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Le guerre per l’acqua attorno alla Mesopotamia

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Da fonte di vita a motivo di tensioni e conflitti. L’antica Mesopotamia, passata alla storia per la fertilità delle sue terre, oggi è straziata dalle guerre e dalla contesa di un bene in costante diminuzione, ma assolutamente indispensabile: l’acqua. Una riduzione causata da tre fattori: infrastrutture dall’impatto ambientale devastante; un utilizzo dissennato di questa risorsa da parte di agricoltori e governi; e infine il cambiamento climatico, che ha inciso negativamente sulle precipitazioni e quindi sulla portata dei fiumi della regione. Delle mitiche terre fra il Tigri e l’Eufrate, un tempo sinonimo di prosperità e abbondanza, non rimane che un lontano ricordo.

La Diga Ataturk, sull’Eufrate, in Turchia

 

Gli attori in gioco sono tre: Turchia, Iran e Iraq. I primi due stanno mettendo in ginocchio il terzo, determinati a usare questa risorsa, a seconda dei casi, come arma diplomatica o come arma di ricatto. Il campo della contese, come è facile prevedere, si estende anche alla limitrofa Siria.I corsi del Tigri e dell’Eufrate, rispettivamente di 1.850 e 2780 chilometri, attraversano il cuore più generoso del Medio Oriente, la cosiddetta ‘Mezzaluna fertile’. Il punto di non ritorno per il destino di queste terre è il 2005, quando in Turchia il primo governo guidato da Recep Tayyip Erdogan decise di dare nuovo impulso alla costruzione del Southeastern Anatolia Project (SAP), la cui progettazione risale agli anni Settanta.

Si tratta di un colossale piano di sviluppo regionale per sostenere l’economia di una parte della Turchia, il sud-est, più arretrato rispetto al resto del Paese e piagato dalla lotta fra Stato turco e Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione separatista e designata dal governo di Ankara come terroristica. La parte più importante di questo maxi progetto da 16 miliardi di dollari è concentrata sullo sviluppo del settore agricolo e la produzione di energia elettrica. Il piano prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici. Al momento, le opere sono state completate al 72%. La consegna finale dovrebbe avvenire nel 2023, centenario della nascita della Turchia.

La parte del progetto più imponente e controversa è la diga Ilisu, che sorge sul fiume Tigri a poche decine di chilometri di distanza dal confine con la Siria. Lo sbarramento è lungo quasi due chilometri e il volume del bacino è di 10mila milioni di metri cubi di acqua. Il suo invaso sta cancellando il sito archeologico di Hasankeyif e nonostante la maggior parte degli edifici storici sia stata dislocata in un luogo non interessato dallo sbarramento, la polemica sulla sommersione di un sito con 5mila anni di storia (dal periodo assiro a quello ottomano) è stata enorme.

Anche l’Iran ha ben chiaro come sfruttare le sue riserve idriche scaricando i costi sui Paesi confinanti. La Repubblica Islamica, negli ultimi anni, ha sviluppato sistemi di dighe che influiscono sugli affluenti più importanti del fiume Tigri; se si conta che il 30% delle sue acque originano proprio dall’Iran, queste hanno un impatto rilevante. Si calcola che siano 42 i corsi d’acqua deviati o ridotti da Teheran, con conseguenze disastrose.

A fronte di Paesi come Turchia e Iran, in grado di programmare progetti e investimenti per il futuro, cercando di compensare la diminuzione delle risorse naturali, ce n’è uno in ginocchio. Il Tigri e l’Eufrate rappresentano circa il 70% dell’acqua disponibile in Iraq. E se un tempo questi erano due fiumi portatori di ricchezza, adesso lungo i loro corsi la miseria si può toccare con mano – complici anche le due guerre che negli ultimi tre decenni hanno impoverito l’economia nazionale. Negli ultimi mesi 650 villaggi a ridosso del confine con Turchia, i cui impianti hanno diminuito del 40% la portata del Tigri, sono rimasti senz’acqua, costringendo i loro abitanti a riversarsi in massa nelle città. Le superfici irrigate fra il 2018 e il 2019 subiranno di conseguenza un grosso taglio. A Ninive sono state vietate colture come riso, grano, sesamo perché richiedono troppa acqua. Una situazione in costante peggioramento, dovuta, va detto, anche a infrastrutture obsolete e a uno Stato accusato, fra le altre cose, di non avere una politica agricola. Le condizioni più drammatiche sono a Bassora, nel Sud del Paese, dove il letto del Tigri è praticamente prosciugato. La situazione sanitaria è disastrosa, con decine di casi di avvelenamento da acqua inquinata e malattie della pelle.

Quella per il controllo dell’acqua è una guerra combattuta senz’armi, ma giocata sempre sulla vita degli esseri umani: un territorio privo di istituzioni stabili come quello iracheno rischia di soccombere. Non è un caso che, fra la prima e la seconda Guerra del Golfo, quando la leadership di Saddam Hussein era tornata forte, la Turchia aveva rallentato, e parecchio, la progettazione e la costruzione di sistemi di sbarramento delle acque. L’ultimo conflitto e la gestione politica incerta del Paese dopo la caduta di Saddam hanno concesso ad Ankara una facilità di manovra della quale la Mezzaluna ha approfittato senza farsi troppi scrupoli.

Se questi sono i termini della questione, è facile prevedere un’evoluzione tragicamente simile per la Siria, dove ancora infuria una guerra da oltre 400mila vittime, la leadership “di ritorno” di Bashar al-Assad non è ancora consolidata, e Turchia, Iran e Russia non sono ancora d’accordo sulla gestione del dopoguerra.

Dunque Baghdad, ma anche Damasco, hanno risentito dello sbarramento del Tigri e dell’Eufrate.. Ma c’è anche un altro aspetto di questa ‘guerra dell’acqua’, che rischia di riguardare tanto Iraq quanto Siria e che sul lungo termine potrebbe provocare una nuova emergenza terrorismo: l’impoverimento del territorio, dove l’acqua prima dava lavoro e prosperità a decine di villaggi e ai loro abitanti, va di pari passo con quello dei nuclei familiari che vivono in queste zone e che spesso hanno anche vissuto il terrore e la penuria imposti dalla guerra. Le tensioni geopolitiche, il processo di ridefinizione del Medio Oriente e il ruolo sempre più incisivo, proprio in questi territori, di potenze straniere, come la Turchia e l’Iran, ma anche la Russia e gli Stati Uniti, potrebbe dare vita a una nuova campagna di reclutamento da parte dello Stato Islamico o di altre organizzazioni terroristiche, di marca jihadista o curda. Un esercito di nuovi adepti, che spesso vanno alla guerra accecati più dalla miseria che dalle convinzioni politiche o religiose. Non è un caso che il Pkk abbia usato la diga Ilisu come motivo di scontro nei confronti dello Stato turco e che Isis abbia iniziato il reclutamento in Iraq quando le condizioni della popolazione hanno iniziato a peggiorare a causa della crisi idrica.

Turchia e Iran, dunque, agiscono in modo spregiudicato nell’assicurarsi una fruizione privilegiata delle principali fonti di acqua della regione. Ma se Teheran ha assunto un atteggiamento intransigente con l’Iraq, anche a causa dei rapporti travagliati e della guerra ventennale ai tempi di Saddam Hussein, la Turchia sembra voler utilizzare questa risorsa come strumento di mediazione o per esercitare soft power in tutta la regione. A fine agosto rappresentanti di Turchia, Iran, Iraq, Siria, Giordania e Libano si sono incontrati a Stoccolma per costruire una squadra di esperti e fare dell’acqua uno strumento di cooperazione e non di conflitto. Si tratterebbe di una vera e propria ‘pace blu’, che, fino al 2020 verrà coordinata proprio dalla Turchia. Il progetto è supportato da Svezia e Svizzera.

Questo, ovviamente, non significa che Ankara abbia rinunciato ai suoi piani. Al contrario, sta cercando di imporli, almeno per il momento, con le buone. Nelle scorse settimane, la Turchia ha annunciato di voler posporre il completamento dell’invaso della diga Ilisu fino all’inverno. Un gesto di buona volontà, che tiene conto delle situazioni disperate dell’Iraq, ma anche di opportunità economica.

Ankara si è offerta di aiutare Baghdad a modernizzare le sue strutture e a studiare il mondo di rendere l’agricoltura nazionale più razionalizzata, con infrastrutture moderne che possano aiutare a gestire al meglio le riforme. Un modo per ingraziarsi il governo centrale, portandolo discretamente sotto la sua influenza. La strada che la Turchia vuole intraprendere per diventare un importante player regionale è dipinta di blu.