international analysis and commentary

Perché il futuro del capitalismo è comunitario

1,492

Le community sono l’“ultimo miglio” per salvare la nostra economia, la nostra società o, come direbbe Robert Reich, il nostro capitalismo. Come sappiamo, l’economia ha già da tempo divorato la politica, e la finanza ha fatto lo stesso con l’economia. La divaricazione sociale è ormai abissale: nel mondo otto uomini, da soli, posseggono 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone. Dal 2015, l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99%.

L’attuale sistema economico favorisce l’accumulo di risorse nelle mani di una élite super privilegiata ai danni dei più poveri (in maggioranza donne). E l’Italia non fa eccezione: stando ai dati del 2016, l’1% più facoltoso della popolazione ha nelle mani il 25% della ricchezza nazionale netta. Altri dati sulla disuguaglianza – contenuti nel rapporto “Un’economia per il 99%” della Ong britannica Oxfam – ci dicono che nei prossimi vent’anni, cinquecento persone trasmetteranno ai propri eredi 2.100 miliardi di dollari: è una somma superiore al Pil dell’India, Paese in cui vivono 1,3 miliardi di persone. “I mega Paperoni dei nostri giorni si arricchiscono a un ritmo così spaventosamente veloce che potremmo veder nascere il primo “trilionario” (ovvero un individuo con risorse superiori ai mille miliardi di dollari) nei prossimi venticinque anni”, indica il rapporto.

Questo non costituisce solamente un problema etico, ma anche pratico, con diverse caratteristiche a seconda del territorio in cui si produce. In Italia, ad esempio, la concentrazione di ricchezza in particelle così infinitesimali impedisce lo scorrere dinamico di un’economia fatta di piccoli imprenditori e devasta la vecchia classe media ormai incapace di sostenere i consumi precedenti e ormai adattata alle nuove condizioni con espedienti di vario genere – dall’utilizzo della pensione di un anziano per l’intero gruppo familiare alla fuga dei figli o nipoti in cerca di fortuna in un altrove non meglio definito. Nel 2016 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno deciso di lasciare il nostro Paese per costruirsi il loro futuro all’estero. Non ci sarebbe nulla di male se i nostri talenti, quelli nel pieno dell’età lavorativa, si rivolgessero ad altri lidi per libera scelta; ma il motivo principale è quello di ovviare alle difficoltà occupazionali e di realizzazione personale sofferte in Italia, scegliendo invece il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, gli Stati Uniti e la Spagna, ma anche la Cina, la Romania e gli Emirati Arabi Uniti.

Più in generale, l’opzione di muoversi più facilmente che in passato si sta rivelando un’arma a doppio taglio per l’economia. La tecnologia, come direbbe Stuart Kaufmann, ha dilatato lo spazio della possibilità rispetto a quello della realtà e questo costituisce un’opportunità, ma anche una minaccia rispetto a chi non si sa adattare a questa nuova dimensione.

La globalizzazione è ormai nello smartphone e il territorio delle relazioni personali diventa indefinito: non è più il mio quartiere o la mia città, ma può essere globale. La mia attività non ha più competitor visibili fisicamente, ma può essere minacciata o annullata da Amazon, o Alibaba, o Airbnb che entrano nel mio settore di attività imprenditoriale, pur avendo le loro sedi a migliaia di chilometri di distanza dal mio paese.

Viviamo in una destrutturazione spazio temporale – già prevista da Alvin Toffler negli anni ‘80 all’affacciarsi delle prime tecnologie, come il fax e i computer. Ma le vecchie strutture economiche non sono assolutamente pronte a questa nuova realtà fatta di cambiamenti esponenziali e cercano di negarla, anche perché affrontarla significherebbe una cosa sola: fare molta formazione non solo dal punto di vista tecnico ma anche manageriale.

L’Italia, come sistema, sembrerebbe aver scelto la negazione: basta vedere i dati che indicano un sistematico e suicida disinvestimento nella formazione da parte delle nostre aziende negli ultimi anni, dopo un periodo di tendenza opposta. È paradossale che nell’economia della conoscenza le aziende abbiano disinvestito in formazione. Dal 2009 al 2015, secondo la ricerca Cranet 2015, le giornate medie dedicate alla formazione erano passate da tre a cinque. Anche i fondi utilizzati avevano subito un incremento rilevante: la percentuale del costo retributivo annuo investito era passato da <=1% nel 59% delle aziende private nel 2009 a oltre l’1% nel 63% delle aziende nel 2015, con un 23% di aziende che dedica anche più del 3% del costo retributivo annuo agli investimenti in formazione. Ma dopo questa impennata, come riporta Attilio Barbieri nel suo articolo su Libero di luglio 2017 “Formazione a secco. Gli over 50 rischiano”, le imprese disinvestono e restano senza corsi di riqualificazione. Nel 2016 le aziende che si sono servite di formazione sono scese al 20,8%, cioè le persone che hanno partecipato ad almeno un corso di formazione o aggiornamento professionale sono state 240mila in meno rispetto al 2015.

Tra l’altro, sempre in ambito di formativo, secondo i dati Eurostat del 2016, l’Italia è penultima nell’Unione Europea per numero di laureati: tra i trenta e i trentaquattro anni solo il 26,2% ha una laurea, peggio di noi solo la Romania con il 25,6%. Sono sessantacinquemila in meno le immatricolazioni universitarie tra il 2000 e il 2015
mentre, ad esempio in Cina ci sono 8 milioni di laureati in più ogni anno.

Ma al di là del nostro Paese, che oltre alla mancanza di investimenti ha al suo attivo un fenomeno di invecchiamento della popolazione tra i più alti nel mondo che rende ancor più difficile il processo di adattamento ad una realtà in continuo movimento, il problema come dicevamo è generale.

Mentre però alcuni sistemi politico-economici (l’Italia è solo un esempio tra tanti) si rivelano incapaci o inadatti ad affrontare e governare il cambiamento, le stesse nuove tecnologie offrono inedite possibilità di collegamento, fruizione di informazioni e autorganizzazione. Da questi sta fiorendo il fenomeno delle community.

Nel mio libro “Costruire communities. Come cambierà il futuro del capitalismo, dell’economia, della società e del lavoro”, appena uscito per Lupetti editore, racconto vari esempi interessanti di come le imprese e i cittadini allo stesso livello possano compiere questo percorso. Il punto è riuscire a pensare in modo nuovo, ma soprattutto agire in modo nuovo e, come ci ricorda una frase di Abraham Lincoln, emanciparsi rispetto al passato.

Un caso su tutti: la Nespresso che nel 2003, con la collaborazione di Rainforest Alliance, ha avviato il Programma AAA per una qualità sostenibile del suo caffè. Grazie a questo programma di produzione di caffè ideato su misura, si è potuto garantire la massima qualità del caffè, supportando al contempo il sostentamento dei coltivatori e delle loro comunità e contribuendo a salvaguardare l’ambiente. Da generazioni, i coltivatori di caffè della Colombia lavorano il caffè individualmente. Questo processo spesso è artigianale e richiede molto tempo. Inoltre, se non viene eseguito nel modo giusto o se l’attrezzatura consuma più acqua del necessario e i coltivatori non attuano le dovute misure, le acque di scarico possono inquinare i fiumi. Per ridurre l’impatto ambientale della lavorazione del caffè, assicurando al contempo una qualità più uniforme, Nespresso e i suoi partner più importanti hanno costruito uno stabilimento di lavorazione per una delle più storiche comunità di coltivatori di caffè. Sperduto nella cordigliera delle Ande, il nuovo centro di lavorazione di Jardín, in Colombia, garantisce una lavorazione centralizzata e più efficiente a circa duecento coltivatori, che, in questo modo, guadagnano di più, hanno più tempo da trascorrere con le loro famiglie e risparmiano acqua preziosa, circa il 60% rispetto a prima.

Concludo con il consiglio dello scienziato gestionale Henry Mintzberg: il vero obiettivo di lungo periodo sarà quello di trasformare i «network in community». E dunque le community dovranno distinguersi per la capacità di valorizzare il fattore umano, per l’abilità nel costruire fiducia tra individui e aziende, e per la possibilità di trasmettere le esperienze tecnico-relazionali che ne scaturiranno.