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Noi e l’Ucraina: la fine delle ambiguità

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 Siamo riusciti nel miracolo di farci definire dall’Economist il paese europeo che più simpatizza per la Russia, assieme all’Ungheria; e al tempo stesso di farci minacciare da Mosca se approveremo nuove sanzioni.

Il primo giudizio è ingeneroso: se guardiamo alle scelte specifiche, l’Italia sta facendo la sua parte – nell’UE e nella NATO – con le sanzioni economiche, le forniture militari all’Ucraina, il contributo al rafforzamento delle capacità di difesa dei paesi più esposti ai riflessi della guerra in Ucraina. La seconda minaccia mette a nudo la delusione di Mosca rispetto a un paese come il nostro, ritenuto vicino per ragioni economiche (il summit con gli industriali poco prima dell’invasione in Ucraina e la dipendenza dal gas del Cremlino), politiche (legami antichi durante la Guerra Fredda e più recenti con la Lega e parte dei 5 Stelle), culturali (l’inclinazione pro-russa di alcuni settori intellettuali e dell’opinione pubblica).

Il parlamento italiano assiste all’indirizzo del presidente ucraino Zelensky

 

In realtà, contare sulla defezione dell’Italia e quindi sulle divisioni europee è stato uno dei tanti errori di calcolo compiuti da Vladimir Putin. Rimane il fatto che il nostro paese continua ad essere visto, sia dagli alleati sia dai nemici, come un tassello fragile e delicato della risposta occidentale. E se la guerra continuerà, diventando una guerra di “perseveranza”, la tenuta del fronte interno italiano verrà messa alla prova.

Proprio per questa ragione, è importante che l’Italia espliciti, come la Germania, la sua Zeitewende, la sua svolta epocale in politica estera. Olaf Scholz ha sepolto con un discorso di venti minuti mezzo secolo di Ostpolitik. L’Italia deve farlo con altrettanta chiarezza. Non basta che il governo Draghi assuma – come ha fatto – decisioni lineari, con il caveat della prudenza più o meno obbligata sulle forniture di gas.

Le decisioni vanno anche inquadrate in una scelta di fondo: dopo la guerra in Ucraina, la collocazione internazionale del nostro paese non consente più – a nessuna delle forze politiche che sia o aspiri al governo – alcun tasso di ambiguità sul rapporto con la Russia di Putin. Se per l’Europa intera la guerra è stata uno shock geopolitico e geoeconomico, per l’Italia, come per la Germania, la tragedia ucraina mette anche in discussione alcuni assunti tradizionali di politica estera.

Per decenni, e ancora dopo l’annessione della Crimea nel 2014, si è ritenuto che la Russia fosse un fornitore energetico quanto mai affidabile, un partner economico-commerciale interessante e una possibile controparte politica con cui trovare intese. Insomma, avevamo una nostra Ostpolitik, declinata in modo diverso da settori politici di sinistra e di destra ma comunque basata sull’idea che il dialogo con Mosca rispondesse ai nostri migliori interessi e alla fine avrebbe prodotto un avvicinamento della Russia all’Europa. Con l’Italia a fare da ponte, nella versione prima comunista, poi cattolica e infine sovranista. Il ponte è crollato sotto le bombe di Kiev. Travolgendo rapporti economici e personali e azzerando una vecchia ipotesi di lavoro della nostra diplomazia: l’equilibrio possibile fra atlantismo, europeismo e collaborazione con Mosca.

Oggi gli assunti sono molto diversi: sicurezza energetica attraverso la riduzione progressiva della dipendenza dal gas russo e la diversificazione delle forniture e delle fonti; aumento delle spese militari e sviluppo di una difesa europea complementare alla NATO; consapevolezza che la vulnerabilità delle catene del valore impone la ricerca di una autonomia strategica, che potrà essere costruita solo a livello europeo; attivismo obbligato nel Mediterraneo, sapendo che gli Stati Uniti, oggi risucchiati sul fronte della guerra in Europa, torneranno a guardare verso l’Asia-Pacifico e verso la competizione vera, quella con la Cina.

In un contesto del genere tramontano vecchie illusioni, prima di tutto che la “iper-connessione” fra le economie avrebbe generato una pace perpetua: è accaduto l’opposto. Rinascono le tensioni geopolitiche fra grandi potenze, imponendo all’UE un’agenda rivolta alla competizione esterna prima che al mercato interno. E diventano evidenti i costi e le responsabilità che i singoli paesi europei devono essere pronti a sostenere per difendere la loro sicurezza a lungo termine.

Questa è la Zeitewende che il governo Draghi pratica nei fatti ma deve anche spiegare al nostro paese: ai parlamentari che hanno ascoltato il discorso di Volodymyr Zelensky, eroe per caso di una guerra europea che il popolo ucraino sta combattendo anche per noi; a un’opinione pubblica e mediatica che tende spesso a dimenticare la distinzione fra aggressore e aggredito e che, alla quarta settimana di conflitto, dà segni crescenti di stanchezza.

Nell’era della post-verità, anche la tragedia ucraina si è trasformata da fatto in opinione. Basta uno sguardo alla sintassi della guerra nel dibattito pubblico per farsi un’idea. I russi hanno invaso ma la Nato li ha provocati. Zelensky sarà anche un eroe ma ha tollerato i neo-nazisti. L’Ucraina soffre ma non deve avere troppe pretese. Putin ha costruito un regime autoritario brutale ma la democrazia ucraina non è certo senza pecche. Eppure i fatti sono lì, con una chiarezza sconvolgente. Il punto è che per vederli e capirli – per capire che le forniture di armi aumentano la capacità dell’Ucraina di reggere fino a un tavolo negoziale; per comprendere che la posta in gioco è il futuro della sicurezza europea, inclusa la nostra; per avere chiaro che la difesa dei valori e dei principi democratici su cui si reggono le nostre società non può più essere data per scontata – quei fatti vanno inseriti in una visione internazionale condivisa.

In questo senso, la tragedia dell’Ucraina è l’occasione per riscoprire che tipo di Paese, nazione, comunità vuole essere l’Italia davanti al dramma della guerra tornata in Europa.

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 21/3/2022