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Le Olimpiadi, specchio del mondo in cui viviamo

Questo articolo è l'Editoriale del numero 2-2024 di Aspenia

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Ci sono due modi per Aspenia di guardare alle Olimpiadi, entrambi trattati in questo numero. Il primo è il rapporto con il sistema internazionale, sotto stress per una transizione quanto mai conflittuale. Le Olimpiadi, insomma, come specchio del mondo in cui viviamo. La contraddizione fra il preteso universalismo degli ideali olimpici e la durezza di una competizione diretta fra nazioni ne è un chiaro esempio. I Giochi di Parigi 2024 sono un’occasione per riflettere su questa interazione tra sport e politica internazionale, concentrandoci sul presente ma ricordando anche che grandi temi – la tregua olimpica, le sanzioni, i boicottaggi, le esclusioni, la governance dell’olimpismo, perfino il primato nel medagliere – sono sempre stati presenti. Ne scrivono Andrea Goldstein e Antonio Missiroli.

Un manifesto olimpico a Parigi

 

Il secondo è l’economia di un grande evento organizzativo, di straordinario impatto mediatico (a cominciare dalla cerimonia di apertura) e con forti implicazioni di business: conviene ancora organizzare un’Olimpiade? Sì e no, rispondono i nostri autori, dopo che una serie di città hanno in tempi recenti rinunciato alle loro candidature. Riconoscendo il rischio non indifferente che il tradizionale modello organizzativo dei Giochi non sia più sostenibile, il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha intrapreso una serie di riforme. Parigi e Milano-Cortina, da questo secondo punto di vista, potranno (o meno) segnare una svolta verso una formula più efficace.

Cominciamo dai Giochi olimpici come metafora di una sorta di geopolitica sportiva. La loro origine, descritta bene nel saggio storico di Eva Cantarella ed Ettore Miraglia, riflette il connubio tra religione, mitologia e culto del corpo che è fondamenta del mondo ellenico e che è invece osteggiato da quello romano, fino alla soppressione dei Giochi da parte di Teodosio nel 393. Ci vorranno quasi 1500 anni prima che il barone Pierre de Coubertin ne proponga la ripresa, in una congiunzione tra vocazione pacifista e universalista (almeno in teoria) dello sport e centralità dello Stato-nazione. Dal 1896 a oggi, le Olimpiadi moderne hanno accompagnato l’evoluzione del sistema internazionale. E se l’idea iniziale era di tenere i conflitti fuori dai Giochi, le Olimpiadi ne sono state invece direttamente contagiate.

In modo embrionale, già nella Grecia antica la concezione dei giochi come “parentesi” nella quale venivano sospese (o quantomeno limitate) le attività belliche presentava alcuni caratteri di una norma legale – quasi un’anticipazione dello ius in bello. Nello stesso solco, si è consolidata negli ultimi decenni la prassi di votare all’Assemblea generale dell’ONU una specifica Risoluzione con la richiesta (regolarmente disattesa) di una “tregua olimpica” per i conflitti violenti in corso. È accaduto lo stesso per l’appuntamento di Parigi, senza nessuna implicazione operativa per la politica internazionale: le guerre scatenate dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’attacco di Hamas a Israele continuano sotto i riflettori, quelle che insanguinano altre regioni del mondo (Sudan, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Siria, Myanmar, ecc.) lo fanno nell’oblio generale. Cosa che non sorprende affatto: per quanto si possano amare le Olimpiadi, è chiaro che lo sport non può avere un potere salvifico, né è ragionevole (e forse nemmeno lecito) chiedere allo sport di realizzare ciò che la politica non riesce a ottenere. I giochi di pace avvengono oggi in tempi di guerra, con le loro conseguenze anche per le Olimpiadi: si pensi solo alla difficoltà di trattare la partecipazione degli atleti russi (senza bandiera nazionale).

Che lo sport rifletta da sempre l’ambiente internazionale in cui si svolgono le competizioni, risulta chiaro dall’evoluzione della partecipazione dei diversi paesi. Si può partire dal 424 a.C. e dall’esclusione di Sparta decretata da Atene a causa della guerra del Peloponneso. Più di recente, non erano pochi i francesi che pensavano di vendicare Verdun con l’esclusione dei tedeschi dai Giochi, cosa che avvenne poi nel 1920 e nel 1924 anche per gli altri sconfitti della Grande Guerra. L’Unione Sovietica fece la sua apparizione solo nel 1952. Quattro anni dopo, la sua presenza all’indomani dell’invasione dell’Ungheria spinse Olanda, Spagna e Svizzera a boicottare i Giochi di Melbourne. Scelta che fecero anche Egitto, Iraq e Libano per protestare invece contro l’intervento franco-britannico a Suez. Nel 1972, la minaccia dei paesi africani di non partecipare in caso di presenza della Rhodesia spinse gli organizzatori a cancellare l’invito a quest’ultima, mentre nel 1976 il rifiuto di fare altrettanto con la Nuova Zelanda, che intratteneva rapporti sportivi con il Sudafrica dell’apartheid, portò al ritiro di 29 paesi africani. Le tensioni più acute si registrarono a Mosca 1980 (57 paesi condivisero la decisione del presidente americano Jimmy Carter di non partecipare in segno di protesta per l’invasione sovietica dell’Afghanistan) e a Los Angeles 1984 (contro-boicottaggio, con 18 adesioni). Nelle ultime edizioni è stata la Russia a essere in parte esclusa (nei modi in cui si è detto) a seguito degli scandali sul doping di Stato prima e della guerra in Ucraina poi. Vanno anche ricordate le discussioni su Taiwan – raramente presente con quel nome, più spesso come Repubblica di Cina, Formosa o Chinese Taipei (dal 1984), senza però la bandiera o l’inno nazionale – sul Kosovo (membro del CIO senza esserlo delle Nazioni Unite) e infine la Palestina (che partecipa dal 1996).

Al tempo stesso, l’idea(le) dei valori universali dello sport – coltivata in Europa ma presto contestata nello scontro fra l’Occidente e i suoi rivali – ha trovato limiti intrinseci nella realtà agonistica. Si può anche dire più in generale che lo sport e le competizioni olimpiche siano una metafora dello scontro tra individui e gruppi, ossia dei rapporti di potere. Certo, partecipare può essere gratificante e lo è; ma di fronte ai sacrifici che impone la pratica sportiva ad altissimo livello, vincere è inevitabilmente l’obiettivo ultimo. Si tratta di uno scontro regolato in modo preciso e rigoroso, con una dinamica che in molti sensi mima la selezione darwiniana e premia soltanto i migliori. Qui il merito conta davvero. Per questo è fondamentale che siano riunite le condizioni perché il “playing field” non risulti inclinato. La pratica del doping, nelle sue varie articolazioni, è uno sviluppo ormai collegato a tecnologie sofisticate: le autorità sportive sono impegnate in una sorta di gara a inseguimento per stare al passo con le innovazioni. Il saggio contenuto in questo numero di Aspenia, di Silvia Camporesi, è illuminante.

Un atleta ucraino viene premiato alle Olimpiadi di Tokio 2020, seguendo i protocolli del contrasto al coronavirus

 

Se a tutti questi elementi si aggiungono le controversie sul professionismo a quelle sul metodo corretto di presentare il medagliere e pertanto la gerarchia delle nazioni, c’è abbondante materia per comprovare la tesi di George Orwell sullo sport come simulazione della guerra.

Un altro parallelismo tra le Olimpiadi e le relazioni internazionali sta nelle ragioni, complesse e molteplici, del successo e dell’insuccesso di una nazione: si torna infatti all’eterno quesito di come si diventi una grande potenza. Si tratta di fattori difficili da sommare in modo meccanico, e la formula della vittoria non è del tutto predefinita. Proprio come nei rapporti geopolitici, la forza economica e la dimensione demografica di un singolo paese sono decisive, eppure non si tratta di condizioni sufficienti. Emerge sempre la commistione di ingredienti strutturali – un ecosistema organizzativo adeguato – e individuali o locali: il sostegno della famiglia o un esempio positivo di atleta a cui ispirarsi. Lo confermano le interviste esclusive che pubblichiamo con due atleti olimpici: il nuotatore Domenico Fioravanti e la canottiera Emily Craig. Senza dimenticare l’elemento idiosincratico per definizione, il talento.

Esistono poi aspetti socioculturali spesso intangibili che fanno la differenza, soprattutto quando una lunga tradizione spinge i giovani a scegliere in cosa cimentarsi. Macroscopico in tal senso il caso dell’India, di cui parla il saggio di Sushmita Pathak: un gigante economico e demografico, un nano olimpico.

 

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Come in tutti i settori, infine, la globalizzazione ha investito in pieno anche lo sport, e con esso le Olimpiadi. Le declinazioni sono molteplici: ad esempio la nazionalità degli sponsor, la moltiplicazione degli atleti (ma anche dei tecnici) che migrano per valorizzare i propri skill oppure sono figli di migranti, e soprattutto la scelta delle sedi olimpiche. Dal 1968, quando Città del Messico fu la prima sede olimpica di ciò che oggi definiamo “Global South”, si sono avute quattro edizioni nel mondo non euro-atlantico a fronte di dieci in Occidente (compresa quella di Tokio 2020).

Guardiamo adesso alle Olimpiadi dal punto di vista economico: come per ogni mega evento, i Giochi pongono ovviamente il quesito ineludibile del rapporto costi/benefici. Qui il quadro è apparentemente deludente, perché i costi sono lievitati, finendo per diventare un fardello per il paese ospitante, e perché in molti casi gli investimenti nelle infrastrutture sportive hanno lasciato in eredità elefanti bianchi. Vale ancora una volta, tuttavia, l’analogia con la politica internazionale: le ragioni del prestigio e del soft power sovrastano spesso le considerazioni strettamente economico-contabili. Gli interessi nazionali e i benefici intangibili prodotti dalle Olimpiadi non sono misure oggettive e non hanno una natura pienamente quantificabile.

Vista l’entità delle risorse necessarie, il finanziamento dello sport internazionale ricalca, in larga misura, lo spostamento del potere economico globale. Ecco che vengono alla ribalta paesi come la Cina (Pechino nello spazio di 14 anni ha ospitato entrambe le Olimpiadi, estive e invernali) mentre si preparano le candidature saudita e indiana. Il fenomeno è evidente da anni in settori non olimpici, come motonautica, ippica e Formula 1, per allargarsi più recentemente in forme differenti a vela e calcio, con protagonista assoluta l’Arabia Saudita. Nell’articolo che pubblichiamo sul tema, di Nathalie Koch, si sostiene la tesi che il fenomeno vada letto anche alla luce del conflitto potenziale tra Occidente e Sud globale, con residui sentimenti anticoloniali. In effetti, è un’interpretazione parziale per quanto interessante, visto che l’Arabia Saudita, in particolare, è un attore integrato nel sistema internazionale da decenni e non sembra aver bisogno di ospitare eventi sportivi per rivendicare un ruolo di primo piano. Semmai, la leadership saudita segue una logica di investimento e di penetrazione ulteriore nella diffusione di un prodotto globale – in questo caso, l’intrattenimento sportivo. E lo fa anche nel golf, con la creazione di un circuito “parallelo” di tornei che punta direttamente sulla natura individuale e professionistica di questo sport, per cui a decidere sono i giocatori e non le federazioni (cioè i governi), e quindi i finanziatori hanno – letteralmente – gioco facile nell’attirare gli atleti migliori grazie ai compensi sul mercato. In questi casi, la provenienza del denaro non conta, il che, se vogliamo, è un peccato d’origine del capitalismo e non dello sport: come insegnano i corsi di economia, il denaro è “fungibile”, cioè può essere scambiato con qualunque bene o servizio, e dunque non ha status sociale, lingua, razza, religione, ideologia.

 

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C’è poi un’obiezione più specifica che si può muovere alla tesi “rivendicativa” degli eventi sportivi come specchio della competizione Nord-Sud: lo sport professionistico e la sua monetizzazione attraverso gli sponsor e i mezzi di comunicazione sono una forma di globalizzazione; ma la globalizzazione non ha mai “deciso” se essere un processo di espansione dei valori occidentali o diventare un suo superamento. È quindi rimasta in mezzo al guado e vive oggi una sua frammentazione, che potrebbe riflettersi sulle Olimpiadi del futuro. Lo sport professionistico finanziato dalle grandi aziende e dai governi era originariamente di marca occidentale, ma è ormai un grande ibrido (proprio come il capitalismo, il cibo, la moda, la letteratura, internet, ecc.), piuttosto che una manifestazione dell’“egemonia occidentale”. Ha ormai, da molti anni, caratteri che possiamo definire meticci (basti pensare al Brasile nel calcio) e quindi molto diversi dal contesto culturale che inventò e praticò il colonialismo. I paesi che teoricamente fanno parte del Sud globale lo sanno perfettamente, ma possono fare leva sui sensi di colpa dell’Occidente e sulle sue stesse idiosincrasie (fino agli estremi della “cancel culture”) per guadagnare punti in chiave di soft power. Potremmo perfino dire che il Global South esiste soltanto come alter ego di un mitico Global North (l’Occidente) egemonico che non si considera più tale e non ha più fiducia nel suo stesso modello. In certa misura perfino nello sport.

In questo quadro si inserisce anche il nesso tra Olimpiadi e diritti umani. Pubblichiamo in questo numero un articolo – di Maria Rita Pierleoni – che analizza i benefici immateriali, diretti e indiretti, anche a medio termine, di organizzare i Giochi. Tra questi, l’articolo annovera l’attenzione sui diritti civili, la condizione delle minoranze e la libertà di espressione, anche quando il governo ospite ha grossi problemi interni proprio in questi settori. È chiaro dunque che siamo di fronte a una strada in salita e che serve molto realismo. La Coppa del Mondo di calcio 2022 in Qatar è il classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda del punto di vista: ci sono state forti violazioni dei diritti dei lavoratori e dei migranti, e un numero spaventoso di incidenti mortali; ma si sono anche avuti progressi legislativi (in particolare lo smantellamento del controverso sistema di sponsorizzazione della kafala) che altrimenti sarebbero forse stati impossibili.

 

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Non si può infine parlare di Olimpiadi e sistema globale senza menzionare le istituzioni che governano gli eventi sportivi, a partire dal CIO. Come ricorda
Patrick Clastres, il Comitato ha a lungo cercato di accreditarsi come organizzazione internazionale, con parziale successo, ed è stato capace di resistere ai tentativi di trasferire altrove (l’UNESCO) la leadership del Movimento olimpico. All’interno del quale le varie federazioni sono teatro di guerre di potere e d’influenza: un paese come la Russia, ad esempio, era riuscita nel tempo a conquistare parecchie posizioni, poi sospese a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Una dinamica che non si discosta molto dalla strategia di penetrazione cinese nelle agenzie specializzate del sistema ONU e che ha gli stessi obiettivi.

In estrema sintesi: lo sport riflette inevitabilmente, insieme agli equilibri e squilibri internazionali, le differenze di approccio che esistono alla questione del dissenso politico e dei diritti civili.

Le Olimpiadi francesi si tengono in un momento politicamente importante e rischioso per il vecchio continente, subito dopo il voto per il Parlamento europeo e prima dell’insediamento della nuova Commissione, ma anche in un contesto internazionale che vive crisi acute e che verrà fortemente condizionato dall’esito delle elezioni americane.

 

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Dato il livello di ambizione diplomatica che la Francia ha sempre avuto, e le specifiche propensioni (anche mediatiche) di Emmanuel Macron, è chiaro che i Giochi sono visti da Parigi come la manifestazione di un modello organizzativo e di un “modo di vita” (way of life) franco-europeo: l’Europa, per Parigi, è sempre stata una proiezione della Francia. Al di là della forte simbologia delle Olimpiadi, il fatto è che alcuni ingredienti essenziali del “modello europeo” vanno oggi profondamente ripensati, come sostiene del resto il presidente francese stesso parlando di “rischio mortale” per l’UE in assenza di scelte politiche e riforme sostanziali. Cosa di cui ci occupiamo nella sezione Scenario di questo numero, dedicata in modo specifico alla difesa europea.

L’imperativo della difesa comune dovrebbe logicamente produrre una forte spinta alla condivisione e aggregazione delle risorse per la sicurezza, ma questo – come ben sappiamo – cozza contro una politica di corto termine e potremmo dire di corta visione. Mentre potenze esterne (Cina e Russia) tentano sistematicamente di dividere l’Europa, l’UE resta bloccata da veti (per esempio su un nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia), è in crisi di competitività e non riesce a trovare un accordo reale su come finanziare la difesa. In altri termini: dall’esterno e dall’interno, la coesione europea è messa costantemente alla prova, tema decisivo che la nuova UE dovrà affrontare se vorrà essere all’altezza di tempi come questi.

Prima ancora di disegnare una vera “difesa comune”, si dovrà necessariamente concepire e attuare una vera e propria politica estera comune, che sia strettamente coordinata e coerente. Non esistono scorciatoie da questo punto di vista. E infatti, dopo decenni di sforzi (retorici e burocratici) per costruire i meccanismi di una difesa comune, non si riesce ancora a sfatare il tabù dell’intera filiera della proiezione internazionale: valutazione congiunta del rischio (e delle opportunità); capacità necessarie a gestirlo o mitigarlo (inclusa la deterrenza a tutti i livelli); acquisizioni comuni (con la conseguente razionalizzazione delle commesse per la difesa); integrazione degli strumenti militari; loro eventuale dispiegamento con comando unico. Tutto questo in complementarità con la NATO, che avrà bisogno, per restare efficace anche in caso di un parziale spostamento americano verso il teatro indo-pacifico, di un vero e proprio pilastro europeo.

Si tratta appunto di passaggi obbligati, ma che diventano un muro invalicabile fintanto che le leadership europee non saranno disposte ad accettarli come tali e spiegarli alle rispettive opinioni pubbliche. La difesa europea andrebbe articolata come “difesa dell’Europa”, cioè dei suoi valori e dei suoi interessi congiunti (mediati dalle istituzioni comuni, per quanto imperfette). È una questione organizzativa e finanziaria, che passa però da una scelta di fondo: culturale, politica e psicologica.

Le sfide economiche si intrecciano in modo diretto con quelle di sicurezza, soprattutto mediante il controllo delle tecnologie ma anche il commercio – utilizzato sempre più spesso come arma non convenzionale, con tariffe, dazi e sanzioni. Se la Francia è certamente un protagonista europeo irrinunciabile in campo militare e diplomatico, lo stesso si può dire della Germania in campo economico-industriale, e qui il “modello tedesco” è ancora più chiaramente in difficoltà a fronte delle condizioni attuali. Berlino ha, più che mai, bisogno dei suoi maggiori partner per riorientare le sue scelte di fondo, attuare la sua dichiarata Zeitenwende e mettersi al passo con un mondo in cui la sicurezza contagia l’economia. Con l’inflazione (che per l’UE è da offerta e non da domanda) ancora non del tutto sotto controllo, e con una semi-stagnazione in corso in alcuni dei maggiori paesi, si tratta di un tema decisivo per le scelte delle nuove istituzioni europee.

 

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Vedremo intanto come le sfide della sicurezza interna verranno affrontate a Parigi: se c’è un appuntamento olimpico che evoca rischi di questo tipo, l’edizione 2024 è sicuramente un “case in point”. Ed è quindi una sfida da vincere: non solo per gli atleti migliori ma per la credibilità dell’Europa.

 

 


Questo articolo è l’Editoriale del numero 2-2024 di Aspenia