L’Impero e il Santuario nell’America di Trump
Domenica 27 ottobre, in un mattino di pioggia che sferzava Washington e tutta la East Coast, gli americani hanno guardato in televisione il Presidente annunciare la morte di Abu Bakr al-Baghdadi. Hanno ascoltato un solista misurarsi col repertorio verbale da saloon western: “è morto come un cane, è morto come un codardo”, le parole del Commander in Chief.
Donald Trump ha enfatizzato la contraddizione più greve dell’America sotto la sua guida. Da una parte gli apparati nel loro insieme – diplomazia, intelligence, forze speciali – perseguono una missione precisa (il loro sguardo è marmoreo e ricorda la postura della statua di Abraham Lincoln a dominare un orizzonte globale); dall’altra la Presidenza catalizza invece ogni evento sulle imprevedibili aritmie della propria personalità.
Trump ha sbrigativamente gratificato tutte le potenze straniere (o semplici unità militari) presenti nel teatro del raid con lo stesso aggettivo: “great”. E ha poi stilato un’improbabile classifica di merito: l’eliminazione di al-Baghdadi è più importante di quella di Osama bin Laden, ha detto, perché il primo significava “solo” l’11 settembre, mentre qui si trattava del Califfo dello Stato Islamico.
L’Impero fibrilla quando si avvicina l’anno elettorale, ma lo scenario odierno segna forse il delta più estremo tra il vertice politico del potere – la Casa Bianca – e i suoi strumenti: quelli diplomatici ma soprattutto quelli militari. La personalizzazione imposta da Trump all’alfabeto, e alla sostanza, della politica americana denuda la Nazione e rende manifeste le sue fragilità.
Eppure nel cuore dell’Impero pulsa anche il Santuario. Sono, ad esempio, le città che hanno deciso di opporsi alle leggi federali volute da Trump in tema d’immigrazione. San Francisco e New York, Houston e Chicago e soprattutto Philadelphia. Nei santuari l’immigrato clandestino non è un criminale tout court, come ha voluto dipingerlo la narrativa presidenziale, ma un individuo (con l’obiettivo primario di sopravvivere e ricongiungersi con la propria famiglia) nel cui destino, per estensione, è in gioco l’essenza dei valori sui quali l’America è nata.
Impero e Santuario tuttavia collidono quando Trump evoca i “foreign fighters” europei e sottolinea come in tema di confini l’America, o meglio la sua Amministrazione, ha idee chiare e non negoziabili. L’accostamento migrante-minaccia (per ordine pubblico e terrorismo) in un Paese nato dall’immigrazione è un paradosso storico, eppure rappresenta oggi il punto critico della percezione che gli Stati Uniti hanno di loro stessi. L’intimidazione di Trump di ritirare i sussidi federali alle città santuario è la prova di questa crepa interna nel colosso imperiale.
Philadelphia è importante perché, come capitale provvisoria prima di Washington D.C. e come città dei Padri Fondatori, è il simbolo dell’Indipendenza. Con tutto il carico retorico che questo tipo di memoria si porta sempre in dote. Attualizzare i grandi sermoni di Benjamin Franklin, John Adams o Thomas Jefferson significa sintonizzarsi col presente. Per questa ragione, forse, Impero e Santuario non andrebbero visti come fattori contrapposti.
Essere partigiani solo del primo o solo del secondo non ha senso. Si può spingersi addirittura fino a dire che il Santuario è parte dell’Impero e non viceversa. Gli Stati Uniti hanno una netta vocazione imperiale, modulata dal pragmatismo nazionale ma anche poggiata su un certo idealismo, diversa da quella russa, alimentata invece da una commistione religiosa e mitica. Anche volendo il contrario, l’America non potrebbe mai sottrarsi alle proprie responsabilità internazionali, come sanno bene gli isolazionisti a parole e mai nei fatti, non ultimo Trump.
Ma è altrettanto vero che il Santuario esprime l’attualizzazione di valori altrimenti troppo generici sulla carta. Basti pensare alle parole d’ordine dei padri fondatori di Philadelphia a fine Settecento – libertà, eguaglianza, giustizia – o alla celebre espressione di Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’Indipendenza “all men are created equal” – anche se Jefferson in vita liberò solo due schiavi su seicento che ne aveva a servizio nella palladiana residenza di Monticello, dimostrando una volta di più la forza del richiamo comunitario, anche se democratico, in presenza di un soggetto percepito come “altro”.
Nati nel nome della libertà, ma con uno schiavo ogni cinque abitanti, gli Stati Uniti e la schiavitù convissero ancora più di cento anni, con lo strascico di leggi segregazioniste nei singoli Stati dell’Unione.
Certo, quelli di Jefferson erano gli Stati Uniti prima dell’espansione verso il Mississippi, ancora molto lontani dal rango odierno di super potenza. Eppure la complessa dialettica tra ragione di stato e forza delle idee era già latente, come la stessa Costituzione ben dimostra. La Carta è sì la legge suprema dell’Unione, ma appena promulgata si capì immediatamente che senza “Emendamenti” non avrebbe potuto resistere all’usura del tempo e del senso comune.
Il Santuario è l’erede di quella Carta, ma incide solo se si attua senza slogan e con altrettanto pragmatismo dell’Impero. Esso è l’unico antidoto per l’America muscolare che colpisce in Siria con precisione altissima ma si espone a ritorsioni ovunque, e cerca un’alternativa – non solo elettorale ma culturale e identitaria – al trumpismo latente nel suo favoloso DNA, affascinante e bastardo.