L’enigma saudita e le opzioni occidentali che cambiano
Il cosiddetto “OPEC+” ha annunciato il 5 ottobre ulteriori tagli alla produzione di greggio, nonostante la fortissima pressione americana sull’Arabia Saudita per una decisione di segno opposto, esercitata in modo anche esplicito nelle settimane precedenti. Lo sforzo da parte di Washington di coltivare il rapporto bilaterale nel quadro delle tensioni energetiche di questi mesi era risultato evidente già con la visita ufficiale di Joe Biden a Riad lo scorso luglio.
Va ricordato che i due Paesi-chiave di OPEC+ sono Arabia Saudita e Federazione Russa. Il passaggio del 5 ottobre evidenzia allora due fattori importanti.
Il primo dato è strutturale: l’Arabia Saudita, come tutti i maggiori produttori la cui economia dipende quasi esclusivamente dall’export energetico, combatterà fino all’ultimo la sua battaglia per sostenere i prezzi, ma lo farà senza favorire la parallela “transizione verde” che l’Unione Europea e in parte gli USA (in modalità diverse) stanno perseguendo. In sostanza, sarà quasi impossibile gestire questo passaggio estremamente complesso e delicato in modo realmente concordato, a dispetto delle molte dichiarazioni d’intenti sulla diversificazione e una trasformazione sostenibile da parte delle economie del Golfo (a cominciare dal tanto decantato “Vision 2030” proprio di marca saudita). Se perfino in un momento di crisi acuta, a fronte di richieste precise di Washington, Riad ha deciso di andare per la sua strada senza troppo curarsi delle priorità occidentali, non si può essere ottimisti.
Si profila a questo punto uno “scenario peggiore” che potrebbe emergere nei prossimi anni, se non mesi: dopo che la Russia di Putin ha abbandonato del tutto ogni pretesa di comportarsi come un partner energetico affidabile (cioè integrato nell’economia internazionale, prevedibile, non ricattatorio), l’Arabia Saudita (e forse altre monarchie del Golfo) potrebbe perfino seguire la medesima strada. Non è al momento l’esito più probabile, ma purtroppo i segnali non sono neppure incoraggianti.
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Il secondo dato evidenziato dall’episodio del 5 ottobre è più contingente, ma ugualmente importante: i famosi “Accordi di Abramo” (unico lascito dell’amministrazione Trump ad essere stato apparentemente apprezzato dal team Biden) stanno mostrando le loro molte falle. L’intera operazione, avviata nell’estate 2020 non ha finora coinvolto ufficialmente il governo saudita, ma puntava a tenere assieme due obiettivi: un rapprochement anzitutto economico tra Israele e Arabia Saudita (con il corollario di altri Paesi arabi, secondari ma usati in effetti come apripista) e una cooperazione sul piano della sicurezza in funzione anti-iraniana. Su entrambi i piani, i risultati sono inferiori alle speranze: da una parte, Riad si comporta come una specie di Paese-corsaro (non ancora un rogue state, ma chissà in futuro) sui vitali mercati energetici, di fatto fornendo una stampella alla Russia forse più utile di quella che Pechino è disposta per ora ad offrire; dall’altra, le vicende interne in corso in Iran ci ricordano (se ce ne fosse stato bisogno) che anche i regimi autoritari apparentemente più inossidabili hanno un enorme problema di legittimità.
Se queste due tendenze si confermeranno, allora lo stesso impianto degli Accordi di Abramo ha poco senso, visto che presuppone una salda cooperazione saudita e al contempo il totale isolamento di Teheran: il primo presupposto non regge, e il secondo a questo punto non è forse una priorità (nel senso che semmai va fatto ogni sforzo indiretto per offrire aperture almeno alla società civile iraniana). Certo, la leadership della Repubblica Islamica potrebbe scaricare proprio all’esterno le grandi tensioni interne, ma intanto il contesto energetico globale offre teoricamente notevoli opportunità a un grande produttore come l’Iran, se il suo governo riuscisse per una volta a far prevalere un atteggiamento pragmatico. A complicare ulteriormente il quadro, lo stesso fronte arabo si è frammentato negli ultimi anni, con una sorta di “deriva” degli Emirati Arabi Uniti che ha di fatto svuotato politicamente il Gulf Cooperation Council (GCC) e ridotto in certa misura il peso saudita.
In sostanza, è arrivato il momento di porsi nuovamente una domanda che probabilmente aveva già ispirato alcune scelte dell’Amministrazione Obama, portando tra l’altro a siglare l’accordo sul nucleare (JCPOA) nel 2015: non si potrebbe ripensare piuttosto radicalmente l’approccio americano alla regione del Golfo, rovesciando l’equazione strategica tradizionale rispetto a Iran e Arabia Saudita? In altre parole, non sarebbe il caso di allentare la pressione su Teheran (almeno su questioni settoriali, in modo graduale e reversibile) e assumere un atteggiamento meno “permissivo” nei confronti di Riad? Non va peraltro dimenticato che vari governi del Golfo hanno attivato alcuni canali di dialogo bilaterale con l’Iran, e dunque cade anche la possibile obiezione di una rottura del presunto isolamento della Repubblica Islamica – visto che ormai non esiste neppure rispetto ai Paesi arabi.
E’ chiaramente arduo immaginare aperture verso Teheran proprio mentre la società persiana è scossa da estese proteste contro il regime clericale, che le sta a sua volta reprimendo con la solita durezza. E potrebbe essere troppo tardi, vista appunto l’involuzione autoritaria all’interno e l’apparente scelta filo-russa all’esterno. Eppure, ragionare a medio termine significa anche ricordare quante volte USA ed Europa hanno tollerato e tollerano stretti rapporti di cooperazione selettiva con regimi tutt’altro che democratici o a noi graditi. Una qualche flessibilità diplomatica non guasterebbe, perfino rispetto a una controparte difficilissima come l’Iran attuale.
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In questo quadro complicato e ricco di incognite, non sembra comunque logico, per USA ed Europa, farsi dettare l’agenda dai desiderata di Riad, che ormai vanno visti per quel che sono: una sfida contro importanti interessi occidentali e perfino della crescita economica globale – una sfida che speriamo resti entro limiti negoziali accettabili.
Al momento, l’evoluzione dell’Arabia Saudita come attore regionale rimane un vero enigma. Le grandi ambizioni espresse da Vision 2030 sembrano solo in parte realizzabili, e comunque eludono deliberatamente quesiti cruciali sulla compatibilità tra il sistema politico-sociale e la creatività necessaria per affrontare le sfide della transizione sostenibile. Se poi tra oggi e quella data fatidica – simbolica, ma comunque non troppo distante – il Paese si comporterà sempre più come uno “spoiler” che approfitta di ogni opportunità per aumentare la propria rendita nel breve termine, avremo allora un problema ancora più grave da gestire sia in Europa che negli Stati Uniti.