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Migrazioni: il valore strategico dell’attrattività e la “migrafobia”

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Ferruccio Pastore è direttore dell’istituto di ricerca indipendente FIERI (Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione) e autore del volume “Migramorfosi”, uscito nel 2023 per Einaudi.

 

Aspenia online: Partiamo da una sua osservazione fattuale e da un ragionamento molto pragmatico, presentato nel libro, sulla grande e sottaciuta valenza economica dei flussi migratori verso l’Italia: dall’osservazione su questo valore economico dell’immigrazione come fattore di crescita del PIL sembra derivarne un’altra, cioè che il Sistema Italia sia piuttosto “attrattivo” per molti migranti, reali o potenziali. In sostanza, non è soltanto per i benefici del welfare state italiano che individui e nuclei familiari cercano di spostarsi nel Paese – come invece tendono a sostenere solitamente i critici dell’apertura verso i migranti. E’ una considerazione che pare importante nel contesto di un dibattito che è attualmente dominato quasi del tutto dal timore di una sorta di sfruttamento indebito delle politiche sociali. Inoltre, questa diversa prospettiva getta una luce anche sulla conversazione che forse è mancata in Italia tra la classe politica, la società civile in senso ampio, e la cruciale componente dell’imprenditoria – che in fondo è la più sensibile alle implicazioni economiche dell’immigrazione, nel bene e nel male con le sue varie sfaccettature. Come si dovrebbe meglio impostare questo dibattito, allora, a partire dai dati economici e restando su un terreno pragmatico?

Pastore: In una prospettiva di medio-lungo periodo, quella trentennale che assumo in “Migramorfosi”, è innegabile che l’immigrazione sia stata, per l’Italia, una stampella decisiva, che ci ha consentito di non declinare in termini produttivi, tenendo in piedi interi settori economici e supplendo alle carenze strutturali del welfare. Poi, in quest’ultimo quindicennio di crisi a cascata, gli immigrati hanno incassato gran parte dello shock occupazionale e salariale, fungendo da ammortizzatori e proteggendo di fatto i lavoratori nativi. Come collettività nazionale, dovremmo avere il coraggio e l’onestà di riconoscere tutto questo.

La polizia sgombera un accampamento di immigrati a Parigi

 

Attenzione, non voglio dire che il modello migratorio italiano sia stato ideale, tutt’altro. Una stampella non è un propulsore, non è una leva di sviluppo. Abbiamo attratto un’immigrazione tra le meno qualificate dell’intera Unione Europea. Per di più, quel poco di capitale umano qualificato che siamo riusciti ad attrarre lo abbiamo sprecato, sottoinquadrandolo sistematicamente e ingabbiandolo in presunti “lavori da immigrati”.

Ma, pur con questi limiti, è sicuro che siamo stati a lungo una destinazione capace di attrarre, non solo turisti. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, l’Italia, con il Regno Unito, la Spagna e gli Stati Uniti, era tra i Paesi del mondo che ricevevano più immigrazione per lavoro in rapporto alla popolazione totale. Forse non ce ne siamo resi conto all’epoca e, in ogni caso, ce ne siamo dimenticati; eppure è così, e il presente italiano è incomprensibile senza tenerne conto. Poi è arrivata la catena delle crisi, a partire dalla Grande Recessione del 2007-2008. Il meccanismo si è inceppato, la popolazione immigrata non ha smesso di crescere, ma a ritmi assai più blandi. Le opportunità di ingresso legale sono diminuite; il lavoro immigrato è diventato ancora più marginale e precario; la povertà immigrata è esplosa, arrivando a colpire più di un terzo delle famiglie straniere. La conseguenza ovvia è che siamo diventati sempre meno capaci di attrarre risorse umane qualificate dall’estero, proprio quando il fabbisogno è tornato a crescere, sotto la spinta di un declino demografico che non si arresta e di una crescita debole e in parte drogata dal PNRR, ma reale.

 

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AO: Durante questa parabola, il clima politico è cambiato in modo significativo. In che modo, e con quali conseguenze?

P: Sì, è essenziale aggiungere che, alla radice di questa perdita di attrattività, c’è un fattore che definirei politico-culturale. A lungo il messaggio implicito a chi arrivava dall’estero era: “abbiamo bisogno di voi; se lavorate, potete restare”. Negli ultimi anni, questo messaggio è diventato sempre più chiaramente: “Finché ci servite ok, ma sappiate che non vi vogliamo”. E’ ovvio che, a queste condizioni, solo chi proprio non ha altra scelta, sceglie l’Italia. Ma per un Paese demograficamente non sostenibile come il nostro, questo è un gigantesco problema, una fragilità strategica che non possiamo permetterci. Uso spesso la metafora della malattia autoimmune, cioè quelle disfunzioni del sistema immunitario che inducono l’organismo ad attaccare una parte di sé, a distruggere cellule sane erroneamente identificate come nemico. E’ quello che stiamo facendo con l’immigrazione. Per usare un’altra immagine, continuiamo a segare un ramo che invece dovremmo rafforzare, perché avremo bisogno di starci seduti sopra a lungo.

AO: Gli ultimi sviluppi politici segnano un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico europeo che ha (anche) forti connotazioni anti-migratorie: le elezioni francesi, quelle in alcuni Land tedeschi, le elezioni austriache, la recente richiesta olandese di un opt-out dalle regole sull’asilo. La stessa composizione della nuova Commissione sembra presagire un consenso piuttosto consolidato su un punto: l’immigrazione è un problema (in parte comune, questo resta da vedere), prima che un dato di fatto che si può anche vedere come un’opportunità se non perfino una necessità urgente. Anche fuori dalla UE, per restare nel continente europeo, il premier britannico Starmer sembra entusiasta dell’accordo italiano con l’Albania, a sua volta controverso per molti aspetti. Insomma, siamo a un punto di non ritorno nell’atteggiamento complessivo verso i flussi migratori?

P: Prima di soffermarci sugli ultimi sviluppi, bisogna ricordare che siamo di fronte a una tendenza di lungo periodo. Già alla fine del secolo scorso, in un’Europa in cui la maggioranza dei governi era di centrosinistra e le istituzioni di Bruxelles sostenevano una linea aperta sull’immigrazione, affioravano segnali opposti. Nelle elezioni politiche del 1999, in Austria, Jörg Haider, presidente della Carinzia che aveva spostato il vecchio Partito della Libertà (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ) di matrice liberale e conservatrice su posizioni apertamente xenofobe, ottenne il 27% ed entrò al governo con i popolari. Peraltro, un tabù era già stato infranto cinque anni prima, proprio in Italia, quando nel primo esecutivo Berlusconi un partito post-fascista era entrato in maggioranza e la Lega Nord, in cui la retorica anti-immigrati aveva già un peso notevole, aveva conquistato per la prima volta il Viminale.

Insomma, è una lunga storia, che peraltro sarebbe sbagliato leggere come un macro-trend ineluttabile, per cui l’ostilità all’immigrazione si affermerebbe gradualmente in quanto espressione profonda di un presunto Zeitgeist. Non è così; ci sono state oscillazioni e inversioni di tendenza: la storia della stessa Austria e del nostro Paese ce lo dimostrano. Detto questo, venendo all’oggi, è indiscutibile che ci troviamo a un punto di svolta, con forze apertamente ostili all’immigrazione che hanno raggiunto livelli di potere ed influenza senza precedenti. Un caso importante sono i Paesi Bassi, dove il cosiddetto cordon sanitaire è saltato e da luglio 2024 partiti centristi governano con un altro “Partito per la Libertà “(PVV), quello di uno xenofobo viscerale come Geert Wilders. Tra le numerose istanze programmatiche apertamente illiberali contenute nell’accordo di governo, c’è per esempio la “sospensione delle procedure di asilo” per un tempo indeterminato, durante il quale il “diritto all’accoglienza verrà limitato in maniera significativa”.[1]

Vedremo se anche in Austria, dove con le elezioni del 29 settembre 2024 il FPÖ (sempre quello di Haider, oggi guidato da Herbert Kickl) è balzato da poco più del 16 a oltre il 29%, i conservatori verranno a patti con l’estrema destra. Ma per Vienna, come si è già detto, non sarebbe una novità assoluta. Uno strappo ben più profondo, rispetto alla tradizione politica nazionale, è quello del 2022 in Svezia, dove, con il cosiddetto “accordo di Tidö” (dal nome del castello dove è stato firmato), moderati, cristiano-democratici e liberali hanno formalmente accettato il sostegno esterno dei Democratici Svedesi, che a dispetto del nome sono un partito fortemente nativista con frange neonaziste, che però è uscito secondo dalle urne con il 20,5% dei voti.

AO: Si potrebbe però sostenere che Austria e Paesi Bassi rappresentino casi specifici e in fondo non così determinanti per gli assetti complessivi europei. Ci sono però anche Germania e Francia a registrare uno spostamento dell’asse politico, che poi si riflette nella stessa Commissione Europea.

P: Senza dubbio, la novità più dirompente, forse, viene dal cuore dell’Unione, da quello che un tempo ne rappresentava il motore politico: Francia e Germania. A Parigi, nel governo formato da Michel Barnier, il posto-chiave di ministro dell’Interno è occupato da un navigato politico originario della Vandea, Bruno Retailleau, che pur schierato con i Républicains, di matrice gollista, non ha mai nascosto un deciso posizionamento a destra. Ha fatto scalpore una sua intervista recente (29 settembre su La Chaîne Info) in cui tra l’altro ha dichiarato senza mezze misure: “come milioni di francesi penso che l’immigrazione non sia un’opportunità”, non esitando poi a dirsi a favore di un referendum popolare sul tema.[2] Siccome il governo Barnier necessita del sostegno esterno del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella per stare in piedi, non è difficile vedere in questi proclami l’ossatura di un patto politico.

Diversa la dinamica a Berlino, dove un Cancelliere – Olaf Scholz – azzoppato dai risultati disastrosi delle elezioni regionali in Turingia e Sassonia (Alternative für Deutschland rispettivamente al 33,5 e al 32%) ha intrapreso una disperata rincorsa alla destra, infrangendo un altro tabù e annunciando una clamorosa sospensione dei quasi quarantennali accordi di Schengen.

 

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La portata di questo ribaltamento di policy è particolarmente impressionante se si pensa che il ritorno delle code di camion alle ben otto frontiere “interne” che la Germania ha con altri Paesi UE (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia; più la Svizzera) comporterà perdite economiche ingenti, che per un Paese esportatore in crisi avranno a loro volta un costo politico. Ma evidentemente il panico della sconfitta fa passare queste considerazioni pragmatiche in secondo piano.

Dunque sì, siamo davvero a un punto di svolta, che peraltro si riflette anche nella piattaforma programmatica della Commissione von der Leyen II, che si concentra fortemente su obiettivi di controllo e sicurezza, accettando definitivamente un ruolo ancillare rispetto agli Stati membri e abdicando a qualsiasi vero ruolo di agenda setting in materia migratoria.

E’ giusto chiedersi se questo punto di svolta sia anche un punto di non ritorno. A breve e forse anche a medio termine, indubbiamente sì. Ma se guardiamo oltre, si aprono abissi di incertezza strategica. La “migrafobia”, potremmo chiamare così la malattia autoimmune da cui l’Europa è affetta, si aggrava; il dissanguamento demografico non si ferma; le carenze strutturali di manodopera sono un freno sempre più pesante allo sviluppo. Tutti i governi, compreso quello italiano, cercano di escogitare rimedi tecnici (accordi bilaterali, decreti-flussi più capienti e flessibili, programmi di migrazione circolare, etc.) che consentano di non mettere in discussione gli assunti politici di fondo. Ma in un mondo pur sempre globalizzato e sempre più multipolare questi giochi di prestigio (importare braccia senza accogliere persone) non possono funzionare. Apertura o declino è un aut aut che continuerà a sovrastare il futuro dell’Europa ancora a lungo.

 

 


Note:

[1] https://www.kabinetsformatie2023.nl/binaries/kabinetsformatie/documenten/publicaties/2024/05/16/framework-coalition-agreement-2024/Framework+Coalition+Agreement+2024.pdf , p. 4 (trad. di Ferruccio Pastore).

[2] https://www.youtube.com/watch?v=7Uarkqof-hY