É il “momento McKinley” di Donald Trump. McKinley fu l’autore in Congresso, nel 1890, di un celebre “Tariff Act” che stabiliva dazi medi del 50% circa su tutti i beni importati dagli Stati Uniti. Diventato poi presidente americano, rese ricca l’America, secondo Trump, grazie al suo talento e grazie ai dazi. Il punto, come nota un saggio pubblicato da Foreign Affairs, è che questo precedente storico si addice poco al mondo assai più interdipendente di oggi.

Alla fine dell’800 i dazi erano uno strumento “normale” di politica economica, volto a proteggere l’industria domestica nascente e a compensare l’assenza di imposte sul reddito. Nelle condizioni attuali, appare illusorio pensare che un forte aumento dei dazi renda possibile il rilancio della manifattura americana – dopo decenni in cui gli Stati Uniti hanno esportato la produzione in Asia e si sono concentrati su servizi e tecnologia, o che possano compensare interamente, nonostante l’aumento iniziale che registrano le entrate, i tagli fiscali: il debito pubblico va verso livelli esponenziali ed è in misura notevole in mani estere (il 25% in mani europee, il 15% in quelle della Cina e il 15% in quelle del Giappone). Confondere deficit commerciale e deficit di bilancio non è utile, anzitutto all’America stessa. Ed è poco probabile che il risultato sia alla fine positivo per gli Stati Uniti. Più probabile che il mito del ritorno ad una “età dell’oro” di impianto protezionistico genererà nel tempo riduzione della crescita e inflazione: un esito da anni ’70, ma del ‘900, non di fine ’800.
Trump si richiama a McKinley anche quando parla del deficit commerciale come di una questione vitale di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Questo punto – che in realtà è utilizzato dal capo della Casa Bianca per attivare gli strumenti legali che gli permettono di decidere sui dazi – è scritto chiaramente nelle lettere di avvertimento mandate da Trump a paesi amici o rivali. Come si legge nella missiva a Ursula von der Leyen “il deficit è una minaccia sostanziale alla nostra economia, e in effetti alla nostra Sicurezza Nazionale!”. Per consolarci un po’, si può aggiungere che Trump riconosce per una volta come interlocutore l’Unione Europea, non i singoli Stati nazionali. Ma la sostanza è assai poco incoraggiante: se sicurezza e rapporti commerciali si contagiano in modo negativo, l’Europa avrà parecchio da perdere, probabilmente più degli Stati Uniti.
Fino ad oggi ci siamo cullati nella illusione che Trump, “tariff man” per eccellenza, si sarebbe accontentato di dazi al 10%. Come nel caso della Gran Bretagna. Abbiamo sottovalutato un punto politico sostanziale: per Trump – che non ama l’UE – è utile dimostrare che Brexit permette a Londra di trarre vantaggi comparativi rispetto a Bruxelles. Si è aggiunta una strategia negoziale europea prudente, forse remissiva e comunque risultato delle differenze di impostazione e interessi fra gli Stati membri. In sostanza, abbiamo cercato di conquistarci tutta la benevolenza possibile, trattando in modo separato i pezzi di un negoziato che andava e andrebbe visto nel suo insieme.
Da una parte l’energia, con l’aumento previsto delle importazioni di gas liquido naturale americano. Dall’altra la sicurezza, con l’aumento delle spese militari al 5%: spese che rientrano anche nel nostro interesse a costruire capacità di difesa europee, ribilanciando la NATO, e a finanziare nuove forniture all’Ucraina; ma che dal punto di vista della Casa Bianca sono anche la leva di acquisizioni di armi americane da parte degli Stati europei. E infine esentando le multinazionali statunitensi dall’accordo sulla global minimum tax. Questo metodo frammentato è servito a poco ed esprime le difficoltà della Commissione a impostare una trattativa commerciale quanto mai complicata facendo leva sui possibili punti di forza dell’Unione, che pure sulla carta ci sono.
In ogni caso: adesso, e in ritardo, si pone davvero il problema di come gestire le prossime settimane di negoziato con Washington. Puntando ad evitare una guerra commerciale che sarebbe costosa per tutte le economie occidentali. Ma senza illudersi troppo sul fatto che Trump torni sempre indietro. L’UE dovrà adottare una strategia negoziale al tempo stesso più assertiva, più intelligente e più coerente. In una prima fase, ad arginare Trump è stata solo Wall Street. Oggi i mercati sono in posizione di attesa. Affidarsi alla loro risposta non basta più. ![]()
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 16/07/2025.