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L’ondata di proteste in Iran, dinamiche e rischi

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Oltre due mesi dopo la tragica morte di Mahsa Amini, la giovane ragazza curda deceduta sotto custodia della polizia morale tre giorni dopo il suo arresto a Teheran, non si ferma l’ondata di proteste scoppiate in diversi centri urbani contro il sistema politico iraniano.

Allo stesso modo, non si ferma la macchina repressiva messa in campo dalle autorità che, fin da subito, hanno deciso di rispondere con la forza per silenziare il dissenso. Macchina repressiva che secondo l’associazione per i diritti umani Human Rights Watch avrebbe provocato già più di 400 vittime, tra cui 50 minori, e oltre 17.000 arresti: una situazione drammatica, ma altrettanto difficile da monitorare a causa dell’assenza di organizzazioni indipendenti che possano svolgere indagini sul campo. Il governo guidato da Ebrahim Raisi, eletto nel giugno del 2021 con solo il 49% di affluenza alle urne, il dato più basso registrato dalla nascita della Repubblica Islamica, ha rifiutato di ascoltare le richieste di chi protesta, accusando anzi i suoi nemici storici, come Stati Uniti e Israele, di “fomentare i disordini e di infiltrare le proprie spie tra i manifestanti”. Se le proteste non sono un fenomeno nuovo nella storia contemporanea iraniana, ma anzi si verificano ciclicamente, le mobilitazioni odierne mostrano caratteristiche inedite, se non nelle rivendicazioni nelle loro forme di espressione.

Le proteste che da metà settembre si sono svolte in oltre 100 città dell’Iran sono nate per esprimere solidarietà a Mahsa Amini e per contestare l’ultimo atto di violenza impunito delle forze di polizia. Le giovani donne iraniane sono scese in strada per rivendicare maggiori diritti e libertà individuali, per rifiutare il modello femminile imposto dallo stato e opporsi al controllo delle istituzioni sul proprio corpo.

La grande manifestazione di protesta verso il cimitero di Aichi a Saqez, città natale di Mahsa Amini, in occasione del quarantesimo giorno dopo la morte della donna.

 

Le discriminazioni di genere hanno origini molto profonde, e per decenni, infatti, le attiviste iraniane hanno portato avanti importanti campagne di sensibilizzazione e di richiesta di maggiori diritti. Ma ciò che rende il movimento di protesta attuale inedito è il protagonismo delle giovani ragazze d’età tra i 15 e i 25 anni. Studentesse delle scuole superiori sfidano le autorità, i divieti e le leggi vigenti attraverso forme di resistenza e disobbedienza quotidiana, ad esempio camminando in strada senza indossare il velo, rischiando quindi l’arresto. Mahsa Amini fu arrestata dalla polizia proprio con l’accusa di indossare “male” l’hijab, ovvero in modo non conforme alle leggi vigenti. Le restrizioni degli spazi di libertà individuale sono un fenomeno decennale e che ha sempre generato insofferenza in alcuni segmenti della popolazione. Oggi, però, i giovani sembrano tollerare meno le imposizione dall’alto e le discriminazioni di genere. Per questo hanno dato vita a un movimento spontaneo di contestazione collettivo che ha posto inizialmente al centro la condizione delle donne e il riconoscimento dei loro diritti.

La mobilitazione delle giovani iraniane ha incontrato da subito il sostegno anche degli uomini, delle minoranze etniche (Mahsa Amini, come detto, era una ragazza curda, e i curdi sono una comunità particolarmente discriminata dal governo iraniano) e degli studenti universitari che hanno organizzato sit-in in diversi campus. Il movimento ha attratto diversi gruppi sociali e generazionali della società iraniana, ma non è rimasto confinato alle tematiche di genere. Il celebre slogan “zan, zendeghi, azadi” (donna, vita e libertà) è stato affiancato da cori antigovernativi, come “marg bar diktator” (morte al dittatore) o “marg bar Khamenei”: Ali Khamenei, di cui i manifestanti si augurano la morte, è l’attuale Guida Suprema, ovvero la più altra autorità religiosa e politica del paese. Con la nascita della Repubblica Islamica a seguito della rivoluzione del 1978-1979, questa figura, chiamata rahbar, venne istituzionalizzata dalla Costituzione.

Nonostante la forte repressione, i manifestanti continuano a invocare la fine della Repubblica Islamica e lo fanno anche attraverso l’attacco non verbale ai suoi simboli fondanti, come quei poster dell’Ayatollah Khomeini dati alle fiamme. Khomeini fu appunto tra i principali ideatori e fondatori dell’attuale sistema politico-religioso iraniano, e Guida Suprema dal 1979 al 1989.

Eppure, nonostante l’attacco ai simboli fondanti del sistema, siamo ancora lontani da un processo rivoluzionario. Manca infatti la partecipazione dei commercianti e dei lavoratori, che hanno protestato in altre occasioni anche nel corso di quest’anno, ma oggi appaiono più cauti nel sostenere concretamente la mobilitazione giovanile. Mancano le defezioni all’interno delle forze armate. E soprattutto manca una struttura politica capace di avviare e sostenere una transizione istituzionale. I manifestanti sono ancora sprovvisti di una leadership, di un coordinamento e di portavoce riconoscibili che mettano a sistema le varie richieste provenienti dalle piazze.

Mentre il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha approvato il 24 novembre una  Risoluzione che condanna le violazioni dei diritti umani da parte del governo iraniano, nelle istituzioni del Paese scarseggiano voci capaci di avviare un cambio di rotta. I gruppi conservatori, sostenuti dalla magistratura, ovvero il braccio destro della Guida Suprema, sono riusciti nel tempo a estromettere dai centri di potere le forze riformiste e quelle di opposizione. Ad oggi, infatti, è assente una forza politica interna al sistema capace di rappresentare le richieste della società e di essere riconosciuta come tale. I tradizionali sostenitori del movimento riformista, ovvero il ceto medio urbano e i ragazzi che hanno votato per la prima volta nel 1997, determinando così la storica vittoria del presidente riformista Mohammad Khatami, sembrano assenti dalle piazze. La loro disillusione politica è seguita alla brutale repressione dell’Onda Verde del 2009, all’indomani della fraudolenta rielezione del presiedente uscente Mahmud Ahmadinejad.

L’epilogo dell’Onda Verde, con la repressione dei manifestanti e l’arresto dei loro leader politici nonché esponenti del fronte riformista, Mir-Hossein Musavi e Mehdi Karrubi, fece emergere le reali difficoltà del movimento riformista di avviare un graduale processo di trasformazione dall’interno. Oggi, i protagonisti dell’attuale protesta non dispongono né di una guida, né di un riferimento politico. Il loro dissenso si manifesta in modo apolitico, disorganizzato ma resiliente, spontaneo eppure inclusivo (ovvero capace di attrarre diversi gruppi sociali e generazionali).

È molto difficile, se non impossibile, prevedere l’andamento delle proteste e comprendere gli effetti che queste avranno nel breve e medio termine. Alle condizioni attuali, non sembrano capaci di rovesciare la Repubblica Islamica, né di persuadere l’élite a forme più o meno ampie di compromesso. Questo perché le proteste hanno portato in superficie un dissenso anti-sistema ampio e stratificato, una frustrazione diffusa che comprende dalle difficoltà economiche all’inquinamento delle risorse idriche, fino ai diritti umani, alle discriminazioni di genere e alle limitazioni delle libertà individuali. Il sistema politico nato all’indomani della rivoluzione del 1979 con l’obiettivo di garantire la giustizia sociale e l’uguaglianza socio-economica, non solo ha tradito le aspettative dei suoi sostenitori (commercianti, studenti universitari, intellettuali, i poveri delle periferie cittadine) ma appare incapace di dialogare con i giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione, e di fornire loro modelli e paradigmi culturali credibili e condivisibili. È per questo che la Repubblica Islamica dovrà ben presto fare i conti con un’inevitabile crisi di legittimità che già da oggi appare evidente. L’establishment ha cercato per decenni di veicolare -soprattutto ai giovani- modelli politico-culturale a sostegno dei suoi valori. Questo sforzo si è riversato in diversi ambiti della vita quotidiana, come l’istruzione, l’arte e la cultura, programmi televisivi e cinematografia. Un esempio è la diffusione della canzone pro-sistema salam farmandeh (ciao comandante), che celebra i leader della rivoluzione e i suoi paradigmi. Questa canzone, insegnata ai bambini nelle scuole e trasmessa negli spazi pubblici come gli stadi, aveva l’obiettivo di creare un collante sociale a sostegno del sistema. Eppure, questa macchina propagandistica è ritenuta poco credibile dai tanti giovani del paese.

 

È verosimile credere che le odierne proteste giovanili potranno generare effetti nel medio-lungo periodo, ma sempre con le dovute cautele. La futura successione dell’anziana Guida Suprema, Ali Khamenei, potrebbe infatti aprire scenari imprevisti e dare vita a una trasformazione politico-istituzionale non necessariamente più liberale. Non deve essere sottovalutato il peso politico ed economico delle Guardie della Rivoluzione, oggi impegnate nel reprimere le manifestazioni di dissenso, domani probabilmente protagoniste di un Iran ben diverso da quello che abbiamo conosciuto finora.