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Scenari americani oltre Trump

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Mentre la personalità debordante del Presidente in carica continua – per forza di cose – a concentrare l’attenzione mediatica, è iniziata in effetti una fase politica in cui sarebbe opportuno guardare oltre Donald Trump. Ciò vale certamente per i Democratici (gli aspiranti candidati e gli elettori) ma anche per i Repubblicani.

Il primo quesito riguarda una decisione che proprio il Presidente dovrà prendere nell’arco dei prossimi sei mesi circa, ovvero a un anno dall’appuntamento elettorale. Non si dovrebbe dare per scontato che si ricandidi, sebbene ad oggi questa sia l’ipotesi naturale su cui tutti si stanno basando. La ragione sta anzitutto in una (forse superficiale ma plausibile) lettura psicologica del personaggio: Trump si è imposto nel 2016 come candidato non solo anticonvenzionale e “anti-sistema”, ma anche a sorpresa, perfino per il suo più stretto entourage. Essendo, per sua stessa ammissione, quasi ossessionato dall’obiettivo di “vincere” in qualsiasi tipo di attività, la corsa al secondo mandato presidenziale del 2020 è per lui ad altissimo rischio.

Non dimentichiamo che Trump non ha mai superato il 45% di popolarità: pur con varie oscillazioni e con le ovvie cautele nell’usare le rilevazioni dei sondaggisti, la peculiarità della sua presidenza sta nella media di questi valori – storicamente bassa – più che nei livelli inferiori come dato assoluto. In pratica, i numeri suggeriscono una carenza quasi totale di appeal per gli elettori (compresi i famosi swing voters) che non lo hanno votato; e non si vede come il Presidente possa oltrepassare questo suo limite strutturale nei prossimi mesi, dopo aver avuto a disposizione il pulpito della Casa Bianca per oltre due anni (con tanto di una maggioranza completa al Congresso fino al novembre 2018).

Il consenso degli ultimi presidenti americani all’inizio del terzo anno in carica. Fonte: Pew-Gallup

 

Risultando assai improbabile un ampliamento della base elettorale, la speranza di rielezione passa sostanzialmente per la debolezza degli avversari, su cui torneremo tra poco, ma intanto esiste la concreta possibilità, da non sottovalutare, che Trump finisca comunque sconfitto. Vi sono alcuni segnali che l’opinione pubblica americana – compresi alcuni elettori repubblicani –  è stanca di quella sorta di “caos istituzionalizzato” o crisi mediatica permanente che l’attuale amministrazione utilizza come metodo di governo. Su questo sfondo possiamo inserire la variabile personale/soggettiva: la prospettiva di perdere uno scontro testa a testa, partendo questa volta da una posizione di vantaggio oggettivo e non certo da outsider, deve essere devastante per Donald Trump. Immaginiamo un dibattito “uno contro uno” in cui buona parte dell’elettorato sia interessato all’affidabilità, alla competenza e una certa compostezza istituzionale, diversamente dal 2016; anche qualora la discussione ruotasse attorno ai buoni dati economici (sempre ammesso che restino davvero buoni fino alla vigilia del voto), e quasi a prescindere dall’avversario democratico, in che modo sarebbe davvero favorito Donald Trump?

Se questa analisi è almeno plausibile (sebbene difficilmente quantificabile in modo probabilistico, soprattutto per il fattore idiosincratico legato alla personalità) allora la scelta di ricandidarsi non appare più così automatica. In particolare per un personaggio che palesemente soffre i vincoli imposti dal sistema istituzionale, come emerge ogni giorno in modo più chiaro.

Sappiamo inoltre che Trump sarà anche sotto costante attacco parlamentare da parte dei Democratici nel contesto ancora più polarizzato prodotto dal Rapporto Mueller; pur essendo un vero impeachment altamente improbabile, sarà impossibile fermare le inchieste, perché i fronti aperti sono molteplici e almeno alcuni tra parlamentari e candidati alle primarie vorranno tentare la sorte di un assalto frontale. La combinazione di questa esposizione continua e del rischio politico di una sconfitta alle urne sarà un potente fattore che il Presidente terrà in conto.

E’ vero che, proprio di fronte alle difficoltà, può scattare nel “comandante in capo” un istinto di rivalsa e di sopravvivenza ad ogni costo, ma è altrettanto vero che la costante forzatura di regole non scritte – come quella sulla pubblicazione dei dati fiscali tuttora rifiutata, o la frequente umiliazione dei più stretti collaboratori – ha in ogni caso un certo costo elettorale. Una Casa Bianca politicamente assediata potrebbe forse sperare nell’effetto “patriottico” se chi vi abita avesse la volontà di unire e rassicurare l’opinione pubblica; ma questo non sembra davvero un punto di forza per Trump. Insomma, il clima sempre e comunque polemico che è ormai la cifra di questa presidenza non consente di sfruttare appieno il vantaggio tradizionale di parlare agli americani dal podio presidenziale o dallo Studio Ovale: Trump è per molti versi meno “incumbent” di quanto siamo abituati a pensare.

Veniamo così al dilemma per i Repubblicani: sarebbero in grado di trovare un candidato alternativo in tempi rapidi, se se ne presentasse la necessità? Quasi impossibile dirlo oggi, mentre la questione non è neppure sul tavolo, ma con ogni giorno che passa i loro destini si legano più strettamente a quelli di Donald Trump. Il GOP appare schiacciato tra l’esigenza di lavorare alla rielezione dei membri del Congresso (oltre ai Governatori) all’interno dello schema trumpiano, e lo scenario (che per ora è solo fantasioso?) di un mondo senza Trump.

Il partito non ha più trovato un equilibrio e una vera identità dopo la “scalata ostile” subita nel 2016 proprio per mano dell’attuale capo dell’Esecutivo; si è trovato coeso quasi soltanto sui tagli fiscali, che si sono innestati su una crescita già discreta (e dunque non possono averla causata) e hanno inevitabilmente fatto crescere il debito pubblico. Su quasi tutto il resto, come si vede tra l’altro in politica estera, i Repubblicani hanno badato principalmente a frenare il loro presidente e condizionare in qualche misura la sua azione.

Il secondo dilemma è legato ai candidati democratici. Di fronte a un Presidente poco popolare – e, come si è detto, poco “presidenziale” – i due personaggi che attualmente hanno maggiori chances, cioè Joe Biden e Bernie Sanders, combinano grande esperienza e un ottimo livello di “name recognition”. Ma è molto presto per fare affidamento sui sondaggi, a malapena indicativi a questo punto della fase delle primarie. E il problema ancor più grave è che i due nomi di maggiore spicco hanno in comune anche molte debolezze, essendo vulnerabili proprio per la lunga militanza politica, a cominciare dal banale fattore anagrafico. Alla data del voto di novembre 2020, Biden starà per compiere 78 anni, e Sanders ne avrà 79 –  Trump ne avrà 74. Siamo certi che sapranno ben interpretare lo spirito dell’America di oggi e dei prossimi anni? Ed è garantito che gli altri aspiranti, molti dei quali appartengono a una generazione diversa, porranno esattamente questa domanda, generando qualche imbarazzo.

Il forte rischio, per un partito che ha già riconquistato la Camera nel 2018 proprio con un forte afflusso di giovani leve, sarebbe allora quello di uno scontro tra figure che per ragioni diverse sono deboli, e per ragioni ovvie sono un po’ fuori dal tempo. Certo, il dato anagrafico non è tutto, ma nei casi di Biden e Sanders rimane l’impressione di un contrasto stridente con la continua evoluzione della società americana, comunque giovane (soprattutto secondo gli standard europei), economicamente tumultuosa e tecnologicamente dinamica. Sarà necessario offrire agli elettori una visione positiva del futuro, piuttosto che una semplice critica all’era Trump o qualche ricetta un po’ nostalgica.

Ecco quindi il quesito per i Democratici: sapranno evitare l’errore del 2016, quando puntarono tutto su Hillary Clinton per mancanza di immaginazione politica? Naturalmente, oggi le opzioni alternative sono ben disponibili e in grande evidenza, con una schiera di oltre venti aspiranti alla presidenza (o, più realisticamente in vari casi, alla vicepresidenza). Alcuni mancano di notorietà, altri di esperienza, altri ancora di un messaggio distintivo; ma certo tutti conoscono, hanno studiato e analizzato forza e debolezze di Donald Trump. Guardano quindi a un Paese diverso da quello attuale, forse in modo confuso e perfino ingenuo, ma comunque innovativo.