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La Baviera dopo il voto: tra Europa e identitarismo

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Le elezioni bavaresi hanno rispettato quasi interamente i pronostici. Crolla la CSU, che incassa il peggior risultato dal 1950 e si ferma al 37,2% (-10,5% rispetto al 2013). Esultano i Grünen (i Verdi), che passano dall’8,6% del 2013 al 17,5% di questa domenica, raccogliendo soprattutto i voti degli elettori in fuga dalla SPD (ridotta al 9,7%) e beneficiando del consenso di una parte dei moderati-centristi che ha abbandonato la CSU – a causa della sua campagna a tratti populista. Alternative für Deutschland raggiunge il 10,2% dei consensi; cinque anni fa AfD non esisteva, e dunque il partito di destra identitaria entra nel parlamento regionale, il Landtag, ma il suo risultato è un arretramento di oltre 2 punti rispetto ai risultati in Baviera delle consultazioni nazionali del 2017. Ottima performance, invece, dei Freie Wähler (un agglomerato tendenzialmente liberal-conservatore di liste regionali e civiche). Con l’11,6%, i FW diventano terzo partito della regione e si candidano al ruolo di alleati governativi dei cristiano-sociali (grazie a un’eventuale maggioranza complessiva di 112 seggi su 205. L’alleanza tra la CSU del Presidente già in carica Markus Söder e i Freie Wähler non è scontata, ma è al momento un’ipotesi più fattibile di un’intesa nero-verde tra i cristiano-sociali e i Grünen.

Sul piano tattico, un esecutivo nero-verde sarebbe forse piaciuto proprio alla Cancelliera Angela Merkel, perché avrebbe riportato verso il centro la CSU, avvicinandola all’impostazione sostanzialmente europeista del merkelismo e allontanandola dall’eccessivo dissenso su temi scottanti come immigrazione e integrazione. Ora, invece, si aprono prospettive abbastanza ignote: se è vero che i Freie Wähler sono in parte vicini all’ALDE nel Parlamento europeo, è anche vero che il loro marcato regionalismo è fisiologicamente euroscettico.

Di conseguenza, guardando alle elezioni bavaresi attraverso il prisma UE, gli europeisti più convinti non hanno molti motivi per esultare. Malgrado il notevole ”hype” mediatico generato dal successo dei Verdi, in Baviera il nucleo delle forze pro-UE arretra leggermente rispetto agli scorsi anni. Se si somma l’exploit verde con il crollo della SPD, infatti, i soli due partiti integralmente europeisti raccolgono un magro 27,2% (2 punti in meno del 2013).

Il paradosso del voto bavarese: al crescere della % di stranieri residente in un comune, diminuisce la % di voti ottenuti da Alternative für Deutschland

 

L’Europa, del resto, non è stata centrale nella campagna elettorale bavarese, se non come entità lontana, ripetutamente incolpata per i problemi dell’eurozona e, ancora di più, nei dibattiti sull’immigrazione. Sono stati infatti sicurezza e immigrazione ad aver dominato per mesi la disputa elettorale, anche a causa dell’attivismo securitario e identitario dello stesso governo CSU di Markus Söder, a lungo letteralmente terrorizzato dall’idea di un’emorragia incontrollabile di voti verso AfD. Il risultato complessivo è stata una campagna elettorale inquieta, particolarmente divisiva, come dimostra anche l’alta affluenza: 72,4% (nel 2013 andò a votare solo il 64,7% degli elettori).

Per la prima volta la CSU non è sembrata capace di mediare tra la tensione modernizzatrice dei grandi centri urbani della Baviera – a partire da Monaco – e le specificità identitarie delle aree rurali dove il tradizionalismo (alpino-cattolico, ma non solo) innerva la quotidianità e la Weltanschauung collettiva.

La frattura elettorale in Baviera tra città, che premiano Verdi e SPD, e zone extraurbane, che premiano CSU, FW e AfD. Fonte: Sueddeutsche Zeitung online.

 

La Baviera come avanguardia dell’economia tedesca

Le lacerazioni politiche su temi identitari e sulla dialettica tra apertura e chiusura culturale hanno però offuscato un dato oggettivo: pochi territori al mondo possono vantare un’economia così in salute come quella bavarese. Stato “libero” e autonomo per eccellenza, Land più esteso della Bundesrepublik, patria di BMW, Siemens e altri colossi del capitalismo occidentale, la Baviera è da decenni una colonna portante dell’economia tedesca (e del suo neo-mercantilismo). Il Land produce oggi il 18% del Pil nazionale e vanta una disoccupazione al di sotto del 3%. Nel 2017 l’economia bavarese ha aumentato di oltre il 5% il proprio export, per un totale di 192 miliardi di euro di esportazioni e un surplus commerciale di più di 12 miliardi.

La corsa della Baviera da regione agricola a grande player internazionale va avanti da decenni, praticamente senza interruzioni. Un costante miracolo economico che, dagli anni Sessanta a oggi, è stato altrettanto costantemente gestito dalla CSU, grazie alla sua capacità di farsi allo stesso tempo monopolio democratico locale e alleato cruciale per la CDU nazionale. Un talento, quello della classe dirigente cristiano-sociale bavarese, che affonda le radici in una storica vocazione della Baviera al perseguimento del proprio più concreto interesse geopolitico.

La realpolitik bavarese dal Reich prussiano all’Unione Europea

Con una storia unitaria di oltre mille anni già alle spalle, nell’Ottocento la Baviera sfruttò a lungo la rivalità tra Prussia e Austria, le due entità di riferimento del mondo politico-culturale germanico all’epoca, ma accettò poi di far parte della Germania moderna nel gennaio 1871, quando nella Reggia di Versailles venne pomposamente proclamato il secondo Reich tedesco. La Baviera entrò nell’Impero con consapevolezza geopolitica, comprendendo la necessità di legare il proprio futuro agli odiati-amati prussiani. Da parte sua, la potente Prussia, geograficamente sbilanciata a Nord, trovò grazie alla Baviera (e alle sue Alpi) un vitale equilibrio territoriale, che le permetteva di sottrarsi alla celebre esposizione prussiana nella grande pianura europea.

Durante il grande buio del totalitarismo tedesco, i bavaresi ebbero un rapporto più ambiguo di quanto si creda con il nazionalsocialismo. La Baviera fu sì la terra da cui l’austriaco Adolf Hitler poté partire alla conquista di Berlino, così come in Baviera venne creato il primo campo di concentramento (a Dachau) e vennero proclamate le più oscene leggi antisemite (a Norimberga). Ma la Baviera cattolica e conservatrice fu anche quella che cercò di defilarsi dal nichilismo morale e neo-pagano del regime hitleriano, in nome di un tradizionalismo pur sempre reazionario, ma sicuramente non così eversivo.

Questa ”ambiguità” fu in parte premiata dagli alleati nella Germania dell’anno zero. Gli anglo-americani individuarono presto nella Baviera del Dopoguerra un prezioso avamposto anti-comunista. E furono sempre gli Stati Uniti a vedere di buon occhio l’emergere della CSU: una realtà politica abbastanza autonoma da non rafforzare troppo la Germania settentrionale, ma non così autonomista da far temere avvicinamenti eccessivi a un paese non NATO come l’Austria.

Così, quando il blocco occidentale offrì alla Germania Occidentale la possibilità dell’espansione economica come compensazione per la quasi totale rinuncia tedesca alla dimensione strategico-militare, i bavaresi sfruttarono prontamente l’occasione di una modernizzazione accelerata del loro territorio e dei loro modelli produttivi. Tra i pionieri-demiurghi di questa evoluzione ci fu ovviamente Franz Josef Strauß, storico e discusso Presidente della Baviera dal 1978 al 1988. Nella terra di regnanti da favola come Ludwig II, Strauss fu un monarca sgraziato ma efficiente, aggressivo ma scaltro, tanto spericolato da diventare amico di dittatori come Augusto Pinochet ed Enver Hoxha. La spregiudicatezza nelle relazioni internazionali di Strauß, del resto, resta proprio l’emblema più chiaro dell’intraprendente autonomia geoeconomica bavarese.

Nei primi anni Novanta, poi, arrivò il momento decisivo del salto di qualità dell’Unione Europea, con il trattato di Maastricht e i passi concreti verso la moneta unica. La Baviera oppose inizialmente una rumorosa resistenza, ma poi iniziò a fare a Bruxelles quello che aveva sempre fatto a Bonn (e poi a Berlino): presenziare, farsi sentire, divenire pedina irrinunciabile, sedersi al tavolo delle decisioni che contano. Dopo essersi protetta dalla possibile invadenza di Bruxelles con una modifica dell’articolo 23 della Costituzione tedesca (che sancì la partecipazione dei Bundesländer alle politiche europee del governo centrale di Berlino), la spinta della politica bavarese in UE diventò presto fondamentale su temi come il principio di sussidiarietà o nella creazione di organi come il Consiglio delle Regioni.

Già nel 1987 la Baviera apriva la sua prima rappresentanza a Bruxelles, che ha oggi sede in un lussuoso complesso che sorge più che simbolicamente di fronte al Parlamento europeo. E’ anche da quell’edificio che, più recentemente, la CSU tedesca si è fatta portavoce del dissenso regionalista-conservatore contro gli aiuti all’economia ellenica, confermando come per la politica bavarese resti sempre prioritario l’interesse del proprio territorio. Un interesse che oggi viene abilmente perseguito anche con alleanze e attive collaborazioni nel quadro della Macroregione alpina (tramite la formula EUSALP) o attraverso ambiziose ed evocative prospettive globali come il modello Power Regions, con cui la Baviera ha rafforzato l’allargamento del proprio network internazionale, unendosi ad altre regioni di successo in America, Asia e Africa.

Tra Baviera europea e Hoamat

E ora? Come evolverà la storica vocazione geopolitica e geoeconomica bavarese dopo le elezioni che hanno sancito il ridimensionamento del monopartito CSU, che di tutto si è sempre occupato, senza particolari intoppi? Molto dipenderà da come un’alleanza tra CSU e Freie Wähler definirà il prossimo governo (se mai nascerà). Se è chiaro che un’economia da esportazione florida come quella bavarese non cercherà di innalzare barriere protezioniste e scompigliare quanto funziona nel mercato unico; è invece verosimile che le barriere saranno innalzate su temi come l’immigrazione e il rigore dei conti.

Se da un lato la probabile candidatura del cristiano-sociale, già capogruppo PPE a Bruxelles, Manfred Weber a Presidente della Commissione europea potrebbe vincolare il nuovo governo bavarese alle proprie responsabilità nell’Unione, dall’altro lato un esecutivo CSU-FW potrebbe dare spazio di manovra a un nuovo occidentalismo mitteleuropeo. Una svolta ideologica in cui una parte dei cristiano-sociali si orienterebbe verso scenari austriaci e, sul lungo periodo, potrebbe scegliere, in modo meno conciliante e sincretico del solito, la sola via identitaria della Hoamat (la versione bavarese della celebre parola Heimat: patria).

E anche se fu proprio il padre nobile Strauß ad ammonire che per il bene della Germania nessun partito si sarebbe dovuto mai affermare alla destra dell’Unione cristiano-democratica, il modello di Sebastian Kurz a Vienna ha già mostrato come il centrodestra alpino sappia accordarsi con la destra populista: non è da escludere dunque, in futuro, una qualche aperta contaminazione tra CSU bavarese e AfD.

Una cosa resta certa: se la Germania ha guardato con estrema attenzione alle elezioni bavaresi, ora sarà di nuovo Monaco di Baviera a osservare attentamente le prossime evoluzioni a Berlino. Al di là della formazione del governo regionale e del destino dell’indebolito leader CSU Horst Seehofer, anche la politica bavarese aspetterà di capire cosa accadrà all’esecutivo nazionale di Angela Merkel. Il 28 ottobre ci saranno le elezioni in Assia, Land in cui la Große Koalition rischia l’ennesimo rovescio, mentre il 7-8 dicembre ci sarà il congresso nazionale della CDU.

Si tratta di passaggi fondamentali per comprendere se e quando inizierà la fine del merkelismo, con tutto quello che ne consegue, in Germania e nella stessa Baviera. Le tattiche autonome e la geopolitica indipendente bavaresi, infatti, continueranno ancora a lungo a essere intrecciate con le dinamiche tedesche, in un rapporto di inevitabile, profondo e mutuo condizionamento.