L’ultimo mese di campagna tra Harris e Trump
E’ già passata alla storia come la prima in cui due differenti candidati presidente in pectore in campo democratico (Biden e Harris) hanno sfidato nei dibattiti il medesimo candidato Trump, che dal canto suo partecipa come repubblicano per la terza volta consecutiva (2016, 2020, 2024) ai confronti televisivi finali tra i due aspiranti alla Casa Bianca. Ma la campagna elettorale americana potrebbe ancora regalare notevoli colpi di scena fino al giorno delle elezioni del 5 novembre.
L’illusione del dibattito
I dibattiti televisivi sono un tassello ed una tappa fondamentale di ogni campagna elettorale americana. Il format creato dalle tv nel 1960 con il primo Kennedy vs Nixon ha contribuito alla spettacolarizzazione della politica, trasformandola in uno show che ha contagiato prima gli Stati Uniti, poi il resto dell’Occidente, per diffondersi infine anche fuori. Il risultato è stato spesso quello di favorire candidati che risultavano più attraenti a favore di telecamera rispetto ad altri che potevano essere più preparati e validi.
Se nel primo confronto di questa campagna elettorale del 2024 Trump aveva trionfato, visto anche il disastro in termini di gaffe e confusione fatto da Biden (tanto da spingerlo a lasciare la corsa nelle settimane successive), di sicuro la stessa cosa non è avvenuta contro Harris. La candidata democratica non solo ha retto il confronto, ma per consenso quasi unanime l’ha vinto.
Tutto questo però non deve lasciar credere che Harris sia favorita, o peggio che la strada per la presidenza per lei sia spianata. Già anche Hillary Clinton contro Trump (2016) era stata data da tutti gli osservatori nettamente vincente nelle sfide televisive, e in vantaggio nei sondaggi, ma poi aveva perso nelle urne, anche se per un pugno di voti in tre Stati chiave, come tutti ricordano.
Per quanto Harris, per la sua candidatura, debba ringraziare proprio il primo faccia a faccia – tenuto per la prima volta nella storia a giugno (difatti entrambe le sfide si sono tenute per la prima volta d’estate) – e il terremoto che ne è seguito con la rinuncia di Biden, sicuramente non sarà il confronto con Trump – tra l’altro a due mesi di distanza dalle elezioni – a essere decisivo per il risultato finale. Anche perché – salvo quello del 1° ottobre tra i vicepresidenti Vance e Walz su Fox, che non ha avuto impatti significativi – non ci sono stati né ci saranno altri dibattiti diretti, sebbene la CNN abbia rilanciato per un nuovo confronto il 23 ottobre e Harris abbia già accettato.
Nel primo confronto sono state sottolineate alcune uscite paradossali e totalmente prive di fondamento da parte di Trump, come quella sui cani e i gatti che verrebbero mangiati dai migranti haitiani a Springfield, o quella dell’aborto praticato in alcuni stati dopo il nono mese. Esternazioni che senza dubbio hanno lasciato esterrefatti molti, ma che non hanno affatto scosso o scalfito l’elettorato conservatore in queste settimane in modo da rendere Trump meno “presidenziale”. Semmai, al contrario, lo stanno legittimando ancora di più, intanto inchiodando il dibattito pubblico su posizioni e “fatti” convenienti per il candidato repubblicano, e poi rafforzando la sua base elettorale a portare avanti istanze estreme o a diffondere affermazioni prive di fondamento, grazie anche al fatto che il virus complottista e delle fake news circola ormai indiscriminato e senza limiti sulle piattaforme social.
Trump il comunicatore
Del resto, uno dei punti di forza di Trump è proprio quello dell’uso di parole e formule evocative, magari anche false, ma che poi rimango impresse nella mente di tutti, come è successo durante il dibattito. In questo ambito si colloca l’uso costante di nomignoli o soprannomi contro gli avversari, che diventano veri e propri tormentoni o etichette personali impossibili da schiodare. Giusto per ricordarne alcuni, non possiamo dimenticare quelli affibbiati ai suoi sfidanti nelle primarie repubblicane, ad esempio Marco Rubio contro cui si scatenò, lo accusò di essere un “chiacchierone”, “sudaticcio”, aggiunse “nessuno suda come lui, fateci caso”, lo ribattezzò “little Marco” (certo non è altissimo), o “amnesty Marco” accusandolo di essere troppo buono coi criminali. Rubio provò a rispondere con “Trump small hands”. Ted Cruz divenne “Lyin’ Ted” (Ted il bugiardo), e Nikki Haley “Birdbrain” (cervello di uccello). I più famosi restano ovviamente quelli dati a Hillary Clinton “Crooked Hillary” (disonesta), e l’epico “Sleepy Joe” contro l’attuale Presidente Biden definito “addormentato” se non peggio.
Su questo è interessante notare che Trump non ha ancora trovato un soprannome efficace per Harris, anche se ci ha provato con “Laughing Kamala” per il fatto che ride spesso, o “KamaBla”, perché parlerebbe troppo. Nomignoli che però non hanno avuto una gran fortuna. In concreto, Trump sta cercando di dipingere la sua avversaria come una mera continuazione di Biden, o al più prova ad etichettarla come una pericolosa “marxista” ed estremista di sinistra, anche giocando sul fatto che il padre della stessa, Donald J. Harris economista della Stanford University, è stato più volte descritto come uno “studioso marxista” per le critiche nei confronti dell’economia di mercato tradizionale.
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Bordate feroci contro la Harris sono però arrivate anche dall’entourage del Tycoon, la fedelissima “influencer” Lara Loomer, sempre affianco a Trump in questi mesi turbolenta e presente anche tra il gruppo ristrettissimo di suoi collaboratori nel dibattito di martedì scorso, riprendendo le origini indiane della Harris non le ha risparmiato allusioni razziste “la Casa Bianca odorerà di curry e i discorsi a Washington saranno diffusi da un call center se vincerà lei”.
Anche il magnate di X, SpaceX e Tesla, Elon Musk, grande sostenitore finanziario e politico dei Repubblicani, dopo il presunto secondo attentato a Trump dello scorso 15 settembre, in cui un uomo è stato trovato con dei fucili e messaggi farneticanti vicino al Club di golf di West Palm Beach in Florida dove Trump stava giocando, si è lasciato sfuggire su X l’incredibile frase poi cancellata “perché nessuno sta cercando di assassinare Biden o Harris?” e per la quale addirittura ora lo sta indagando il Secret Service.
La frase che però tiene più banco e viaggia ormai virale nella rete in tutto il mondo da qualche settimana è l’appellativo “Childless Cat Lady”, ovvero “gattara senza figli”, pronunciata dal candidato vicepresidente scelto da Trump, JD Vance. Nel 2021 aveva definito alcune democratiche come Kamala Harris e Alexandria Ocasio Cortez “un gruppo di gattare senza figli che non sono soddisfatte della propria vita e delle scelte che hanno fatto, e vogliono rendere il resto del paese ugualmente infelice”. Il nomignolo è diventato virale dopo che Taylor Swift a fine dibattito presidenziale l’ha usato per firmarsi nel post su Instagram in cui ha dichiarato che voterà per la coppia Harris-Walz.
L’effetto Swift si è visto immediatamente e potrebbe essere più dirompente del dibattito televisivo per gli equilibri finali del voto, soprattutto tra gli elettori più giovani, tra i quali si trovano i milioni di fan della cantante. Ed in effetti, nel post da 11 milioni di like in cui ha annunciato il suo sostegno al team democratico, Swift aveva inserito il link del sito vote.gov che dà informazioni per la registrazione degli elettori e che nelle ore successive è stato sommerso dagli accessi con un picco di 406 mila nuovi visitatori, così come reso noto dal portavoce del General Service Administration (GSA) sulla MSNBC.
La frenata di Harris
Diventa però difficile capire se l’orientamento nel Paese e l’entusiasmo in campo democratico – generato anche grazie allo star system americano – che si respirava nelle prime settimane per il subentro nella campagna elettorale presidenziale di Kamala Harris al posto di Joe Biden – sarà poi lo stesso al momento del voto. La media dei sondaggi che Fivethirtyeight riporta dal 24 luglio, data dell’inizio delle rilevazioni di voto tra Harris e Trump, è ormai inchiodata da settimane su un vantaggio di 2,5 punti in favore della candidata democratica. Certo, dallo 0,9% iniziale è un progresso (anche se il picco c’è stato con il 3,7% il 23 agosto durante la convention democratica): ma è un dato, considerato il sistema elettorale americano, che non permette di identificare nessun favorito per il 5 novembre.
Anche il New York Times certifica al momento un vantaggio tra i 2 ed i 3 punti per Kamala Harris a livello nazionale. Ma nel dettaglio degli Swing States descrive una partita totalmente aperta. Pertanto, Trump potrebbe benissimo perdere nuovamente il voto popolare nazionale (come già successo contro la Clinton nel 2016), cioè la somma dei voti espressi da tutti gli Stati Uniti, ma vincere le elezioni presidenziali se prevalesse in Stati in bilico come la Pennsylvania il Michigan o il Wisconsin, la Georgia o la North Carolina, l’Arizona o il Nevada – sono questi da tenere d’occhio la sera del voto. Al momento i sondaggi riportati dal giornale di New York ci dicono che nel nord-est (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin) Harris è in vantaggio di 1-2 punti. Vanno invece meglio le cose per Trump negli altri quattro Stati.
Di sicuro, come testimonia plasticamente l’ultima indagine Gallup, gli indici di gradimento nell’opinione pubblica americana sono bassi per entrambi i candidati, con Donald Trump lievemente in vantaggio al 46% rispetto al 44% di Kamala Harris. Il sondaggio fotografa come i due candidati siano molto apprezzati dalle loro basi elettorali, ma non sfondino tra gli indecisi e gli indipendenti, con un tasso di approvazione su questa specifica fetta di elettorato che va dal 44% di Trump al 35% di Harris, ragion per cui potrebbe esserci un’alta astensione a novembre. Scenario che penalizzerebbe i democratici. Le persone che pensano che “l’America stia andando nella giusta direzione” sono il 22%, dato che ovviamente non favorisce l’amministrazione uscente (era al 26% dopo la presidenza Trump). C’è inoltre una bassissima fiducia nelle istituzioni in generale.
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In ogni caso, emerge un campanello di allarme per la campagna Harris: l’impennata di gradimento avuta ad agosto dopo la sua inaspettata nomina non solo si è bloccata, ma è stata indebolita da un recupero del rivale. Difatti, le opinioni favorevoli a Trump sono passate dal 41% al 46%, mentre quelle favorevoli alla Harris sono scese dal 47% al 44%. Queste istantanee sulle intenzioni di voto e sul gradimento dei candidati sono la dimostrazione di come la partita a poco più di 20 giorni dalle elezioni sia ancora aperta a qualsiasi scenario, o meglio a qualsiasi sceneggiatura hollywoodiana.