Obiettivo 2014: Scozia indipendente?
Il 15 ottobre 2012 il premier britannico David Cameron e il suo omologo scozzese, Alex Salmond, hanno firmato un agreement che prevede lo svolgimento – entro la fine del 2014 – di un referendum per l’indipendenza della Scozia. La consultazione verrà a coincidere con la ricorrenza dei 700 anni della battaglia di Bannockburn (24 giugno 1314), decisiva per la vittoria scozzese in quella che gli annali ricordano come la Prima guerra d’indipendenza.
L’agreement è il risultato di una lunga ascesa politica dello Scottish Nation Party (SNP), il partito nazionalista scozzese, dopo la costituzione – o meglio, la ri-costituzione – del Parlamento scozzese nel 1998, a seguito della cosiddetta devolution of power realizzata dal premier Tony Blair subito dopo la sua larga vittoria nelle general election del 1997. Lo SNP governa da solo in Scozia dal 2007, ma fino al 2011 guidava un minority government, non avendo la maggioranza assoluta dei seggi di Holyrood. Ha invece ottenuto proprio la overall majority – come dicono i britannici – con le elezioni dello scorso anno, conquistando 69 dei 129 seggi del legislativo scozzese.
Il sistema di voto è di carattere misto: utilizzando gli stessi collegi in essere per le elezioni di Westminster, 73 deputati vengono eletti con il metodo uninominale maggioritario monoturno, in cui risulta eletto il candidato più votato, a prescindere dall’ammontare dei suffragi ottenuti (first past the post); i restanti deputati (56) vengono eletti con l’Additional member system sulla base dei collegi utilizzati per il Parlamento europeo. Nelle otto circoscrizioni si eleggono sette seggi l’una, e i partiti presentato le loro liste “bloccate”, cioè senza la possibilità per gli elettori d’esprimere preferenze: i seggi vengono distribuiti con il criterio proporzionale (il cosiddetto metodo d’Hondt). La prevalenza numerica dei seggi uninominali fa funzionare il sistema con un first past the posttemperato (ma non più di tanto) dal recupero proporzionale.
A seguito delle prime elezioni (1999 e 2003), il governo della Scozia è stato retto da una coalizione lib-lab, che univa partito laburista e liberaldemocratici. L’exploit dello SNP si è avuto nel 2007, quando il partito è balzato in testa nella graduatoria dei voti, superando i laburisti.
L’accordo firmato il 15 ottobre da David Cameron e il primo ministro di Scozia è sintetico e pragmatico: assicura che entro la fine del 2014 si svolgerà un referendum on Scottish indipendence. A tale consultazione saranno autorizzati a partecipare coloro che a quella data avranno compiuto 16 anni; il referendum è rivolto ai cittadini britannici e a quelli del Commowealth residenti in Scozia, ma anche ai cittadini degli stati dell’Unione Europea residenti in Scozia. Non potranno votare invece gli scozzesi residenti all’estero. La consultazione non ha quindi un carattere etnico-nazionalista, ma vorrebbe essere un momento di partecipazione democratica sul futuro politico della Scozia.
Non a caso, il governo scozzese avrebbe voluto articolarla in più quesiti, lasciando aperta la possibilità che i cittadini contrati all’indipendenza si esprimessero, in alternativa, per il semplice rafforzamento dei poteri di Edimburgo (la cosiddetta devolution max). Ma sul punto il governo di Londra è stato irremovibile. Si è creato così un movimento d’opinione anti-indipendentista, a cui partecipano tutti i partiti scozzesi a parte lo SNP (Labour, Conservative e Libdems) intitolato significativamente Better Together. Il movimento è nato nel giugno di quest’anno su iniziativa di Alastair Darling, ex cancelliere dello scacchiere di Gordon Brown (a sua volta scozzese). I sondaggi d’opinione danno evidenza di una cittadinanza favorevole alla devolution – al limite anche rafforzata – ma non alla secessione dal Regno Unito.
Se questi sono gli opinion polls, sarebbe legittimo chiedersi perché lo SNP sia il primo partito alle elezioni di un paese la cui opinione pubblica non è in maggioranza indipendentista. La sensazione è che i cittadini che vivono a Nord del vallo d’Adriano vogliano lo SNP al governo perché ne hanno fiducia e lo identificano come il miglior interprete degli interessi scozzesi; tuttavia non sono disponibili a seguirlo lungo la strada secessionistica, perché evidentemente non la ritengono vantaggiosa per la Scozia.
Dalle rilevazioni effettuate dagli studiosi risulta che in Scozia vi sia una spesa pubblica pro-capite superiore a quella inglese, orientata soprattutto alle politiche sociali (in questo ambito, il governo scozzese ha scelto di qualificare la propria azione investendo nell’assistenza domiciliare agli anziani e ai soggetti non-autosufficienti). Questo dato è un’arma a doppio taglio per lo SNP, ma anche per i suoi avversari. Infatti, il miglior argomento a favore degli indipendentisti è che – con una Scozia sovrana – il gettito fiscale proveniente dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi del Nord potrebbe salire, traducendosi in ulteriori politiche sociali. Tutte le altre considerazioni non sono confortanti per i nazionalisti: quanto costerebbe dotarsi di un proprio esercito, una volta divenuti indipendenti? Che ne sarebbe delle postazioni missilistiche nucleari di Coulport e della base navale di Faslane che lo SNP vorrebbe smantellare? Per un paese piccolo come la Scozia, sarebbe preferibile tenere la sterlina – come vorrebbe lo SNP – pur situandosi all’interno dell’Unione Europea? E l’elenco delle questioni che indicano un “costo d’ingresso” troppo elevato (o comunque problematico) potrebbe continuare.
È evidente che lo SNP vuole usare la battaglia per il referendum per far salire ancora i suoi consensi, con il rischio che un possibile (e probabile) esito negativo possa rappresentare una brusca battuta d’arresto. Del resto, un caso per certi versi simile si è verificato in un altro paese che fa parte della storia britannica – il Canada: per ben due volte negli ultimi decenni (1980 e 1995) gli indipendentisti canadesi del Québec hanno fallito. È una lezione che gli scozzesi dovranno tenere presente.