Le gravi incognite della campagna elettorale americana
La campagna elettorale americana potrebbe essere a una svolta. La deludente performance televisiva, registrata da Joe Biden il 27 giugno durante il primo dibattito con Donald Trump, ha gettato il Partito Democratico in un dilemma. Nonostante i parlamentari dem abbiano espresso ufficialmente sostegno al presidente, stanno crescendo le pressioni affinché il diretto interessato venga sostituito in corsa.
Da questo punto di vista, sono emerse delle spaccature significative. Il 30 giugno, Biden ha avuto una riunione a Camp David con i famigliari: famigliari che, secondo Politico e il New York Times, hanno esorato il Presidente a restare in corsa, addossando ai suoi consiglieri il disastro del confronto televisivo. Dall’altra parte, i malumori crescono. Il deputato democratico Jamie Raskin ha apertamente ammesso la possibilità che Biden possa essere sostituito.
Inoltre, nonostante gli abbia ufficialmente garantito il proprio sostegno dopo il dibattito, anche Barack Obama (tuttora con una certa influenza nel partito) sembrerebbe muoversi per favorire un cambio di cavallo in corsa: negli ultimi giorni, vari storici esponenti del suo entourage (tra cui Van Jones e David Axelrod) hanno avuto parole tutt’altro che positive verso la performance televisiva del Presidente in carica: un elemento, questo, che ha notevolmente irritato i vertici della campagna di Biden. A peggiorare la situazione sta un recente sondaggio della Cbs, secondo cui per il 72% degli americani lo stesso Biden non disporrebbe della salute mentale adeguata per ricoprire il suo attuale ruolo.
E non è tutto. Mentre va avanti il braccio di ferro in seno all’Asinello tra chi auspica un avvicendamento e chi vuole invece evitarlo, il Partito Repubblicano sta cercando di capitalizzare queste tensioni. La co-presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, Lara Trump, ha infatti affermato che, qualora Biden dovesse essere sostituito, ciò andrebbe a ledere il processo democratico. Si tratta di una linea che può essere spiegata da varie motivazioni. Innanzitutto, Donald Trump non auspica l’arrivo di un nuovo rivale per la Casa Bianca. E questo non solo perché percepisce Biden come azzoppato, dunque l’avversario ideale, ma anche perché, per questioni strategiche e organizzative, la campagna presidenziale repubblicana si è ormai organizzata come macchina “anti-Biden”.
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In secondo luogo, non è escluso che i repubblicani vogliano fomentare un senso di disaffezione tra gli elettori della sinistra dem: i fan di Bernie Sanders, per capirci, che ancora non hanno digerito la conquista della nomination presidenziale democratica da parte di Hillary Clinton nel 2016. Alcuni di quegli elettori ritenevano (e forse ritengono ancora oggi) che l’establishment dem si fosse mosso per azzoppare la candidatura del senatore del Vermont. E’ dunque possibile che, facendo leva sullo scenario della “manovra di palazzo”, i repubblicani vogliano indirettamente tentare di alimentare la freddezza della sinistra democratica verso le alte sfere del partito.
Ecco quindi il dilemma in cui è attualmente attanagliato il Partito Democratico. Se Biden restasse, ci si avvierebbe verso una campagna ricca di incognite, vista la sua evidente debolezza fisica e politica. Se il presidente facesse invece un passo indietro, la palla passerebbe alla Convention nazionale democratica di Chicago, che si terrà tra il 19 e il 22 agosto. Uno scenario, questo, altrettanto rischioso. Innanzitutto, molti elettori dem potrebbero non gradire l’eventualità che il processo delle primarie, con cui si sceglie il candidato del partito alla Casa Bianca, venga bypassato. In secondo luogo, non è affatto escludibile che, in sede di Convention aperta, scoppi una guerra intestina.
Ad esempio, difficilmente Kamala Harris rifiuterebbe di candidarsi ma altrettanto difficilmente la sua probabile discesa in campo verrebbe accettata da tutti senza fiatare: la Vicepresidente, d’altronde, non gode di grande popolarità tra l’elettorato. Ecco quindi che prendono quota – nuovamente – nomi come quello della governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer, o del collega californiano, Gavin Newsom (uno che riscuote il significativo l’apprezzamento di in guru delle campagne come David Axelrod e quindi, probabilmente, dello stesso Obama che con lui ha lavorato a lungo). Ma non è finita qui. Sì, perché anche la sinistra dem potrebbe decidere di rialzare la testa e dare battaglia per la nomination.
Nel frattempo, oltre che dal dibattito televisivo, Trump è uscito rafforzato anche dalla sentenza della Corte Suprema (emessa il 1° luglio) sulla sua immunità in riferimento all’incriminazione che lo accusa di aver tentato di ribaltare i risultati elettorali del 2020. La maggioranza dei togati ha infatti stabilito che il presidente gode dell’immunità “assoluta” per i suoi atti ufficiali: partendo da qui, i giudici hanno riconosciuto al candidato repubblicano l’immunità su alcune dei comportamenti che gli sono stati contestati dal procuratore speciale Jack Smith, rimandando ai tribunali di grado inferiore il compito di stabilire se quelli che non sono stati giudicati vadano o meno considerati come atti ufficiali.
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Questo vuol dire che Smith dovrà ridurre la base su cui poggia il proprio impianto accusatorio e che, in attesa che si pronuncino le altre corti, l’avvio del processo potrebbe slittare a dopo le elezioni del 5 novembre. Ricordiamo che, trattandosi di un’incriminazione federale, Trump, se tornasse presidente, potrebbe cassarla, utilizzando su sé stesso il perdono presidenziale. Dall’altra parte, il candidato repubblicano è in attesa che, il prossimo 11 luglio, venga stabilita la pena per la condanna da lui subita a maggio a Manhattan: in linea teorica, rischia di finire in carcere a pochi giorni dall’inizio della Convention repubblicana di Milwaukee del 15-18 luglio.
Qualora ciò dovesse accadere, i repubblicani dovrebbero scegliere tra cambiare candidato, o fare quadrato attorno a Trump, scommettendo sul fatto che una simile eventualità possa persino rafforzarli in vista del voto novembrino.