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Rinnovare la democrazia

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L’avanzata del populismo in Occidente, l’ascesa della Cina a Oriente e l’ubiqua diffusione dei social media inducono a ripensare i meccanismi di funzionamento – o malfunzionamento – della democrazia. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno dato origine a nuove categorie di winners e losers, e il contratto sociale non è attrezzato alla bisogna.

La Cina entra in gioco nella misura in cui sfida le disastrate democrazie occidentali a superare la polarizzazione e la paralisi raggiungendo il consenso per governare con mezzi non illiberali – col rischio di passare a un ruolo di secondo piano sulla scena globale. L’attuale leader del mondo libero si diletta a conquistare i titoli dei notiziari scagliando pungenti tweet contro questo o quell’avversario. Il presidente cinese, di contro, ha usato il proprio potere quasi dittatoriale per tracciare una roadmap per i prossimi trent’anni che spazia a tutto campo, dall’intelligenza artificiale alla nuova Via della Seta attraverso l’Eurasia, da lui considerata il prossimo stadio della globalizzazione.

 

LE SFIDE DELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI. Vi sono diversi modelli di risposta strutturale a tali sfide: la partecipazione senza populismo, la predistribuzione della ricchezza (invece della redistribuzione) e il nazionalismo positivo.

Partiamo della partecipazione senza populismo. I social network hanno favorito l’ingresso di nuovi attori nell’arena politica in proporzioni senza precedenti, per cui oggi più che mai è necessario il contrappeso di istituzioni e prassi imparziali per mettere ordine nella cacofonia di voci, nella confusione di interessi contrastanti e nel dilagare di informazioni controverse.

Per ricucire lo strappo di fiducia tra le istituzioni di autogoverno e l’opinione pubblica, la risposta migliore è quella che io chiamo una “partecipazione senza populismo” che integri i social network e una democrazia più diretta nel sistema politico attraverso nuovi organi di mediazione, complementari al governo rappresentativo.

Tutto ciò può tradursi in giurie politiche o assemblee di cittadini o, nel caso di iniziative elettorali dal basso, in una “seconda lettura” da parte dell’assemblea legislativa per correggere problemi e negoziare soluzioni con i promotori prima che una data misura sia sottoposta al voto popolare.

Un esempio significativo è ovviamente il referendum sulla Brexit. Se una simile piattaforma di deliberazione pubblica fosse stata operativa prima del referendum, e se fossero state messe in luce tutte le conseguenze oggi note, il suo esito sarebbe stato ben diverso. Il dibattito pubblico che ha preso vita nel Regno Unito dopo il voto ufficiale rispecchia esattamente il tipo di confronto che sarebbe scaturito da una piattaforma deliberativa popolare.

Passiamo alla predistribuzione. Le innovazioni del capitalismo digitale sono sempre più dirompenti e non fanno che ampliare il divario tra occupazione e reddito da un lato e aumento della produttività e creazione della ricchezza dall’altro, complice l’avvento delle macchine intelligenti.

A fronte di questa dinamica, il contratto sociale dovrebbe proteggere i lavoratori anziché i posti di lavoro, per esempio mediante benefit universali trasferibili per chi svolge mansioni soggette a continui cambiamenti, e garantire a tutti i cittadini il diritto a una percentuale della ricchezza generata dai robot che stanno soppiantando le occupazioni più remunerative. L’obiettivo è potenziare a monte le capacità e le risorse dei meno fortunati – una “predistribuzione” appunto – invece di redistribuire la ricchezza altrui ex post. È quello che io chiamo “capitale di base universale”. Non si tratta semplicemente di spezzare la concentrazione di ricchezza al vertice, ma di sviluppare risorse e opportunità dal basso. La soluzione più efficace per combattere l’iniquità nell’era digitale è distribuire l’equity.

Lo si può fare in diversi modi, dai più convenzionali ai più innovativi. Una formula classica consiste in un piano di risparmio nazionale per la creazione di un fondo sovrano al quale partecipino tutti i cittadini e che investa sul mercato a 360 gradi, a partire dai pool di venture capital, con un ritorno minimo garantito. I fondi sarebbero detenuti in garanzia per i cittadini e questi ultimi, dopo un determinato periodo di tempo (vesting period), potrebbero attingervi per le spese sanitarie o di istruzione. Un modello valido, a questo proposito, è il Central Provident Fund di Singapore. Un’altra opzione è quella delle “cooperative di piattaforma”. Se, per esempio, ogni abitante di un dato quartiere detenesse una quota percentuale dei servizi di ride hailing, per ogni corsa effettuata riceverebbe un accredito tramite blockchain. Invece di rimpinguare le casse di grosse società come Uber o Lyft, i profitti si riverserebbero sulla comunità. Analogamente, se si condividono i propri dati sanitari con una casa farmaceutica che li sfrutta per sviluppare un nuovo farmaco, si dovrebbe ricevere un pagamento in royalty. C’è poi il modello in fase di studio in California. Quando una start-up si registra come società di capitali, dovrebbe essere tenuta, magari in cambio di uno sgravio fiscale, a conferire tra il 5 e il 10% del patrimonio netto a un fondo sovrano. Se tale misura fosse stata in vigore quando Google era una semplice start-up, il fondo sovrano in questione oggi varrebbe parecchi milioni se non miliardi di dollari. Il fine è quello di assicurare una quota della proprietà intellettuale, l’asset chiave del futuro, a tutti i cittadini.

Terzo, il nazionalismo positivo. Per governare la globalizzazione, occorre ridimensionare l’“iperglobalizzazione” all’insegna del one size fits all con politiche postindustriali che favoriscano lo sviluppo delle economie nazionali (per esempio, una R&S di impatto nel campo delle batterie elettriche) abbracciando i valori di una società inclusiva, anziché le sirene del nazionalismo. Al tempo stesso, è necessario comprendere che le società aperte non possono fare a meno di confini ben definiti, pena l’inefficacia del contratto sociale. Le società e le culture sono sistemi aperti, ma i contratti sociali si reggono su obblighi condivisi da popolazioni collocate all’interno di giurisdizioni territoriali con risorse finanziarie finite. Se non allineiamo i nostri impulsi umanitari alla realtà economica, l’incapacità di soddisfare le istanze morali trasformerà le buone intenzioni in cattiva fede. Il nazionalismo positivo non si pone in contraddizione con la cooperazione globale: ne è il presupposto essenziale.

 

LA NECESSITÀ DI UN’ALLEANZA FRA RIVALI. Quanto al futuro scenario geopolitico, se il conflitto con la Cina è inesorabile, la cooperazione è imperativa. A innescare il conflitto sarà la corsa al dominio tecnologico. Nei diversi incontri che ho avuto in questi ultimi anni con il presidente cinese Xi Jinping e altre massime autorità cinesi, un aspetto è emerso con chiarezza lampante: il progetto complessivo della Cina moderna, e in particolare del “ringiovanimento” di Xi, è volto a scongiurare il ripetersi di un ritardo tecnologico rispetto all’Occidente come quello del xix secolo, e a favorire un dominio imperiale. La tecnologia trainante del nostro tempo, tuttavia, è quella informatica, in particolare l’ia. La tecnologia informatica non è semplicemente un ennesimo fattore di produzione, come le macchine utensili: ha a che fare con il flusso di informazioni, il controllo dei dati e la libertà di espressione, che sono al cuore della divergenza tra Oriente e Occidente. Se è vero che lo stesso Occidente è alle prese con il problema della privacy nell’era del “capitalismo della sorveglianza”, resta il fatto che i suoi valori fondamentali sono in profondo conflitto con l’approccio politico, culturale e di civiltà del Dragone.

La cooperazione è indispensabile per via del riscaldamento globale. A tal fine, la strada migliore passa per l’instaurazione di un’“alleanza tra rivali” sul fronte dell’azione climatica, nonostante l’inasprirsi del conflitto in altri ambiti, dal commercio alla sicurezza. Se non si trova un terreno d’intesa su una questione di comune interesse come il global warming, tutto il resto sarà avvolto da un’ombra di sfiducia che porterà a una nuova guerra fredda, a un mondo nuovamente diviso in blocchi geopolitici o a qualcosa di peggio. La Cina e gli Stati Uniti possono forse sopravvivere a uno sganciamento delle loro economie, ma il mondo non sopravvivrà allo sganciamento delle sorti climatiche dei due principali emettitori di gas serra del pianeta.

Dal momento che gli Stati Uniti si sono formalmente ritirati dall’Accordo di Parigi, il resto dell’Occidente – non solo le nazioni, ma anche entità subnazionali come città, province o Stati – dovrebbe unirsi in una “rete di volenterosi” ad hoc. Il Berggruen Institute, per esempio, sostiene un progetto promosso dall’ex governatore della California Jerry Brown e dal capo negoziatore cinese in materia di politiche climatiche, Xie Zhenhua, volto a integrare i rispettivi mercati cap and trade. Il cap and trade è un sistema basato sulla vendita di permessi di emissione da parte delle aziende più “verdi” a quelle più inquinanti: i prezzi aumentano costantemente e questo, col tempo, funge da incentivo alla decarbonizzazione. Il sistema cinese si ispira al modello californiano. Anche l’Europa ne ha uno analogo. L’obiettivo principale è mettere in connessione tutti questi mercati, legando così strutturalmente le sorti climatiche dei principali emettitori, per poi arrivare a stabilire un prezzo del carbonio globale.

La neopresidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha caldeggiato un potenziamento del programma europeo. È uno sforzo che può essere concepito come una sorta di versione preventiva low carbon della Comunità europea del carbone e dell’acciaio che negli anni Cinquanta del secolo scorso, all’indomani del secondo conflitto mondiale, si propose di impedire la possibilità materiale di una nuova guerra integrando le principali industrie di produzione bellica. Se l’Occidente non seguirà una rotta conforme alla direzione indicata, correremo seriamente il rischio di ritrovarci dalla parte sbagliata della Storia.