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Le tre scommesse perse da Theresa May

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Anche il Regno Unito, nonostante il suo sistema maggioritario, dovrà fare affidamento su un parlamento senza maggioranze assolute. Ciononostante, l’arena politica britannica si ritrova come un tempo spaccata in due blocchi – a differenza di quanto accade sul resto del continente europeo, dove i “vecchi” sistemi politici evolvono in tante forme e articolazioni diverse. Sono queste alcune delle considerazioni che è possibile fare dopo le elezioni anticipate in Gran Bretagna: il risultato, infatti, si presta a interpretazioni differenti, anche per le caratteristiche del sistema inglese.

Theresa May, la premier uscente che due mesi fa aveva convocato le elezioni anticipate per assicurarsi una scadenza di legislatura più lontana possibile dai “dolori” dei negoziati sulla Brexit, non accetta l’etichetta di sconfitta del voto che molti le attribuiscono. Giocherà fino in fondo le sue carte per restare primo ministro.

La premier britannica Theresa May

Chi la vuole allontanare da Downing Street sottolinea un dato fondamentale dell’elezione: Theresa May si era appellata ai britannici perché le dessero una maggioranza più larga (i Conservatori potevano contare su 330 seggi su 650) così da annichilire l’opposizione in parlamento e avere le mani libere durante la trattativa con l’Unione Europea. Dopo il voto, i Conservatori si ritrovano con 318 seggi: meno di prima, e soprattutto meno della maggioranza assoluta, che è 326. Obbiettivo fallito in pieno, dunque. I sorrisi malcelati degli avversari interni, come George Osborne e Boris Johnson, ansiosi di disfarsi della May, reggente di compromesso dopo le dimissioni di David Cameron, lo hanno già certificato durante lo spoglio delle schede. I giornali conservatori e i tabloid hanno trasformato le lodi della vigilia, all’indomani del voto, in una condanna senza appello.

Theresa May, però, è aiutata dai numeri: i Conservatori hanno sì perso seggi, ma hanno aumentato i voti, passando dal 36,9% del 2015 all’attuale 42,4, e restano il primo partito pur di fronte a una grande crescita del Labour. Era dai tempi di Margaret Thathcher che i Tories non avevano tanti suffragi. Il crollo dell’UKIP – quasi scompare il partito della Brexit, dal 13 al 2%, e il suo leader Paul Nuttall non viene eletto nemmeno nel suo stesso collegio – e il calo dei Verdi e dei LibDem hanno beneficiato i Laburisti, ma non hanno per nulla danneggiato i Conservatori. Il partito di Theresa May è andato bene in Scozia, dove i nazionalisti hanno pagato la loro idea di un nuovo referendum sull’indipendenza, considerata dall’elettorato troppo affrettata, dato che si è già votato tre anni fa.

Perché però all’aumento dei voti per i Conservatori non è corrisposto un aumento dei seggi? La causa è una sottovalutazione strategica che è stata decisiva. 1) molti elettori hanno votato tatticamente nei collegi, sostenendo chiunque avesse più probabilità di battere il candidato Conservatore. 2) il Labour è cresciuto anche in zone tradizionalmente Tory grazie all’alta affluenza di studenti universitari, ad esempio a Warwick e a Canterbury. 3) l’aumento dell’affluenza (68,7%, massimo ventennale), imprevisto, è stato più forte negli antichi feudi della sinistra – il Nord Est inglese, East London – con alcuni collegi che sono tornati per questo motivo ai Laburisti.

Tuttavia, la maggioranza assoluta resta alla portata di Theresa May: la soglia dei 326 può essere raggiunta grazie ai 10 eletti del Democratic Unionist Party (DUP), ossia il partito protestante (dunque filo-inglese) dell’Irlanda del Nord. Il DUP si è detto subito disponibile a trattare, presentando già una lista di conditiones sine qua non per l’appoggio a un nuovo governo May.

Ma la strada della premier uscente non è in discesa. Primo, perché tra martedì 13 giugno, alla riapertura del parlamento, e lunedì 19, data del discorso ufficiale della Regina, il progetto di alleanza potrebbe essere affossato dai franchi tiratori interni (ne basterebbero solo tre). Secondo, perché il DUP fa parte della truppa degli hard Brexiters, e si trova in una posizione delicata che è deciso a sfruttare: ad esempio, tra le condizioni poste a Theresa May c’è quella di non dare all’Ulster uno statuto speciale quando il Regno Unito sarà fuori dalla UE. Uno statuto speciale consentirebbe ai tanti che vivono a cavallo della frontiera con l’Irlanda di poter continuare ad attraversarla senza problemi per le loro questioni personali o d’affari. E ai tanti irlandesi dell’Ulster di non allontanarsi troppo dall’Eire. No: il DUP vuole cogliere l’insperata occasione di un divorzio definitivo tra le due Irlande, benché l’Ulster abbia votato al 56% contro la Brexit.

Come è facile immaginare, questo complica la posizione negoziale britannica con la UE (come reagirà l’Irlanda a Bruxelles?), mentre si era andati al voto per semplificarla, e riapre conflitti gravi e scontri interni al Regno Unito, sopiti solo da poco tempo. La hard Brexit, alla fine, potrebbe diventare even harder.

Sull’altro fronte, i Laburisti sono sconfitti: con 262 seggi non possono aspirare a governare nemmeno in coalizione con i Nazionalisti scozzesi e i Liberal-Democratici, perché il totale dei seggi di questa eventuale “alleanza progressista” si fermerebbe a 310.

Ma è una sconfitta dolcissima per Jeremy Corbyn: il quasi settantenne, a capo del partito dalle primarie dello scorso anno, era dato per spacciato all’inizio della campagna elettorale, sotto il fuoco impietoso dei media avversari impegnati a dipingerlo come un vecchio arnese di un’altra epoca, e circondato dallo scetticismo del suo stesso campo. Invece, sebbene in termini di seggi la crescita del Labour sia stata contenuta (31 in più del deludente 2015), in termini percentuali Corbyn ha riportato il partito ai fasti dell’epoca di Tony Blair.

Il 40% di Corbyn (9,5% e tre milioni e mezzo di voti in più di due anni fa), ottenuto presentando un programma socialdemocratico ostico ai laburisti più liberal, e utilizzando meglio gli strumenti della comunicazione politica, è fatto di un recupero nelle aree industriali, un primato netto tra i giovani e uno sfondamento più deciso che in passato nelle aree urbane – che politicamente, anche nel Regno Unito, si allontanano da quelle extraurbane. Il seggio di Kensington a Londra, ad esempio, uno dei più ricchi del Paese, è caduto per la prima volta in mano al Labour.

Insomma, l’opposizione è tutt’altro che annichilita, il parlamento è tutt’altro che sotto controllo, e il campo conservatore (diviso tra hard e soft Brexiters) è tutt’altro che pacificato: Theresa May ha perso le sue tre scommesse.

Non è un caso che la sterlina sia caduta, nelle ore dopo il voto, sia nei confronti dell’euro che soprattutto nei confronti del dollaro, in maniera significativa. L’economia del Regno Unito nominalmente ha retto quest’anno, nonostante le previsioni negative, grazie al peso della finanza e del credito al consumo che il sistema della City pompa nelle tasche dei cittadini britannici. Ma l’indebitamento privato non è sostenibile all’infinito, anche perché la sterlina debole porta un aumento dell’inflazione che blocca gli acquisti, gli immigrati dall’Unione Europea (fonte di competenze tecnico-scientifiche e crescita economica) continuano a diminuire, mentre gradualmente cresce il numero di imprese che si trasferisce dal Regno Unito ad altre aree del continente.

Londra, che si era illusa per un certo tempo di vedersela con una Unione più divisa e incerta che mai, e di trarne come sempre vantaggio, si siede ai negoziati con i 27 (inizieranno nel giro di pochi giorni) da una posizione di debolezza che pochi avrebbero immaginato in passato. Dall’altra parte dell’Atlantico, il suo più grande alleato, Donald Trump, non si trova in una posizione migliore.