international analysis and commentary

L’oscura strategia di Trump vista da Kabul e da Islamabad

1,016

La strategia americana in Afghanistan, spiegata dal Presidente Trump in diretta tv nei giorni scorsi, appare una nebulosa senza obiettivi tattici – se non quello strategico finale di “vincere!”. Il presunto “nuovo corso” annunciato in un discorso televisivo il 22 agosto, con ritardo rispetto alle promesse, ha lasciato perplessa buona parte dei commentatori statunitensi e degli analisti dei Paesi della Nato. Gli alleati, al di là delle dichiarazioni di principio (la fedeltà agli USA), non nascondono le preoccupazioni per un nuovo surge di cui non si capisce né la portata né la qualità: serviranno nuove truppe? Ci saranno nuovi accordi tra Stati Uniti, NATO e governo afgano  sulla gestione della catena di comando? Gli esperti concludono che, nonostante queste vaste incognite, è possibile prevedere che l’impegno americano sul terreno non cambierà troppo rispetto agli anni dell’amministrazione Obama.

La comunicazione di Trump, costata almeno otto mesi di gestazione durante i quali non sono mancate le rivelazioni e le soffiate anonime,, ha sollevato due reazioni diametralmente opposte quanto chiaramente espresse nei due principali attori regionali. L’Afghanistan, felice e soprattutto sollevato dalle dichiarazioni di Trump, e il Pakistan, irritato per essere stato additato in modo più violento che in passato come il “cattivo” istituzionale, eterno inaffidabile doppiogiochista, colpevole di ospitare le retrovie talebane.

Sollievo afgano

Il governo di Kabul aspettava con ansia che Donald Trump svelasse i suoi piani , per diversi motivi. Il primo, e più cogente, risiede nel fatto che a Kabul c’è  un governo debole, con un sistema economico in caduta libera e che gode ormai di consensi ridotti al lumicino. Il fatto che gli americani decidano di non abbandonare l’Afghanistan – cosa che si poteva temere dai molti tweet di Trump durante la campagna elettorale – significa per Kabul non solo che il magro flusso di denaro garantito dalla permanenza della missione alleata non si arresterà ma che, presumibilmente, aumenterà.

Il presidente ha fatto capire di voler investire sul miglioramento delle forze aeree locali (argomento ribadito anche dal Segretario Generale della NATO), che sono l’apparato più costoso della guerra, e di essere favorevole all’utilizzo di nuove armi – come ha dimostrato lo scorso aprile il lancio della bomba da 11 tonnellate (la più potente dell’arsenale convenzionale americano) su una zona di confine col Pakistan infestata da militanti dello Stato Islamico.

Inoltre, anche se non è chiara la quantità di “stivali sul terreno” che Washington è disposta a impiegare, è evidente che un aumento di uomini ci sarà e che la cosa dovrà riguardare anche i pur riluttanti alleati.. Nuove truppe significano più denaro fresco e più spese per ridare fiato all’economia di guerra (che, ai tempi in cui la coalizione contava 130mila soldati, andava a gonfie vele), con nuove commesse, posti di lavoro e un possibile rilancio di settori come la logistica e l’edilizia oltre a un rafforzamento della moneta.

Infine, Kabul si sente rassicurata anche dalla presenza, accanto a Trump, di tre generali: il Consigliere per la Sicurezza H.R. McMaster, il titolare della Difesa e pluridecorato James Mattis e (acquisto recente) il Capo di Gabinetto della Casa Bianca John Francis Kelly. Da loro il governo afgano si aspetta che sappiano garantire non solo la continuità ma anche la mano più pesante chiesta da mesi dal generale John Nicholson, al comando delle truppe USA e NATO nel Paese.

Da questo punto di vista  il recente allontanamento di Steve Bannon è una garanzia. L’ex consigliere di Trump era  il più cauto e il più contrario a un nuovo surge. la ripresa di iniziativa americana consentirà a Kabul di tornare ad essere, dalla Cenerentola del Pentagono a cui sembrava esser stata degradata, una nuova  reginetta – pur se in forma più contenuta che in passato.

Rabbia pachistana

Se a Kabul si festeggia, a Islamabad si mastica amaro. Nel discorso di Trump del 22 agosto il Pakistan è stato uno degli elementi centrali del “piano”, soprattutto in senso negativo: il governo pakistano è stato espressamente indicato come il responsabile maggiore, nelle parole del presidente, di una guerra che non si riesce a vincere. Tanto rapidi sono stati gli apprezzamenti di Kabul (poche ore dopo il discorso, Trump incassava il plauso dell’ambasciatore afgano a Washington e subito dopo quello del Presidente Ashraf Ghani e del suo governo) tanto veloci sono state le rimostranze pachistane che hanno avuto eco anche nelle dichiarazioni della Cina, il Paese più solidale con Islamabad.

Il Pakistan – che versa tra l’altro in un momento complesso dopo l’uscita di scena del premier Nawaz Sharif per il cosiddetto scandalo Panamaleaks – si è indignato per il tenore delle accuse (per altro non molto diverse da quelle sempre avanzate dall’amministrazione Obama) ma soprattutto perché Trump ha invitato proprio l’India – il rivale di sempre – a intensificare il suo intervento nel quadrante. E’ un invito che, alle orecchie pachistane, suona come un via libera a Delhi per rafforzare la testa di ponte già creata in Afghanistan con l’apertura di consolati, l’invio di contributi economici e il lancio di progetti di formazione per l’esercito afgano. Il Pakistan vede naturalmente con il fumo negli occhi il consolidamento della presenza indiana nella regione.

Come se non bastasse, il discorso di Trump ha omesso di ricordare, cosa che la diplomazia americana ha invece sempre fatto, almeno gli sforzi del governo pakistano contro gli islamisti e il tributo di sangue pagato dai suoi militari nelle aree di confine. Senza contare il fratto che, se i talebani afgani hanno i loro santuari in Pakistan, a loro volta i talebani pachistani usano l’Afghanistan per sfuggire alla giustizia del “Paese dei puri”.

Gli scenari sempre incerti

Visto da Kabul e da Islamabad il piano di Trump rivela dunque luci ed ombre, e non è privo di rischi. I rapporti con Kabul sono ottimi ma sono basati sulla debolezza di un governo senza consensi e disposto a tutto pur di ricevere nuovi finanziamenti esterni. Un alleato debole in un quadro locale e macro-regionale molto complesso. I rapporti col Pakistan rischiano invece di peggiorare e nessuno più di Islamabad può far deragliare qualsiasi processo negoziale in Afghanistan.

Proprio sulla possibilità di un processo negoziale è giusto concludere questa riflessione. Trump ha invitato i talebani a trattare, ma li ha anche minacciati, con uno stile da sceriffo, senza offrire alcuna apertura. Il tono del Presidente è stato ripreso due giorni dopo dal generale Nicholson a Kabul, che ha apostrofato la guerriglia in turbante “banda di criminali”, dediti al traffico di droga e ai rapimenti a scopo di estorsione. Non esattamente l’inizio di una strategia negoziale.

La sensazione infatti è che, dal punto di vista diplomatico, gli Stati Uniti si stiano infilando in un ginepraio che complicherà le cose più che renderle chiare. E se queste son le premesse politiche, anche la guerra rischia di essere l’ennesima situazione senza via d’uscita.