi e svantaggi della partecipazione del Regno Unito.

 

Il passaggio parlamentare

Tocca adesso agli eurodeputati pronunciarsi, idealmente a ottobre, sul testo dell’MFF che, a partire dalle Conclusioni del 21 luglio, dovrà essere adottato all’unanimità dal Consiglio sotto presidenza di turno tedesca. Insomma, il sì del Parlamento – che può porre il veto, ma non emendare – non è da considerarsi acquisito. Ben consapevole del difficile equilibrio che s’è creato, l’Assemblea non dovrebbe rimettere in discussione l’intero negoziato, ma utilizzare le proprie prerogative per chiedere modifiche selettive; se non sui numeri, perlomeno sui principi e gli equilibri fra istituzioni.

Un passaggio che sarà anche un test per la politica europea, chiamata a dimostrare una coerenza di indirizzo all’interno delle famiglie politiche che finora è mancata nel dialogo fra europarlamentari e governi nazionali. L’esempio più indicativo è quello del fronte socialdemocratico, spaccatosi in due fra gli esecutivi “mediterranei” di Spagna, Italia e Portogallo – sostenuti dal Partito socialista europeo e dal gruppo parlamentare S&D – e quelli “nordici” di Svezia e Danimarca, i cui capi di governo socialdemocratici – con la Finlandia un po’ più defilata – hanno serrato i ranghi dell’asse dei “frugali”. Nessuno è senza peccato, visto che il fronte del “nord” è composto da governi multicolore in cui sono al potere anche cristiano-democratici, liberali e verdi, gli altri azionisti della maggioranza che regge le sorti del Parlamento.

E simbolico è anche il caso di una forza parlamentare tradizionalmente sulle barricate e non certo di maggioranza, quale la sinistra-sinistra della GUE/NGL. I poco più di 40 europarlamentari, il gruppo più piccolo in Aula, si sono comunque spaccati tra il realismo ottimista di Pablo Iglesias (il leader di Podemos e vicepremier spagnolo, fedele – seppur in maniera critica – alla posizione filo-UE del governo di Madrid, ha salutato con soddisfazione l’accordo), e i proclami di una realtà che si definisce praticamente anti-sistema, quale la delegazione della France Insoumise.

Minimizzare la portata inedita di decisioni come l’emissione di debito comune o il via libera – che adesso dovrà, come da Trattati, essere rimesso all’approvazione dei Parlamenti nazionali –  all’aumento delle risorse proprie attraverso nuovi possibili prelievi (dalla plastica al carbonio, passando per il digitale) sarebbe un errore epocale. D’altra parte, però, nello sforzo titanico per rispondere alla pandemia si perde un’occasione preziosa per spingere in maniera decisa l’Unione verso un’integrazione più strutturata della sua economia, delle sue istituzioni e della sua politica.