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Perché difendere l’idea di una difesa europea

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L’Unione Europea dovrebbe occuparsi assai più di sicurezza internazionale, ma lo ammette soltanto in pochi documenti ufficiali che quasi mai vengono presentati e discussi con le opinioni pubbliche. Sarebbe nell’interesse collettivo degli europei (non tutti, ma una larga maggioranza di essi) dotarsi di strumenti migliori, militari e di intelligence, per usarli quando altre modalità di azione non sono sufficienti.

In un mondo che è diventato più instabile negli ultimi anni, in cui grandi potenze sono più assertive che nel recente passato (a cominciare dalla Cina), e in cui rischi di sicurezza di tipo “transnazionale” si diffondono con rapidità, una comunità di circa 500 milioni di abitanti non dovrebbe dipendere dagli Stati Uniti per gran parte delle sue esigenze di difesa.

L’obiettivo non è affrancarsi dal tradizionale alleato americano – anzi, ci sono ottime ragioni per continuare a cooperare con Washington il più strettamente possibile – quanto piuttosto dotarsi di capacità utili a perseguire vari obiettivi di politica estera, con importanti ricadute sulle società europee. E’ un compito cruciale di per sé, a prescindere dallo stato dei rapporti transatlantici che ad oggi non è affatto buono.

Questi pochi concetti, che per alcuni risulteranno elementari, sono quasi sempre accantonati dalle istituzioni europee e dai governi nazionali che le sostengono (o, quantomeno, che in base ai Trattati sono tenuti a farlo). Ciò lascia aperto il quesito sulle ragioni di questo disallineamento tra ambizioni (si veda la European Union Global Strategy del giugno 2016 per rendersi conto di quanto siano potenzialmente vaste) e volontà politica effettiva.

Una prima spiegazione è politico-culturale: in buona parte delle opinioni pubbliche europee si è sviluppata una specie di fobia per le divise e le armi – dimenticando che le armi nelle mani giuste sono un attributo sacrosanto della sovranità (in un’accezione più sostanziale e più ampia di quella tipica dei “sovranisti”). L’esigenza di difendere, anche con le armi se necessario, alcuni interessi e alcuni valori non è un concetto difficile né maligno, come capisce qualunque cittadino che chieda l’intervento delle forze dell’ordine (armate e addestrate a usare strumenti coercitivi) in certe situazioni della vita quotidiana. La tendenza, comprensibile ma miope, a vedere nelle spese militari una voce improduttiva del bilancio ha consigliato ai leader politici di non provare neppure a sfidare la presunta impopolarità della voce “difesa”. A lungo andare, tale atteggiamento intellettualmente pigro e timoroso da parte delle élite politiche ha generato la convinzione diffusa che l’uso della forza – anche molto limitato – si possa evitare fingendo che i conflitti non ci riguardino mai e che non esista un uso della forza democraticamente legittimo.

Un secondo fenomeno che aiuta a spiegare le carenze della politica di sicurezza europea è il pudore nell’affermare che avremmo bisogno di un vero “esercito europeo” – anzi, lo si nega in modo esplicito, ricorrendo a formule sfumate per non apparire troppo favorevoli a un’integrazione stretta. Naturalmente, questa scelta si collega direttamente alla mancanza di coesione e reale solidarietà tra i Paesi-membri della UE, a sua volta alimentata anche dalla volontà di sostenere i “campioni nazionali” dell’industria della difesa. C’è stata a lungo un’altra giustificazione, ben nota, alla base della ritrosia: la volontà di preservare il rapporto transatlantico. Ma è una considerazione che ormai (e non solo con Donald Trump alla Casa Bianca) non ha più molto senso, visto che le carenze europee in alcune fondamentali capacità militari sono un motivo di tensione transatlantica ancora maggiore rispetto ai rischi di un’eccessiva “autonomia strategica” europea.

Il risultato di questa combinazione di fattori è stato comunque una sorta di coalizione tattica tra “intergovernativi” e “atlantisti”, che oggi non ha ragion d’essere. La coalizione poteva funzionare fintanto che la leadership americana consentiva di evitare scontri diplomatici tra gli europei, per cui la NATO a guida USA era più digeribile rispetto alla rinuncia a una (per lo più illusoria) autonomia nazionale a vantaggio di organismi europei. Ma tale meccanismo si è inceppato: come dinamica europea per il graduale intensificarsi delle accuse incrociate tra le capitali, e come dinamica transatlantica per l’azione dell’amministrazione Trump (che peraltro ha alle spalle un elettorato e una classe politica comunque più orientati verso l’Asia-Pacifico e altri problemi globali che non verso un’Europa molto ripiegata su se stessa).

Una terza ragione per la situazione di debolezza in cui ci troviamo sta nell’incoerenza tra politica estera (a 360 gradi) e iniziative (tecnico-operative) di sicurezza o difesa. Dagli anni ’90 si sono susseguite a Bruxelles molte decisioni collettive e si sono investite risorse non solo simboliche per creare strutture di difesa integrate, ma la collaborazione verso una vera politica estera comune è rimasta indietro ed è tuttora embrionale. In queste condizioni, è impossibile pianificare e addestrare forze armate congiunte su larga scala – cioè la scala necessaria per affrontare i problemi che la UE nel suo insieme deve gestire, ai suoi confini e oltre.

L’incoerenza è grave anche perché i Trattati vigenti impegnano tutti i Paesi membri a sostenere attivamente una politica estera e di sicurezza comune, ma tale impegno viene sistematicamente ignorato e aggirato. E’ innegabile che parte degli interessi nazionali sono divergenti, o comunque non coincidenti; ma è altrettanto innegabile che solo la massa critica del livello europeo può consentire di esercitare una qualche influenza globale nel XXI secolo. E perfino molti rischi e minacce sub-regionali ai nostri confini richiedono il sostegno degli altri membri della UE.

Di fatto, che piaccia o no, dipendiamo dall’aiuto dei nostri partner, eppure continuiamo a utilizzare in modo molto inefficiente le risorse che destiniamo alla difesa: se fossero impiegate in modo coordinato con gli altri europei, avrebbero un impatto ben maggiore su varie questioni di sicurezza che preoccupano i cittadini. Chiudersi nel livello nazionale finisce per perpetuare il circolo vizioso: poche risorse spese male, poca influenza anche collettiva, delegittimazione della UE.

Siamo, insomma, micro-attori che si affannano con le recriminazioni reciproche mentre va in scena una macro-vicenda in cui facciamo, nella migliore delle ipotesi, da comprimari. Basta guardare al peso demografico del continente africano o alla complessità geopolitica del Medio oriente per averne un’idea. La forza economica del blocco europeo è oggi molto consistente sullo scenario globale, ma non serve (o non basta) a risolvere tutti i tipi di problemi. In un sistema internazionale dove sembrano aumentare le tensioni, che si sta forse “de-globalizzando” ma che rimane fortemente interdipendente, non è il caso di verificare se le nostre opinioni pubbliche siano mature per una discussione più seria su sicurezza e difesa?