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Lo Stretto di Hormuz e la geopolitica turbolenta del Golfo Persico

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Il Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz sono tra le vie di navigazione più importanti del mondo. Lo Stretto è un braccio di mare di enorme rilevanza geostrategica poiché – situato tra Iran e Oman – collega il Golfo Persico al Golfo di Oman e al Mar Arabico. La rotta consente ai produttori del Medio Oriente di spedire greggio su petroliere ai consumatori in Asia, Europa e Nord America. Nel 2018 circa un quinto del petrolio mondiale, quasi 21 milioni di barili al giorno, vi è passato attraverso. Lo Stretto, lungo 39 chilometri e costellato di isolette rivendicate da Iran ed Emirati, è l’unica rotta verso l’oceano aperto anche per un terzo del gas naturale liquefatto del mondo.

Una petroliera colpita da un missile nello stretto di Hormuz, nell’estate del 2019

 

Il punto più stretto misura 33 chilometri ma le rotte di navigazione in entrambe le direzioni sono larghe appena tre. Per questo motivo, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita hanno proposto di costruire più oleodotti, per evitare di dovervi dipendere in toto, alla luce di tutti i conflitti che ha sempre riservato – come ad esempio la prima guerra del Golfo, iniziata il 2 agosto 1990 e conclusasi il 28 febbraio 1991, che oppose l’Iraq ad una coalizione composta da 35 stati sotto l’egida dell’Onu e guidata dagli Stati Uniti, che aveva come obiettivo di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait.

Persino il nome, Golfo Persico o Golfo Arabico a seconda della sponda dove ci si trovi, è da sempre oggetto di dispute. La dizione Golfo Persico, cioè iraniano, è stata contestata da alcuni Paesi arabi sin dagli anni ‘60, sia per la rivalità tra l’Iran e alcuni Stati arabi, sia per l’emergere del panarabismo e del nazionalismo arabo. Così da molti Stati della regione è chiamato Golfo Arabico.

In ogni caso, questa area è stata un crocevia di civiltà da sempre. Era ben conosciuta dai primi navigatori locali e dall’inizio del XVI secolo da commercianti portoghesi, britannici e olandesi. Fino alla scoperta del petrolio in Iran nel 1908, l’area del Golfo Persico era importante principalmente per la pesca, il commercio di perle, la costruzione di dau (la tradizionale barca a vela araba tipica della regione), la produzione di tele per le vele, l’allevamento di cammelli, la fabbricazione di stuoie. Dalla Seconda guerra mondiale, però, tutto è cambiato grazie alla posizione dei Paesi circostanti come leader nella produzione mondiale di petrolio. I maggiori terminali per le petroliere sono i porti di Khārg Island in Iran, Kuwait, Al-Dammām in Arabia Saudita, Bahrain, Port Rāshid negli Emirati Arabi Uniti.

La competizione per le enormi riserve energetiche è anche una delle cause dei principali conflitti nella regione: la sanguinosissima guerra Iran-Iraq degli anni ‘80, la guerra del Golfo dei primi anni ‘90, quando Saddam Hussein ha cercato di ripagare i costi della prima con l’appropriazione del petrolio kuwaitiano, per finire con l’occupazione americana dell’Iraq del 2003 (almeno in parte riconducibile all’importanza energetica del Paese).

A partire dagli anni ‘70 gli Stati regionali, specie l’Iran, hanno sviluppato la loro industria di raffinazione, ma la maggior parte del greggio viene esportata ancora oggi nell’Europa e nell’Asia orientale. In seguito alla Prima guerra del Golfo nel 1990, il Dipartimento della Difesa americano decise di creare una flotta responsabile per il Golfo Persico, il Mar Arabico, il Mar Rosso e parte dell’Oceano Indiano lungo la costa orientale dell’Africa: è la Quinta Flotta degli Stati Uniti, con sede a Manama, in Bahrein, responsabile della protezione delle rotte marittime.

Pur a fronte di queste ricorrenti tensioni, il trasporto marittimo rimane ad oggi il più conveniente e lo Stretto di Hormuz resta un’arteria vitale per i principali esportatori di petrolio nella regione del Golfo, le cui economie si reggono sugli idrocarburi, nonostante i tentativi di diversificazione di Abu Dhabi e adesso anche di Riad.

Nel 2018, l’Arabia Saudita ha inviato quasi 6,4 milioni di barili di petrolio al giorno attraverso lo Stretto, l’Iraq più di 3,4 milioni, gli Emirati Arabi Uniti quasi 2,7 milioni e il Kuwait poco più di 2 milioni. Anche per l’Iran è molto importante questa rotta per le sue esportazioni di greggio (peraltro sottoposte a misure di embargo da parte degli USA che limitano anche gli acquisti di vari Paesi alleati). E il Qatar, il più grande produttore mondiale di gas naturale liquefatto, lo esporta quasi tutto attraverso Hormuz.

La centralità commerciale di questa rotta è ancora cresciuta negli ultimi anni per il collegamento con le principali economie asiatiche. La maggior parte del petrolio che ha attraversato lo stretto nel 2018 è andato in Cina, Giappone, Corea del Sud e India. Ciò non toglie che anche gli Stati Uniti hanno importato quasi 1,4 milioni di barili al giorno tramite questa rotta, e pure l’Europa ne resta dipendente.

L’area è in continuo fermento. Vengono scoperte nuove riserve, sia a terra che in mare aperto: ad esempio il giacimento di petrolio e gas di Hengam che si trova a 70 chilometri al largo delle coste iraniane vicino allo stretto di Hormuz entrato in funzione verso la fine del 2010. E ciò ha portato a diverse controversie legali tra gli Stati sulla precisa definizione delle acque territoriali e delle zone economiche esclusive. Ci sono naturalmente delle norme di diritto internazionale che delineano le competenze degli Stati confinanti sul Golfo Persico. Secondo le Nazioni Unite i Paesi possono esercitare il controllo fino a 12 miglia nautiche dalla loro costa. Ma in base alle convenzioni internazionali le navi, comprese le navi militari, hanno il diritto di passaggio nelle acque territoriali di uno Stato.

I pozzi di Hengam

 

Sebbene lo Stretto di Hormuz resti il percorso migliore per il trasporto di grandi volumi di petrolio fuori dal Golfo ed è l’unico percorso via mare, ci sono anche oleodotti terrestri. Un oleodotto saudita attraverso il Mar Rosso, con una capacità di circa 5 milioni di barili di petrolio al giorno. Abu Dhabi ne ha uno che può trasportare circa 1,5 milioni di barili di petrolio al giorno lungo la costa. E ce ne è anche un altro che può trasportare il petrolio iracheno fino alla costa mediterranea. Ma non tutti questi impianti funzionano al massimo. E soprattutto non possono trasportare tutto il petrolio che può essere spostato su una nave.

Due Paesi hanno recentemente acquisito particolare rilevanza nella geopolitica regionale: Iran (da sempre un protagonista controverso) e Cina. Gli Stati Uniti hanno ora rafforzato la loro presenza militare nella regione, soprattutto in funzione anti-iraniana. L’Iran ha rilasciato il 9 aprile la petroliera sudcoreana Hankuk Chemi, ed il suo capitano, che aveva sequestrato all’inizio di gennaio proprio nelle acque del Golfo Persico. La nave e il suo equipaggio erano stati fermati, in risposta al blocco da parte di Seul di beni iraniani per 7 miliardi di dollari nell’ambito delle sanzioni USA.

Ma già a giugno 2019 si era rischiato che la situazione precipitasse, quando nel Golfo dell’Oman due petroliere andarono a fuoco e gli Stati Uniti accusarono dell’incidente Teheran. La chiusura dello Stretto, infatti, può ovviamente comportare ritardi e costi di spedizione più elevati per le merci. Ora si affaccia sull’area pure un nuovo attore fondamentale nei giochi regionali, la Cina. La strategia di Pechino per il Golfo Persico si basa sulla costruzione di legami economici con tutti gli attori regionali, perseguendo un approccio apolitico e neutrale con questi Paesi.

La Cina ha infatti estremo bisogno delle risorse energetiche del Golfo e punta anche alla sua ambiziosa espansione attraverso la Belt and Road Initiative, la cosiddetta Nuova Via della Seta, che intende connettere di nuovo Pechino al Golfo, al Mar Arabico, al Mar Rosso e al Mediterraneo. Ma la sua riluttanza a essere coinvolta nelle controversie regionali dovrà forse cedere il passo sul lungo termine a un approccio più coraggioso e a una posizione più schierata.