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Le monarchie del Golfo fra rivolte e petrolio basso: Stato e società in evoluzione

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Per l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, il crollo del prezzo degli idrocarburi potrebbe avere un impatto socio-politico maggiore di quello delle “primavere arabe” di cinque anni fa. Il ribasso petrolifero, in un contesto geopolitico che si complica (ascesa dell’Iran, incomprensioni con gli Usa, minaccia jihadista), sta infatti generando da parte dei governi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) reazioni assai più “trasformative”, almeno nelle intenzioni, che nel recente passato – quando alle turbolenze sociali si rispose con provvedimenti che non toccassero lo status quo.

Cinque anni dopo i tumulti verificatisi nei vari paesi arabi, infatti, le riforme realizzate dai monarchi del Golfo sono minime e di natura essenzialmente “cosmetica”. Nel 2011 le proteste di piazza raggiunsero il Bahrein e l’Oman: i manifestanti invocavano giustizia sociale, lavoro e lotta alla corruzione. Dopo un inizio trasversale, la sollevazione di Manama, in Bahrein, assunse una connotazione confessionale: la maggioranza sciita sfidò la sua storica esclusione dalla vita pubblica del piccolo regno, tanto che la Peninsula Shield Force (il braccio militare del CCG) fu chiamata a reprimere con la forza i manifestanti. La contestazione oggi è divisa: Al-Wefaq (società politica sciita di opposizione, tollerata dalla monarchia) ha deciso il boicottaggio delle elezioni del 2014, mentre una frangia si è radicalizzata, compiendo anche sporadici attacchi contro le forze di sicurezza. Comunque, il primo ministro del Bahrein rimane, da 45 anni, Khalifa bin Salman al-Khalifa.

In Oman, la mobilitazione fu meno possente ma altrettanto significativa: con toni inediti, la contestazione toccò addirittura l’operato del Sultano Qaboos bin Said al-Said. La carta costituzionale omanita (Basic Law) è stata emendata per ampliare il potere legislativo, seppur limitato, del Majlis al-Shura, la Camera bassa dell’Oman; molti nodi restano però irrisolti, così come la questione della successione al sovrano, malato e privo di eredi in linea diretta.

In Giordania, dunque fuori dall’area CCG ma sempre nell’ambito dei paesi del Golfo, le manifestazioni di parte dei transgiordani (cioè i giordani non di origine palestinese,  East-bankers, tradizionalmente alleati della monarchia), riuscì nella primavera del 2011 a mettere sotto pressione il re Abdullah II: un passaggio critico da cui il sovrano è uscito coniugando riforme calibrate (costituzione e legge elettorale) e sapiente cooptazione dei dissidenti. I risultati delle elezioni politiche del 2013 hanno premiato infatti capi tribali e imprenditori organici al regime.

Il 2011 registrò anche il ritorno alla protesta della minoranza sciita dell’Arabia Saudita, nella regione orientale e petrolifera fra Qatif e al-Ahsa, Nel gennaio scorso, l’esecuzione del religioso Nimr al-Nimr, il leader spirituale della protesta sciita saudita, ha confermato la chiusura netta da parte dell’autorità, irrigidite anche dallo scontro per l’egemonia regionale con l’Iran. Awamiyya, villaggio natale di al-Nimr, rimane il raggio d’azione di un gruppo di giovani dissidenti.

Sempre nel 2011 si sono avute le sfilate dei bidun in Kuwait, gli arabi apolidi privi di diritti (bidun jinsiyya: “senza nazionalità-cittadinanza”), di discendenza beduina ma residenti storici del piccolo emirato degli al-Sabah. Il “limbo legale” dei circa 100mila bidun kuwaitiani è lontano dalla risoluzione: la legge che stabilisce la naturalizzazione di 2000 apolidi all’anno non è mai stata applicata. La crescente radicalizzazione di una parte della comunità sunnita del Kuwait spinge alcuni bidun alla violenza, specie coloro che condividono con le frange salafite legami di affiliazione tribale nonché la vita nelle periferie della capitale. 13 bidun sono indagati per complicità nell’attacco suicida del 2015, perpetrato da un cittadino saudita, nella moschea sciita Imam al-Sadeq di Kuwait City, costato la vita a 26 persone.

I governi di Bahrein, Oman e Giordania sono riusciti a placare i manifestanti e a ripristinare l’ordine sociale innanzitutto grazie agli ingenti prestiti sauditi, che hanno consentito misure-tampone come l’aumento dei salari e dei sussidi di disoccupazione. L’Arabia Saudita, a sua volta, ha potuto aiutare i partner regionali grazie al surplus di budget accumulato durante il boom petrolifero del primo decennio del Duemila. Questa operazione è avvenuta attraverso aiuti militari e allo sviluppo (Egitto, Marocco), e anche sostenendo molti attori non-statuali, come le milizie siriane di opposizione al regime di Assad, in chiave anti-Iran.

Il tornante economico attuale è però ben diverso, e molto più scivoloso per l’Arabia Saudita, che insieme a Bahrein e Oman è tra le monarchie  più dipendenti dalla rendita energetica. Emirati Arabi Uniti e Qatar hanno invece parzialmente diversificato la loro struttura economica: qui, meno del 70% delle entrate pubbliche deriva da gas e petrolio. Nel frattempo, crescono le spese militari: secondo lo Stockholm International Peace Research Institutel’import saudita di armi è aumentato del 275% fra 2011 e 2015 rispetto ai cinque anni precedenti, e il trend è simile in tutta la regione.

Le scelte economiche di Riad, e le modalità con cui verranno applicate, saranno quindi indirettamente decisive per la stabilità regionale. Cambiare davvero il sistema economico (il vice- principe ereditario e Ministro della difesa saudita, Mohammed bin Salman, ha annunciato ai media anglofoni il passaggio alla post-oil economy) senza toccare il sistema politico sarà complicato, specie se le nuove politiche di bilancio restrittive porteranno ulteriore disoccupazione e meno potere di acquisto. Il taglio ai sussidi e alla spesa pubblica per raddrizzare il deficit, mentre alcune questioni sociali e identitarie sono ancora aperte, rischia di aprire un nuovo, insidioso perché trasversale fronte di malcontento.

Per esempio, lo scorso gennaio, il governo del Kuwait (come gli altri del CCG) ha tagliato il sussidio sui carburanti – scelta che impatta su alcuni settori come trasporti, costruzioni e produzione alimentare. Dopo giorni di mobilitazione e scioperi, l’esecutivo ha negoziato una serie di esenzioni. L’oligarchia commerciale, alleata della casa reale e influente all’Assemblea Nazionale, è infatti la prima a beneficiare dei sussidi statali che permettono alle aziende del settore privato di operare in una cornice giuridico-finanziaria vantaggiosa. Inoltre, il taglio dei sussidi non sta producendo benefici palpabili sul deficit e allontana la diversificazione economica (che richiede cospicui investimenti pubblici). I lavoratori kuwaitiani del settore petrolifero stanno ora scioperando contro i tagli salariali decisi dal governo per i dipendenti pubblici.

I prezzi alti del petrolio hanno garantito per decenni, con un ingente travaso di risorse, stabilità ai sistemi autoritari del Golfo: ecco perché l’attuale ribasso potrebbe al contrario spingere i monarchi ad auto-riformare, per necessità e con cautela, il rapporto fra Stato e società.

Le sfide sociali sono però pressanti, prima fra tutte la disoccupazione:  la “saudizzazione del lavoro” (ovvero la graduale sostituzione della manodopera straniera qualificata con quella locale, specie nel settore privato ) richiede tempi lunghi oltre che competenze tecniche che i cittadini non posseggono e a cui, spesso, non aspirano (perciò la forza lavoro viene dall’estero). Intanto, i paesi del CCG si apprestano a introdurre l’IVA al 5% entro il 2018 – anche se saranno esenti alimentari, sanità ed educazione.

La regione del CCG, fondata sul binomio “assenza di tassazione-assenza di rappresentazione” che è stato possibile grazie alla rendita energetica, non può rivoluzionare se stessa senza mettere a repentaglio la sopravvivenza delle élite e un patto sociale che ha garantito crescita finanziaria e stabilità istituzionale. I recenti auspici della direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, all’Arab Fiscal Forum di Abu Dhabi per “l’introduzione di tasse personali sul reddito”, hanno dunque una razionalità economica ma non politica, data la peculiare essenza patrimoniale degli stati in questione.

Fra rivolte (per ora contenute o latenti) e questione energetica, i monarchi del Golfo sono così chiamati ad aggiornare il loro modello. Sarà il compito-chiave della nuova generazione che in parte ha già in mano le responsabilità di governo, di cui fanno parte il trentacinquenne Emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani e il trentenne saudita Mohammed bin Salman. Gestire contemporaneamente una transizione economica e una di potere interno, includendo nuovi network clientelari senza alienarsi la base tradizionale, è una sfida forse più ambiziosa della già aspra competizione con l’Iran.