Lo stato dello scontro politico negli USA
L’apertura scelta dal Presidente Trump per il suo discorso al Congresso sembra condensare le flebili speranze di trovare qualche terreno di consenso nella politica americana sempre più divisa: c’è un’agenda comune che va oltre le spaccature tra (e dentro) i partiti, e in particolare “victory is not winning for our party, victory is winning for our country”.
In effetti proprio questa frase, apparentemente non controversa, svela una mentalità che rende impossibile una stagione di scelte “moderate” e consensuali: si può “vincere” una partita, ma certo non si può vincere nello stesso modo assoluto nei confronti di un alleato, e neppure di un partner commerciale; si può “vincere” una scommessa, ma le scelte di policy non si prestano a una logica binaria di successi e sconfitte. La selezione delle parole, certo non casuale, svela una delle idiosincrasie dell’attuale Presidente; e su questa visione della politica, i Democratici non seguiranno Donald Trump, inutile farsi illusioni.
Lo State of the Union 2019 è arrivato in ritardo rispetto a una prassi consolidata proprio a causa di uno scontro durissimo che è tuttora in atto: la solenne occasione è stata posticipata di una settimana per la spaccatura politica tra Presidente e leadership della Camera sullo shutdown di 35 giorni. E va ricordato che il discorso presidenziale è stato una sorta di inciso tra la sospensione dello shutdown (25 gennaio) e la fine prevista di questa “tregua” (il 15 febbraio), entra la quale è necessario comunque trovare un compromesso. Il clima politico insomma potrebbe difficilmente essere più teso, visto che, anche nel discorso al Congresso, Trump ha ribadito la volontà di ampliare la barriera al confine con il Messico (il muro è stata la miccia che ha innescato lo shutdown) mentre i Democratici continuano a considerarla un’opzione inaccettabile.
Aver rimandato lo State of the Union, e aver creato le condizioni politiche perché ciò accadesse, è stato un grave rischio per entrambe le parti – il Presidente e lo Speaker della Camera, tornata ai Democratici dopo le Midterm dell’autunno. Un importante principio fissato dalla Costituzione americana è stato temporaneamente sacrificato ad altre priorità – sebbene non tecnicamente violato, visto che lo Speaker ha formalmente la facoltà di invitare oppure no il Presidente. E’ chiaro comunque che una prassi consolidata è stata indebolita, e in una fase di forte polarizzazione politica questo è un dato molto negativo. Nella bufera di accuse reciproche è infatti passato in secondo piano – e questa è la responsabilità che grava sulle spalle di Nancy Pelosi – il fatto che quando il capo dell’esecutivo si rivolge al Congresso si realizza uno scambio e si conferma un delicato equilibrio di poteri: il Presidente ha infatti la grande opportunità di parlare al Paese intero da un pulpito perfino più alto della stessa Casa Bianca, ma al contempo riconosce il ruolo centrale dell’istituto parlamentare. Ecco, questo equilibrio non è stato rispettato da nessuna delle due parti della contesa in atto, almeno in una prima fase. Potrà certo essere ristabilito con qualche sforzo, vista la resilienza del sistema costituzionale americano; ma intanto è stato sferrato un colpo a quel sistema.
Ora che siamo già nella fase di avvio della campagna presidenziale verso il 2020, diventano ancora più probabili nuovi episodi di vero braccio di ferro politico. Le condizioni del Paese saranno diverse da quelle del 2016, e non solo perché si viene da oltre due anni di forte polarizzazione e indebolimento istituzionale.
Sullo sfondo dell’impostazione politica ribadita da Trump, fortemente centrata su quello che ha definito un vero “miracolo economico” in atto, si staglia ora un possibile nuovo scenario: quello di un rallentamento dell’economia. Che vi siano alcuni dubbi e timori sulla tenuta della crescita-record è evidenziato da vari segnali, sebbene embrionali: la correzione di tiro da parte della Federal Reserve (ora meno preoccupata da un “surriscaldamento” per eccesso di crescita), e le analisi a medio termine che identificano alcuni effetti negativi delle dispute commerciali e del rallentamento europeo già in atto. Se i segnali venissero confermati, l’intero approccio trumpiano del “Make America Great Again” perderebbe un punto di appoggio fondamentale.
Tutti gli sviluppi successivi al voto di metà mandato dello scorso novembre ci ricordano che il “metodo Trump” consiste nel contrapporre la sua persona – non la sua carica – a coloro che ricoprono ruoli istituzionali. Lo ha fatto sistematicamente, nei due casi più recenti scaricando gravi responsabilità sul Congresso (per la mancata costruzione del muro e in generale per la gestione dell’immigrazione) e sui servizi di intelligence (per le valutazioni, dissonanti dalle sue, su ISIS, Iran e Nord Corea). Come ben noto, gli attacchi non sono rivolti soltanto ai naturali avversari politici ma anche, e sempre più spesso, ad agenzie apartitiche e perfino agli stessi collaboratori di governo selezionati dal Presidente.
Questo modo di impostare i processi decisionali impone una scelta: si possono accettare le “regole-Trump” di comunicazione politica e dunque personalizzare al massimo grado la contesa; oppure si può trasformare il dibattito politico in uno scontro istituzionale a tutto tondo.
La prima strada è quella seguita, tra gli altri, da Alexandria Ocasio-Cortez, neoeletta alla Camera che punta moltissimo sull’uso dei social media per veicolare un’agenda decisamente di sinistra (almeno per gli standard americani). Ocasio sta facendo parlare molto di sé soprattutto grazie allo stile, tutto costruito attorno alla sua personalità e alla sua anagrafe. Una sorta di antitesi di Donald Trump, che però in qualche modo ne accetta la sfida comunicativa. Probabilmente è anche la scelta fatta da alcuni degli aspiranti presidenziali democratici, come il primo a dichiarare la sua candidatura, l’ex-membro dell’Amministrazione Obama (come Secretary of Housing and Urban Development) Julian Castro.
La seconda strada è quella percorsa da Nancy Pelosi nella gestione dello shutdown, e a quanto suggeriscono le primissime uscite anche da un’altra delle aspiranti-candidate presidenziali del Partito Democratico, la Senatrice Kamala Harris (con la sua solida expertise di ex-District Attorney a San Francisco). La probabile candidatura alle primarie di Joe Biden (Vicepresidente con Obama e politico di lungo corso) si inserisce nello stesso schema, in forma più marcata: solide credenziali istituzionali, grande esperienza e un’immagine rassicurante, ma certo non una personalità che “buchi lo schermo”.
Vedremo se emergeranno figure in grado di combinare un forte senso delle istituzioni, la capacità di fare richiami credibili all’unità nazionale, e un buon impatto personale e di immagine. In fondo, fu la combinazione che portò alla presidenza Barack Obama, dopo una rincorsa iniziata con il keynote address alla Convention democratica del luglio 2004 che era incentrato sul concetto di “E pluribus unum”.
La “via istituzionale” sembra comunque compatibile con una specifica analisi del quadro politico americano: si è forse creato uno spazio al centro dello spettro, cioè un’area di posizioni moderate che potrebbero risultare attraenti a non pochi elettori (sia Repubblicani che Democratici). Si tratta in pratica di scommettere su una sorta di sfinimento da polarizzazione, in grado di spostare nuovamente voti dalle posizioni più estreme verso il centro. Per ora è soltanto un’ipotesi remota. Questa sì che sarebbe però una “vittoria” netta, nel linguaggio che piace a Donald Trump – e il premio è la Casa Bianca.