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L’impatto di una nuova demografia sulla società cinese

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Nel 2024 la popolazione cinese ha registrato una contrazione per il terzo anno di fila. Con 1,39 milioni di nati in meno rispetto al 2023, la Cina ora conta 1,408 miliardi di abitanti. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, mentre le nascite sono diminuite (9,54 milioni), le morti (10,93 milioni) continuano ad aumentare, a causa del numero sempre maggiore di anziani, confermando un trend cominciato nel 2022, quando è avvenuto il primo sorpasso dei decessi dal 1961.

Proiezione sull’andamento della popolazione cinese

 

La Cina dei pochi figli

All’epoca di Mao era stata la grande carestia a mietere 20 milioni di vittime: un numero  gigantesco, ma che era stato subito ri-assorbito dall’elevatissimo numero di nascite della Cina dell’epoca. Oggi le motivazioni del calo demografico sono più complesse e diversificate. Pur definendosi ancora un “Paese in via di sviluppo”, infatti, la Cina condivide molte delle problematiche sperimentate dalle cosiddette economie mature: aumento del costo della vita, in primis.

Le priorità dei giovani stanno cambiando, gli stigmi sociali influiscono meno sulle scelte personali: la carriera conta spesso più della famiglia. Per le donne, arrivare a trent’anni da single non è più un tabù. Tanto che nel 2024 i matrimoni sono diminuiti con un tasso record del 20%: si sono sposate solo 6,1 milioni di coppie (rispetto ai 7,68 milioni del 2023 e ai 13,47 milioni del 2013), il dato peggiore mai registrato in un anno, pandemia inclusa. Contestualmente, i divorzi sono aumentati dell’1,1%. Tendenza che ha un certo impatto in Cina, dove i figli fuori dalle nozze sono ancora mal visti. 

A completare il quadro concorrono fattori prettamente “locali”: la politica del figlio unico – introdotta nel 1979 e abolita solo nel 2016 – ha portato a un enorme squilibrio di genere, dovuto alla tradizionale preferenza per la discendenza maschile. Oggi gli uomini cinesi superano le donne di circa 32 milioni. E il tasso di fertilità, cioè il numero medio di bambini nati per ogni donna, è sceso ben al di sotto dei 2,1 figli necessari per mantenere la popolazione stabile. Secondo le varie stime, dovrebbe collocarsi attorno a 1,1: un numero inferiore persino a quello dell’Italia, e tra i più bassi del mondo.

Sono cifre nefaste per Pechino, impegnata a ricalibrare i motori dell’economia nazionale. Il “made in China” non è più benvenuto come prima. Le progressive difficoltà di accesso ad alcuni mercati esteri – tra i timori altrui legati alla sicurezza e quelli suscitati dalla sovrapproduzione cinese – rende più impellente fare affidamento sulle proprie risorse per sostenere la crescita. “Dobbiamo essere consapevoli che gli effetti negativi portati dall’ambiente esterno sono in aumento, la domanda interna è insufficiente, alcune imprese hanno difficoltà nella produzione e nel funzionamento e l’economia sta ancora affrontando difficoltà e sfide”, ha affermato l’Istituto. Il calo delle nascite complica l’equazione.

Con 1,460 miliardi di abitanti, secondo le stime delle Nazioni Unite aggiornate a marzo 2025, e un tasso di fertilità di due figli per donna, lo scorso aprile l’India ha superato la Cina per la prima volta, diventando il Paese più popoloso del mondo. Meno chiaro è se il subcontinente – affetto da varie carenze infrastrutturali – riuscirà mai a ottenere anche il titolo di seconda economia mondiale. Per Pechino, tuttavia, la perdita del primato simbolico rappresenta già un campanello d’allarme. Nel prossimo decennio, circa 300 milioni di cinesi sono destinati a lasciare la forza lavoro. Si tratta del segmento sociale più numeroso del Paese, quasi equivalente alle dimensioni dell’intera popolazione degli USA.

 

Cause e conseguenze di un fenomeno nuovo

I risvolti economici sono intuibili. Stando a stime di BMI Country Risk & Industry Analysis (Fitch Group), nella prossima decade la diminuzione dei cittadini in età lavorativa costerà alla Cina un calo dell’1% della crescita del PIL all’anno. Fattore che potrebbe ostacolare l’obiettivo fissato dalla leadership cinese: ovvero rendere la Repubblica Popolare un “Paese moderatamente sviluppato” entro il 2035. Secondo quanto annunciato otto anni fa dal presidente Xi Jinping, in concreto vuol dire riuscire a raddoppiare il reddito pro capite quindici anni prima rispetto a quanto pronosticato da Deng Xiaoping.

Ai numeri vanno aggiunte le implicazioni sociali e politiche: recenti aggressioni nei luoghi pubblici segnalano un aumento dell’instabilità sociale dovuta a problemi economici e fenomeni depressivi. A novembre un’automobile è piombata sulla folla a Zhuhai, nel sudest della Cina, uccidendo trentacinque persone. L’uomo alla guida aveva in sospeso una complicata causa di divorzio. Lo stesso mese un ventunenne ha accoltellato a morte otto persone fuori da una scuola mosso dalla delusione per non aver trovato un buon lavoro.

Oltre alla frustrazione personale, ad aggravare concorre la collisione tra l’individualismo della Cina moderna e il passato collettivista. Nuclei famigliari più piccoli rischiano di indebolire il sistema assistenziale informale, gravando sul welfare pubblico. Con meno lavoratori/contribuenti, l’Accademia cinese delle scienze sociali, il principale think tank statale, prevede che il fondo pensionistico statale si esaurirà proprio entro il 2035. Un bel colpo per il “mandato celeste” del Partito comunista, che in assenza di elezioni fonda la propria legittimità principalmente sui risultati economici.

Per il governo cinese, promuovere le nascite è quindi necessario non solo per supportare la crescita nazionale, ma anche per mantenere il potere. Finora Pechino le ha provate un po’ tutte, con il “bastone” e con la “carota”: ha etichettato le donne nubili come “avanzi” sociali. Ha complicato le procedure di divorzio e per ottenere l’aborto. Ma ha anche prolungato il congedo parentale e offerto sussidi alle coppie per contribuire a fronteggiare i costi dell’assistenza all’infanzia. Sui media statali ricorrono appelli a creare una “nuova cultura del matrimonio e della procreazione”. Nelle università si insegna l’’“educazione all’amore” per infondere nei giovani una visione positiva del matrimonio, della fertilità e della famiglia.

Alcune iniziative hanno sortito alcuni effetti positivi. A Luliang, nella provincia dello Shanxi, dove dal 1° gennaio le coppie sposate ricevono 2.000 yuan per il loro primo figlio registrato, 5.000 per il secondo e 8.000 per il terzo, nell’ultimo mese oltre 400 coppie hanno richiesto certificati di matrimonio. Ma il rallentamento dell’economia rende i sussidi un onere insostenibile per molte amministrazioni locali. E, anche se solo pochi giorni fa – per la prima volta – il governo centrale ha preannunciato misure nazionali di supporto alle famiglie con bambini piccoli, restano da vincere stereotipi duri a morire: tutt’oggi le leggi cinesi precludono alle madri single l’accesso alla procreazione assistita. In alcune aree del Paese i bambini senza un papà faticano ancora a ottenere pari diritti.

 

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Nonostante l’evidente preoccupazione, la dirigenza cinese guarda al calo demografico con ostentato ottimismo. D’altronde, anche nel male, ci sono aspetti promettenti: una popolazione più anziana darà slancio all’”economia della terza età”, i single spenderanno di più per sé stessi, così come le donne in carriera, il cui reddito totale e pro capite sta crescendo più velocemente di quello degli uomini. Lo scopo di questa narrazione edulcorata  è, da una parte, trasmettere ai cittadini fiducia nel futuro; dall’altra, trovando risvolti positivi nella crisi, la dirigenza si smarca dalle responsabilità del passato.

 

La ri-pianificazione familiare del Partito

Lo ha detto chiaramente Xi Jinping in un discorso pubblicato  a novembre sulla rivista teorica Qiushi: “In primo luogo, dobbiamo affermare pienamente la correttezza e l’efficacia della politica di pianificazione familiare”. Giustificando retroattivamente quattro decenni di controllo delle nascite, il presidente ha sottolineato che la politica ha frenato la crescita eccessiva della popolazione agevolando lo sviluppo della Cina: “Alcune questioni richiedono una prospettiva di lungo termine ed è prematuro trarre conclusioni”, ha spiegato Xi.

Se infatti da una parte il calo della popolazione porta con sé molte sfide, dall’altra può presentare dei vantaggi, come un allentamento della pressione sulle risorse e sull’ambiente. La soluzione? Non più semplicemente concentrarsi sui numeri o sul “mantenere la popolazione attuale” – avverte il leader – quanto piuttosto puntare sullo “sviluppo di una popolazione di alta qualità”. Ovvero ottimizzare la struttura e la mobilità sociale: serve una popolazione istruita e innovativa, in grado di sostenere le ambizioni della Cina nella produzione e nella tecnologia avanzate. Appunto, le cosiddette “nuove forze produttive di alta qualità”. I chip, l’intelligenza artificiale e l’industria verde acquistano prominenza, soprattutto alla luce della guerra commerciale con gli Stati Uniti. “Per fare un buon lavoro nella nuova era, dobbiamo soddisfare le aspettative per una vita migliore”, ha sentenziato Xi, aggiungendo che non basta solo “investire nelle cose”. Bisogna “investire nelle persone”, “migliorando un sistema di servizi che copra tutta la popolazione e l’intero ciclo di vita”.

 

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C’è chi considera le parole del presidente propaganda. Come evidenzia su Foreign Policy Lizzi C. Lee dell’Asia Society Policy Institute, la retorica di Xi sulla “popolazione di alta qualità” riconosce la necessità di un cambiamento, ma non include le riforme sistemiche per raggiungere l’obiettivo: “Allentare le redini del potere, dare più opportunità alle famiglie, ridistribuire le risorse per colmare i divari regionali”. “Promuovere le condizioni per l’innovazione richiederebbe una profonda revisione della filosofia del rapporto tra la dirigenza politica e la società”, che il leader cinese non sembra intenzionato a concedere, conclude l’analista.

Un ragazzo cinese a Dali (Yunnan)

 

Alle radici del problema

Allo stesso tempo, risulta semplicistico e fuorviante attribuire a Pechino tutte le colpe del calo demografico. Lo spiega bene Michele Bruni, che da anni studia la Cina: nei suoi primi anni di attuazione, la politica del figlio unico ha portato a numerosi casi di aborti e sterilizzazioni forzate che hanno scatenato forti reazioni, soprattutto nelle aree rurali, costringendo la dirigenza cinese già nel 1984 ad allentare leggermente le restrizioni. A partire da quell’anno è cresciuto il numero di coppie legittimate ad avere due figli. Allo stesso tempo è stata abbassata l’età minima per il matrimonio e gradualmente spostata l’attenzione dalla coercizione alla contraccezione volontaria. Tutto questo ha determinato un notevole incremento del numero di matrimoni e nascite che – come spiega Bruni – ha più che compensato la riduzione provocata dalla politica del figlio unico. Tanto che nei primi dieci anni di attuazione della norma, il tasso di fertilità totale è rimasto sostanzialmente stabile. E’ nei venti anni successivi che il numero medio di figli per donna in età feconda ha registrato un drastico calo, scendendo ben al di sotto del livello di sostituzione, nonostante la politica del figlio unico fosse stata allentata in favore di un approccio estremamente articolato e diversificato.

Bruni considera pertanto “molto probabile che la struttura della famiglia cinese si sarebbe evoluta nella stessa direzione, indipendentemente dalla politica del figlio unico”. Perdipiù, “i dati non supportano l’idea che la politica del figlio unico abbia esercitato un impatto negativo sulla mortalità infantile e dei neonati”, per quanto gli aborti selettivi abbiano provocato un “surplus” di bambini maschi. Piuttosto, cambiamenti socioeconomici, che comportano nuove scelte, possibilità, obblighi sociali, sono alla base della bassissima fertilità dei cinesi. Fattore che spinge il professore a dubitare in una possibile inversione del fenomeno attraverso semplici politiche famigliari. Ancora meno probabile è che le attuali misure di incentivo alle nascite possano riuscire a colmare il divario tra gli ingressi e le uscite generazionali nel mercato del lavoro. Secondo i calcoli di Bruni, servirebbe un aumento dei nuovi nati fino al 50%. Né basterà formare “una popolazione di alta qualità”, liberalizzare i flussi migratori interni (controllati rigidamente fin dall’epoca maoista), o aumentare l’età pensionabile, come recentemente disposto dal governo per la prima volta dal 1978.

Secondo Bruni, il primo passo da compiere consiste nello stimare i bisogni quantitativi e qualitativi per livello di istruzione, competenze professionali e provincia, prendendo in considerazione l’impatto di tutte le misure che potrebbero ridurre la carenza di manodopera sia nel breve che nel lungo periodo. Ma se la Cina vuole ottenere un ruolo politico ed economico di primo piano – conclude il professore – “l’immigrazione di massa è inevitabile”. Traguardo che ritiene raggiungibile – come recita il titolo del suo libro – sfruttando la posizione di magnete che la Repubblica popolare ricopre all’interno della Belt and Road Initiative, il progetto economico e strategico lanciato da Xi per colmare il deficit infrastrutturale globale e consolidare la posizione delle aziende cinesi sullo scacchiere internazionale. Soprattutto nel Sud del mondo. Bruni non è l’unico di questo avviso.

È giunto a conclusioni analoghe anche l’Economist, che in un articolo di due anni fa rimarcava come solo lo 0,1% della popolazione cinese è composto da stranieri, e perlopiù altamente qualificati. Ottenere permessi di soggiorno per mansioni umili resta difficilissimo.

Non che la questione non sia nota e dibattuta in Cina. Il Ministero dell’Istruzione prevede una carenza di quasi 30 milioni di lavoratori nel settore manifatturiero entro il 2025. Mentre un numero crescente di giovani cinesi è alla ricerca di lavori altamente qualificati, sono infatti sempre meno quelli disposti a indossare la tuta blu. Eppure di importare manodopera straniera, per ora, non se ne parla. Dopo decenni di controllo della popolazione, un’improvvisa apertura all’immigrazione dall’estero potrebbe avere un effetto imprevedibile sull’opinione pubblica, “gelosa” delle risorse del proprio Paese. Al contempo, l’aumento delle diversità culturali e valoriali potrebbe incrinare la stabilità sociale a lungo termine, cemento del consenso del Partito. Il tutto in una fase storica in cui Pechino cerca di contenere gli effetti collaterali del rallentamento economico rafforzando la sorveglianza sulla popolazione.

Il calo demografico è un problema globale. Ma, la natura ibrida di superpotenza e “Paese in via di sviluppo”, costringe la Cina a cercare percorsi inesplorati. Come in passato, i leader di Pechino sono chiamati a compiere scelte difficili e talvolta impopolari. Solo il tempo dirà se con successo.