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L’impatto globale del tragico errore di Putin

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 La decisione di invadere, per la seconda volta dal 2014, il territorio ucraino è un tragico errore commesso da Vladimir Putin. Lo è sia per la popolazione civile ucraina, sia per la Russia (che ne sta già pagando le conseguenze in termini di tenore di vita, libertà politiche ancora più compresse, e prospettive future).

Quella scelta sta producendo intanto alcune ripercussioni a livello macro-europeo e globale. Quando un grave shock colpisce, si è portati a pensare che “nulla sarà più come prima”. Immancabilmente, accade che molto può in effetti tornare come prima, e ci si rende conto che i cambiamenti erano in corso anche senza lo shock. Il dramma ucraino, imposto dalla Russia di Putin, non fa eccezione, perché segna un’accelerazione che è stata preparata da mutamenti graduali.

Tra gli effetti “sistemici” qui sotto elencati, nessuno è realmente un’assoluta novità, ma ciascuno è probabilmente un cambio di passo.

Parà americani in partenza da Aviano verso la Lettonia il giorno prima dell’invasione russa dell’Ucraina

 

Il primo fattore ad essere già emerso dalla tragedia ucraina è di tipo politico e strategico, ma al contempo ideale. Riguarda soprattutto la reazione americana. Il Presidente Joe Biden, nel discorso pronunciato a Varsavia il 26 marzo, ha evidenziato un legame diretto tra la Guerra fredda, la sua conclusione con la dissoluzione dell’URSS (dicembre 1991), e la situazione attuale:

“the Soviet Union collapsed, and Poland and Central and Eastern Europe would soon be free. Nothing about that battle for freedom was simple or easy. It was a long, painful slog fought over not days and months, but years and decades.

But we emerged anew in the great battle for freedom: a battle between democracy and autocracy, between liberty and repression, between a rules-based order and one governed by brute force.

In this battle, we need to be clear-eyed.  This battle will not be won in days or months either.  We need to steel ourselves for the long fight ahead.”

Nelle parole di Biden è degno di nota anzitutto il ricorso alla tradizionale distinzione tra democrazie e autocrazie come dato fondante di un “ordine internazionale liberale”, che peraltro era stato anticipato nello State of the Union del 1° marzo ma anche dal “Summit delle democrazie” del dicembre 2021.

 

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In tal senso, il “lungo scontro” che ci aspetta (“the long fight ahead”) evoca una nuova fase nei rapporti internazionali, cioè qualcosa di diverso rispetto a un rapido passaggio o a un incidente di percorso facilmente reversibile. Il presidente americano ha chiarito in pratica che le sanzioni economiche non solo soltanto uno strumento quasi obbligato per fare pressione su Mosca, stante che si è deciso di non rischiare uno scontro militare diretto e di ricorrere intanto a un rafforzamento delle capacità difensive della NATO. Il pacchetto di sanzioni è il cardine di una vera strategia di “contenimento”, e potremmo perfino dire di soffocamento graduale, della Federazione Russa, che almeno con la sua attuale leadership non sarà mai reintegrata pienamente nel sistema internazionale degli scambi e della diplomazia. Quantomeno, è questa la visione presentata da Washington.

Dunque, ne deriva logicamente la frase più controversa e più citata nel discorso di Biden – “For God’s sake, this man cannot remain in power” – subito smussata e quasi ritrattata con qualche imbarazzo dai suoi più stretti collaboratori, anche perché pronunciata a braccio e non presente nel testo scritto che era stato preparato. Questa dichiarazione ha fatto ovviamente scalpore, ma è sostanzialmente coerente con quanto pensano, in privato, i diplomatici e i leader politici di mezzo mondo – certo non tutti, ma converrà pur farsene una ragione. Che poi ci fossero buoni motivi di opportunità per astenersi dall’usare un linguaggio così diretto è altra questione: va intanto preso atto che la vita politica di Vladimir Putin come capo di Stato benaccetto in tutti i consessi internazionali è certamente terminata.

E’ chiaro inoltre che, per Washington, riproporre una visione globale incentrata sulle democrazie liberali di mercato significa automaticamente porre gli Stati Uniti come “leader del mondo libero”. E’ un ruolo-guida che potrebbe essere condiviso con l’Unione Europea, visto che l’amministrazione Biden è assai ben disposta verso l’Europa, ma l’emergenza ha intanto rilanciato soprattutto la funzione insostituibile della NATO. Starà alla UE attrezzarsi per fare, eventualmente, di più e di meglio.

Joe Biden al Castello Reale di Varsavia il 26 marzo

 

Arriviamo così al secondo fattore, potenzialmente di rilevanza globale, emerso dalla guerra in corso: il ruolo possibile dell’Europa anche nel campo della sicurezza. Non basterà l’aumento, pur significativo, delle spese militari, perchè l’ingrediente fondamentale per esercitare un ruolo nella difesa e nella politica internazionale è l’integrazione del procurement, dell’addestramento, delle dottrine d’impiego, e dei comandi militari.

Gli europei, per ora allineati e compatti dietro le misure punitive e dissuasive verso Mosca, dovranno decidere quali responsabilità prendersi davvero in comune e come interpretare il nuovo confronto lungo l’asse “democrazia liberale versus autocrazie”.

Nel farlo dovranno valutare con attenzione un assunto che ne ha guidato l’azione per molti anni (a onor del vero, con alcune voci fuori del coro, non solo polacche e baltiche ma anche britanniche): l’assunto per cui la Russia guidata da Vladimir Putin fosse un partner energetico del tutto affidabile, il che a sua volta presupponeva la possibilità di separare il carattere interno di quel regime politico e perfino i suoi vari obiettivi di politica estera dal rapporto commerciale. Evidentemente non è possibile mantenere, sempre e comunque, quella netta separazione.

E altrettanto vale anche per Paesi come Arabia Saudita, Qatar, Algeria, solo per menzionare alcuni rilevanti attori energetici. In estrema sintesi, l’Unione Europea – che ha appena pubblicato un documento di policy dal titolo “Una bussola strategica per la UE” – deve spingersi rapidamente oltre una presenza e un’azione internazionale che segua una bussola esclusivamente mercantilista, a lungo adottata in particolare da Germania e Italia. E’ comprensibile che guardando verso Est (fino alla Cina) e verso Sud (dal Mediterraneo all’Africa subsahariana) si debba sfumare l’intransigenza nei confronti di governi non pienamente o per nulla democratici; ci si deve però almeno porre il problema, per non trovarsi completamente spiazzati quando arriva l’atto di forza e all’improvviso si cerca conforto e appoggio concreto nei propri alleati più stretti.

 

Ecco quindi un terzo fattore che si può identificare come ripercussione quasi immediata dell’invasione russa dell’Ucraina: il problema delle “democrazie illiberali” o comunque dei “casi grigi” proprio lungo lo spettro democrazia-autocrazia. Il caso più macroscopico è quello dell’India, potenzialmente un vero ago della bilancia globale e ad oggi una strana chimera in termini di sistema politico-sociale.

Va notato, in ogni caso, che l’eventuale coinvolgimento di Paesi “illiberali” (o parzialmente liberali) non sarebbe necessariamente un tradimento del principio generale – democrazie versus autocrazie – poiché il nucleo della coalizione sarebbe comunque costituito da regimi politici con caratteristiche comuni. In sostanza, l’obiettivo di una vasta coalizione anti-autoritaria non è quello di conferire immacolate “patenti di democraticità”, bensì quello di frenare le ambizioni militari russe, cinesi o nordcoreane, e di compattare un fronte a guida e ispirazione democratica. Come sempre, la politica (internazionale) è l’arte del possibile, non un esercizio di categorizzazione formale.

Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu con Vladimir Putin (2017)

 

Un quarto fattore emergente è l’effetto sulla globalizzazione, che secondo molti sarebbe ormai in traiettoria declinante o perfino del tutto esaurita. Conviene qui ricordare che la globalizzazione è un processo, un meccanismo e una linea di tendenza, più che un sistema compiuto; non stiamo dunque parlando di una foto istantanea ma di fenomeni dinamici e spesso piuttosto caotici. La fase di crescita rapida degli scambi avviata negli anni ’90 si era già conclusa da tempo, ben prima del 24 febbraio 2022. Eppure, molti elementi della globalizzazione stanno agendo proprio sulla crisi in atto: si pensi alla forte interdipendenza energetica che dalle forniture passa ai prezzi dei beni di consumo, o alla natura interconnessa della finanza internazionale, o ancora all’impatto immediato che la vicenda ucraina ha avuto sull’Asia orientale per il fatto stesso che la Cina (alleato-chiave di Mosca, almeno in apparenza) è così integrata con i mercati globali.

Mentre la Repubblica Popolare Cinese è realmente un attore globale, la Federazione Russa non lo è, ma può indirettamente causare effetti a cascata su larga scala. Siamo allora ad una possibile svolta, per il futuro della globalizzazione, soltanto se Pechino deciderà di dar vita a una sorta di blocco semi-autarchico che potrebbe inglobare una Russia prostrata e quasi del tutto dipendente. Ma se non sarà così, gli aspetti principali del mondo “globalizzato” che conosciamo sono destinati a persistere. Non va infatti dimenticato che le regole degli scambi internazionali del XXI secolo, e le maggiori tecnologie che li rendono possibili, sono il risultato dei mercati e degli investimenti (in parte pubblici) occidentali, e non certo di quelli russi o cinesi. Basti guardare, ad esempio, al peso delle riserve valutarie detenute su scala mondiale in dollari, rispetto a quelle in yuan: circa il 60% contro meno del 3%.

Perché si generi una netta frattura – una cortina digitale, commerciale, militare – tra un blocco euro-americano-asiatico e un blocco sino-russo, sarà necessario anzitutto che Pechino decida di pagarne il prezzo nella vera moneta che dagli anni ’80 il Partito Comunista Cinese ha valutato sopra ogni cosa: la crescita economica accelerata. Perché il blocco a guida cinese possa reggere l’urto, è poi necessario che altri Paesi in Asia, Africa, America Latina, vogliano farne parte – ovviamente rinunciando ai benefici o alle promesse proprio di quella che finora abbiamo chiamato globalizzazione. E quanti vorranno davvero prendere questa strada?

A margine di questo dibattito – complesso e certo non concluso – sulla traiettoria della globalizzazione, si può aggiungere una considerazione sull’uso delle sanzioni economiche non soltanto per gravissime ragioni di sicurezza internazionale o di minimi standard umanitari, ma perfino come strumento quasi ordinario nei rapporti tra partner e alleati. Abbiamo quasi dimenticato, in queste settimane, il modo in cui l’amministrazione Trump ha fatto uso di varie forme di sanzioni (effettivamente imposte o minacciate) contro alcuni Paesi europei, come anche contro Canada e Messico. Sembra un’era geologica fa, ma non lo è; gli elettori americani farebbero bene a ragionare su che tipo di America hanno in mente quando andranno a votare nel prossimo novembre per il mid term e poi nel 2024.

 

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Anche sulla sponda europea del rapporto transatlantico, dove tentazioni analoghe sono temporaneamente sopite ma non scomparse, sarebbe opportuno ricordare che la competizione economico-commerciale è solo un aspetto dei rapporti globali, per quanto decisivo. Per tutti, una semplice lezione potrebbe essere che il protezionismo nazionale ha il respiro davvero corto nel mondo di oggi.

Sempre a margine, una notazione relativa al ruolo precipuo dell’ex presidente Trump nella politica interna americana: è plausibile a questo punto che la guerra di Putin stia affossando le prospettive di Donald Trump di tentare la sorte alle presidenziali del 2024. Le ripetute esternazioni proprio sul leader russo, che si possono definire poco articolate ma certo non casuali nel darne un’immagine tutto sommato positiva, stanno seminando dubbi nel Partito Repubblicano sulla sensatezza di una sua nuova candidatura. E’ ciò che gli avversari interni di Trump aspettavano probabilmente per entrare nella mischia con un profilo politico diverso dal suo.

 

Infine, è forse utile una riflessione legata agli strumenti di analisi: nel complesso, moltissimi osservatori ed esperti sembrano aver parecchio sovrastimato per anni la scaltrezza di Vladimir Putin (grande scacchista?) e soprattutto la sua capacità di impiegare sistematicamente metodi “liminali” (si veda ad esempio il libro di David Kilkullen, “The Dragons and the Snakes: How the Rest Learned to Fight the West”) o ibridi: l’uomo forte del Cremlino ha fatto tutt’altro in Ucraina, e ha così messo in evidenza le gravi carenze delle sue forze armate. In questa prospettiva, si è assistito a un vero fallimento concettuale dei nostri strumenti di interpretazione.

Si è parallelamente sottostimata la persistente superiorità tecnologica occidentale in alcuni settori specifici che possono agire da moltiplicatori, per cui è bastato fornire all’esercito ucraino alcune tipologie di armamenti per cambiare l’equilibrio sul terreno in circa due settimane (certo, dopo aver contribuito all’addestramento di quelle forze militari negli anni scorsi). E’ un’altra lezione importante per il futuro, anche perché certamente a Pechino la stanno osservando e studiando con grande interesse.