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L’Europa sotto scacco, tra Cina e Stati Uniti: conversazione con Danilo Taino

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Il volume “Scacco all’Europa” ha un sottotitolo senza ambiguità: “La guerra fredda tra Cina e USA per il nuovo ordine mondiale”. Partiamo dai dati strutturali e dalle tendenze globali che la Cina in qualche modo sintetizza e l’amministrazione Trump accelera: siamo già in un contesto ineluttabile di guerra fredda se Pechino vuole guadagnare spazi di manovra a danno degli USA nel Pacifico occidentale, e se la Belt & Road Initiative (BRI) è un progetto sostanzialmente geopolitico? Non si possono trovare aggiustamenti e compromessi, basati su nuove sfere di influenza (regionali e settoriali)?

Danilo Taino: “Aggiustamenti e compromessi dovranno essere trovati. Quella tra Stati Uniti e Cina non è una guerra fredda come fu quella tra Washington e Mosca. Allora, le due economie e i due blocchi erano sostanzialmente separati, con scarsi scambi diretti. Oggi, Washington e Pechino sono parte di un’economia e di un sistema di relazioni integrato a scala globale. La questione, per l’Occidente, è dunque accomodare la Cina nel suo sistema di mercato e di valori democratici e di libertà.

Il problema è che la Cina non sembra intenzionata a fare questo passo: è vero che Xi Jinping riceve gli applausi di Davos quando si intesta il primato nel sistema multilaterale; la pratica cinese però lo contraddice, il rispetto delle regole di mercato è scarso in Cina e all’estero le aziende legate al Partito Comunista arrivano con il sostegno e i capitali del governo, il che non è concorrenza nel senso inteso in Europa e America. Poi c’è la sfida tecnologica che nelle indicazioni di Xi è palesemente una questione di Stato, non certo di mercato: questione di egemonia non solo economica ma anche politica. Infine, c’è la BRI, l’idea di collegare per via infrastrutturale l’Eurasia: una volta realizzata, via terra e via mare, stabilirebbe l’egemonia di Pechino sul supercontinente che va dall’Atlantico al Mar Cinese Orientale. Insieme al rafforzamento militare di Pechino, questi progetti dovrebbero consolidare quella che Xi non si stanca di chiamare “Nuova Era”, cioè un nuovo equilibrio globale egemonizzato dalla Cina.

Il senso stesso di questa nuova guerra fredda è dunque chiaro: l’Occidente riuscirà ad accomodare la potenza cinese – che ha diritto a un grande ruolo nel mondo – nel proprio sistema di valori, oppure dovrà accettare l’egemonia globale dei valori cinesi, non solo in economia ma anche in termini politici, sociali e culturali? Valori che non sono solo quelli marxisti ma anche quelli cosiddetti asiatici, di primato del collettivo sull’individuo, paternalistici quando va bene, repressivi altrettanto spesso?

Aspenia online: L’Europa fatica a guardare oltre il proprio ombelico ed evita di prendersi vere responsabilità internazionali. Questa osservazione fa tornare alla mente la massima latina per cui “si vis pacem, para bellum”: una massima che la UE sta certamente violando, visto il rifiuto quasi filosofico di politiche o misure che contemplino l’uso della forza. Intanto, la stragrande maggioranza dei cittadini chiede maggiore “protezione” ma certo non pensa principalmente alla Cina né vede il 5G (magari in mani cinesi) come una minaccia: pensa piuttosto alle tutele sociali e agli investimenti pubblici. Quale operazione politico-culturale andrebbe realizzata dalle leadership europee per avviare una fase di presa di coscienza dei cambiamenti globali, e poi una fase decisionale che avrebbe senza dubbio costi significativi?

DT: Non credo che l’Europa sia oggi in grado di prendere in mano immediatamente una politica estera e di difesa autonoma, indipendente. Le divisioni tra i Paesi della UE, in questi campi, sono notevoli e strutturali. E chi avrebbe la possibilità/dovere di prendere la leadership, la Germania, ha deciso di ridurre il suo impegno finanziario nella difesa all’1,25% per i prossimi anni. In più, Berlino rimane ambigua, storicamente ambigua, rispetto alla Russia: da una parte sostiene le sanzioni post-Crimea ma dall’altro persegue il Nord Stream 2 che mette in ansia Polonia e Paesi Baltici e irrita quasi tutti gli altri partner europei.

La Germania sarà la chiave della collocazione futura dell’Europa: quel che si vede ora non fa ben sperare. Solo ora gli europei hanno iniziato a porsi il problema Cina: Trump può non piacere e in Europa in genere non piace, ma senza la sua iniziativa, molto discutibile, sulle tariffe contro Pechino probabilmente la UE sarebbe ancora silente di fronte alla Cina. Credo che l’unica strada al momento aperta agli europei sia quella di difendere l’alleanza transatlantica, Trump o non Trump. Da sola la UE non ha la capacità di darsi un ruolo nel mondo: non soltanto per mancanza di forza ma soprattutto per approccio politico-culturale.

AO: Nel libro si sottolinea che l’Europa è ormai eccentrica rispetto ai grandi cambiamenti in corso nel mondo, ma forse è tuttora al centro di un paradosso: i flussi migratori ci ricordano che in fondo la percezione diffusa (non solo nel vecchio continente) vede nella UE un buon posto dove emigrare. Una forma di “soft power” comunque importante, per cui pochissimi seguono il nostro modello ma molti lo vengono a cercare qui. Come si conciliano queste tendenze apparentemente contraddittorie?

DT: Che in Europa si viva bene, probabilmente meglio che in qualsiasi altra parte del mondo, è un dato di fatto. Ma quanti di coloro che vengono in Europa lo fanno per il suo modello culturale o politico? Alcuni sì ma molti lo fanno per ragioni economiche, per le opportunità che il continente promette, o credono prometta: che non è poco ma non è immediatamente qualcosa che si può capitalizzare sul piano politico, come accettazione dei valori e delle esigenze strategiche europee. Da questo punto di vista, la domanda che ci dobbiamo sinceramente porre è se l’immigrazione sia solo un punto di forza per l’Europa oppure sia anche un problema che l’Europa stessa non è in grado di affrontare.

Il soft power europeo è notevole: il fatto è che oggi le idee di convivenza, democrazia, libertà personale e di mercato, di diritti politici e degli individui, l’idea di riduzione dei poteri e dei confini degli Stati nazionali – tutte caratteristiche del soft power europeo, appunto – sono circondate da Stati-Nazione sempre più aggressivi, antidemocratici, totalitari, spesso tra l’altro intenzionati a dividere la UE, come nel caso di Cina e Russia ma in qualche modo anche Turchia. E l’Europa non li ha visti arrivare: concentrata solo su se stessa, ha creduto che gli altri avrebbero seguito il suo soft power: un’illusione da “fine della Storia” e una presunzione eurocentrica. Il risultato è che oggi la UE e i Paesi che ne fanno parte sono in confusione. Politica e strategica.

AO: L’Europa che abbiamo conosciuto dalla fine della seconda guerra mondiale ha avuto un baricentro atlantico, e dunque una forte proiezione marittima (per l’indebolimento temporaneo della Germania, per la spaccatura del continente imposta dall’Unione Sovietica, e per la stretta alleanza dei Paesi occidentali con gli USA). Negli ultimi anni c’è stato uno spostamento verso Est, sia con l’allargamento della UE sia con gli accordi energetici che ci legano alla Russia e all’Asia centrale. Possiamo dire che l’idea di una massa eurasiatica interconnessa – un supercontinente sotto l’egida di una Pax Sinica – sia proprio al centro dei progetti cinesi? Sta qui forse la maggiore sfida per l’ordine che abbiamo ereditato dalla guerra fredda del XX secolo?

DT: Credo che sia così. La Cina è un Paese straordinario che negli scorsi decenni ha fatto passi straordinari. Vuole trovare una sua posizione importante nel mondo. Il problema è come. Un intellettuale che Aspen Italia apprezza e con il quale colloquia spesso, Walter Russell Mead, ha parlato di “trappola di Lenin”. Ha analizzato la strategia di espansione della Cina e ha semplicemente notato che la Belt & Road Initiative è spinta da un eccesso di capacità produttiva e di capitale in Cina, per la quale le aziende del Paese devono espandersi all’estero. Il che, di base, è la radice dell’imperialismo nella lettura leninista.

La questione è questa, dunque: è la Cina un paese imperialista in senso classico? Oltre alla base interna di sovrapproduzione, per esserlo deve anche avere una politica imperialista. Se si guarda alla Belt and Road e se si leggono gli interventi di Xi Jinping viene da sospettare che la abbia. Non è detto che il mondo di domani sia più bello di quello di ieri e di oggi. Il baricentro atlantico sarà difficile da difendere ma credo che agli Stati Uniti e all’Europa convenga cercare di mantenerlo: non è solo questione di economia, anzi è soprattutto questione di democrazia e di libertà. Il che non significa non rendersi conto che la Cina c’è, è una potenza, ha opinioni che vanno tenute in conto.

AO: Il dato più preoccupante sta forse in quella che nel libro viene descritta come “la fusione civile-militare” nei calcoli strategici sia a Washington che a Pechino. Eppure la Cina sembra porre una sfida di tipo davvero nuovo, qualitativamente diverso, vista la sua stretta interdipendenza con la catene globali del valore: è possibile immaginare una sorta di biforcazione nei rapporti globali, per cui si intrattengono stretti rapporti commerciali e finanziari (“win-win”, pur con alcune cautele nei settori ad alta tecnologia) ma si mantiene invece una certa distanza (“a somma zero”, con forme di contenimento strategico assieme a Paesi alleati) nel campo della geopolitica e della sicurezza? Oggi si confrontano attori di dimensioni continentali o quasi-continentali , e i mercati di riferimento sono praticamente globali; forse la nuova geopolitica è meno legata al ruolo dello Stato in senso tradizionale, ma piuttosto a flussi che in buona parte sfuggono al controllo di qualsiasi governo. E’ allora possibile che il panico per una nuova guerra fredda sia frutto di un errore di valutazione, di scarsa comprensione delle dinamiche asiatiche e interne alla Cina stessa? E ci sono lezioni per l’Europa in tal senso?

DT: In effetti, sia in Europa sia in America nei decenni scorsi la comprensione della Cina, e più in generale dell’Asia, è stata limitata. La politica si è mossa più per pregiudizi o per convinzioni strategiche in alcuni casi poco fondate quando ha dovuto confrontarsi con il continente asiatico, dalla Guerra di Corea al Vietnam fino all’emergere della Cina di Mao Zedong. E ancora prima con l’appoggio americano al solo Chiang Kai-shek. C’è ad esempio chi sostiene che il secolo in corso non sarà il secolo della Cina ma dell’Asia: e questo può essere vero. L’emergere del continente ha cambiato i termini anche dei conflitti geopolitici: le catene globali della produzione e del valore rendono gli scontri potenzialmente ancora più disastrosi ma allo stesso tempo, proprio per questo, suggeriscono prudenza.

E’ un grande pericolo e come tale è anche una nuova forma di deterrenza. Sarà interessante vedere come i protagonisti di queste catene della produzione – cioè le multinazionali, grandi o piccole – si porranno nei confronti degli scenari geopolitici in evoluzione, al disordine di oggi. Da un lato si rendono conto che la globalizzazione dei prossimi anni sarà diversa da quella degli scorsi decenni, che sarà in una certa misura balcanizzata. Elemento che peserà negativamente sui loro utili ma anche sulla crescita delle economie e del benessere. Per un altro verso, spingeranno i governi a non essere avventuristi. Va però detto che il potere dei governi sulle aziende è ancora molto forte: non solo, ovviamente, in Cina o in Russia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa, come si stanno rendendo conto le Big Tech Companies nel mirino delle autorità antitrust.

Non so se sarà possibile una biforcazione: rapporti commerciali aperti da un lato, blocchi politici e di sicurezza dall’altro. Questa è una delle grandi questioni del futuro: la fusione civile-militare, ovviamente più strutturale in Cina, non rende probabile uno scenario biforcato. Molto dipenderà dai vertici a Washington e a Pechino. Gli Stati Uniti si daranno finalmente una politica estera coerente, qualcosa che manca dai primi anni Novanta, per tutte le presidenze Clinton, Bush junior, Obama e Trump? E la svolta di Xi a Pechino, cioè l’abbandono del basso profilo suggerito da Deng Xiaoping, è realistica oppure è affrettata, cioè eseguita quando la Cina non è ancora pronta a sfidare gli Stati Uniti?

AO: Veniamo alla ovvia preoccupazione per il tentativo cinese di acquisire una superiorità tecnologica nei settori-chiave. Quanto è davvero decisivo il governo che possiede brevetti o controlla (direttamente o meno) le aziende con quelle tecnologie? E’ plausibile che gli USA e l’Europa stessa manterranno comunque un buon livello tecnologico, anche se fosse secondo a quello cinese in alcuni settori; dunque, siamo davvero di fronte a un disastro senza precedenti e a una Cina dominante senza freni? Di nuovo, molto sembra dipendere dal livello dello scontro geopolitico, più che dall’economia come tale.

DT: L’opinione corrente tra molti analisti strategici è che la guerra fredda tra Usa e Cina si giochi sulla tecnologia. Si dice che chi avrà l’egemonia in fatto di intelligenza artificiale, telecomunicazioni, microchip, chimica e farmaceutica, spazio, dominerà il mondo. Non so se sarà davvero così. In sé, la concorrenza fa bene. Ma proprio per questo la Cina ha un problema. Nel suo piano di egemonia tecnologica al 2050 – del quale il piano “Made in China 2025” era la prima fase – mette in campo denaro, competenze, università, ricerca su grandissima scala. E anche un po’ di spionaggio e di furto di brevetti – dicono gli americani. Il vantaggio nella scienza, nella tecnica e nell’economia, però, si raggiunge solo attraverso l’innovazione. Può un sistema top-down, dirigista, che decide a priori quali agenti economici vincono e quali perdono, che dalla Città Proibita stabilisce quali sono i settori del futuro, può questo sistema vincere la sfida dell’innovazione.

Non sono certo che la risposta sia un sì. Americani ed europei – in realtà soprattutto gli americani – mi sembrano ancora i probabili innovatori: in via generale, naturalmente ci saranno grandi invenzioni cinesi, visto lo sforzo in corso. Qui però corriamo un pericolo noi occidentali. Molti vorrebbero seguire le orme di Pechino, creare anche in Europa, e in qualche misura anche in America, campioni nazionali, o campioni continentali, per gareggiare con le grandi aziende cinesi sostenute dal governo. Un dirigismo che sarebbe la rinuncia ai nostri punti di forza, alla nostra capacità di innovare. Purtroppo Parigi e Berlino sembrano essersi fatte interpreti di questa nuova strategia di politica industriale: copiare la Cina per contrastare la Cina.

AO: Lanciamo uno sguardo alle elezioni parlamentari europee di maggio e al futuro prossimo dell’Unione. Nel libro si identificano tre crisi europee irrisolte: l’architettura dell’euro, la sicurezza, la gestione dell’immigrazione. Che tipo di dibattito pubblico si aspetta su questi tre temi quando saranno insediati il nuovo Parlamento e poi la nuova Commissione?

DT: La probabilità mi pare che sia quella di un certo stallo. I partiti nazionalisti probabilmente non avranno la maggioranza nel Parlamento europeo, la quale si immagina andrà a un’alleanza tra Popolari, Socialisti e Liberali. Ciò nonostante avranno influenza sia a livello comunitario sia nei singoli Paesi: quindi saranno importanti per il funzionamento della UE, o meglio per il non-funzionamento. L’attività potrebbe finire nella sabbia. Ma sotto traccia c’è altro, oltre ai cosiddetti sovranisti. Le divisioni sono forti qualunque sia l’esito delle elezioni di maggio. Da un lato c’è l’asse Parigi-Berlino, necessario ma non più sufficiente per fare muovere la UE. Poi ci sono i quattro di Visegrad, oggi forse tre, che non vogliono maggiore integrazione. Inoltre c’è la Nuova Lega Anseatica dei Paesi del Nord, la quale è rigidissima, a mio avviso comprensibilmente, sul rispetto delle regole di finanza pubblica nell’eurozona e fuori da essa. Infine c’è l’Italia, difficile da collocare. Su tutto, l’incerto futuro della Gran Bretagna, la quale ha sempre giocato un ruolo, spesso decisivo, di equilibrio tra statalisti e liberali nella UE: ora, questo equilibrio si è perso e a molti Paesi ciò fa paura.

Questo per dire che l’Italia è un problema serio per l’Europa, soprattutto se dovesse andare in crisi, ma non è certo l’unico e forse nemmeno il maggiore. Chi paragonava l’Europa a una bicicletta che per stare su deve muoversi, potrebbe trovarsi di fronte alla prova della similitudine: una UE bloccata, in stallo, potrà sopravvivere?

 

 

 

 

Danilo Taino è inviato e columnist del Corriere della Sera. A marzo 2019 ha pubblicato, per le edizioni Solferino, il libro “Scacco all’Europa: La guerra fredda tra Cina e Usa per il nuovo ordine mondiale”.