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Le controrivoluzioni atlantiche tra Trump e Macron

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Il bicentenario della Rivoluzione francese, nel luglio del 1989, produsse una vasta mole di studi, approfondimenti e nuove prospettive critiche. Insomma, l’abituale adagio accademico dove i campioni delle lettere e della cultura chiosavano coralmente, raccontando una trama tutto sommato classica ed elegante: il mix del mondo di “ieri” nella prospettiva del mondo di “domani”.

Nessuno poteva immaginare – anche se, come si dice appunto nei salotti “bene” alcune forze carsiche erano già all’opera – cosa sarebbe accaduto di lì a pochi mesi. Il 9 novembre di quell’anno crollava il Muro di Berlino, e tutti gli scenari geopolitici immaginati sino a quel momento andavano in fumo. La rincorsa a spiegare il nuovo mondo fu traumatica – muoveva i primi passi la fortunata teoria del “pensiero unico” in stile “fine della storia” – e negli addetti ai lavori si produsse un senso di tragicomica consapevolezza: troppo impegnati a discettare su Robespierre, nessuno aveva visto arrivare McDonald’s in Alexanderplatz.

Trent’anni dopo, mutatis mutandis, alla vigilia del duecentotrentesimo anniversario della Bastiglia, possiamo chiederci chi ha visto arrivare al potere Emmanuel Macron e Donald Trump. E possiamo chiederci qual è il retaggio di queste due rivoluzioni considerate, a ragion veduta, sorelle e note appunto come Rivoluzioni Atlantiche?

La risposta è in tante risposte, ma l’incontro Macron-Trump a margine delle celebrazioni (questa volta per i 100 anni dell’armistizio della Prima guerra mondiale, il novembre scorso) restituisce un’esaustiva, e poco rassicurante, fotografia di sintesi; nei mesi che separano le due commemorazioni, appunto la Grande Guerra e la Rivoluzione, Stati Uniti e Francia si trovano in disaccordo su tutto: difesa europea, sanzioni all’Iran, politiche commerciali e last but not least, gli accordi sul clima.

Anche se Macron e Trump non potrebbero essere più diversi, le analogie rispetto alla cesura con la propria legacy “rivoluzionaria” è, in entrambi, pressoché totale. Le differenze, in fondo, appartengono alla mera ritrattistica: Macron è il primo della classe mentre Trump è, orgogliosamente, l’ultimo; li dividono trent’anni e la classificazione politica, se intesa in termini protocollari, essendo il primo un uomo di centro e il secondo un falco repubblicano, seppur anticonformista. Di certo, entrambi hanno vinto le rispettive presidenze da outsider.

Li divide infine il rapporto con i (social) media – facendo un passo indietro potremmo dire con la stampa e i circoli colti, facendone ancora un altro potremmo dire con l’opinione pubblica, categoria ormai fagocitata dal flusso ininterrotto di tweet, post e hashtag (e troll) imperante: Trump (che ama Twitter perfino troppo) li ha avuti contro sin dagli esordi, mentre Macron ha potuto almeno contare su un atteggiamento neutro.

Ieri come oggi, tuttavia, la classe borghese gioca un ruolo determinante nei rapporti di forza politici interni alle due nazioni. Non solo il voto della cosiddetta America di mezzo (cioè la grande pancia del Paese, escluse le grandi metropoli costiere da New York a Los Angeles) premia l’idea repubblicana, ma anche la colta Francia si rende protagonista di una clamorosa protesta, quella recentissima dei giubbotti gialli, innescata dal prezzo del carburante. Dagli ideali universalistici dell’Ottantanove al prezzo della benzina lo iato è, culturalmente, incolmabile.

Lo è anche, a voler essere onesti e non solo cinici, se paragonato all’agenda del mitico ‘68 francese (anticipato ancora una volta dagli USA, a Berkeley, con le iconiche manifestazioni contro guerra e razzismo); Francia e Stati Uniti si scoprono insomma nazioni ridimensionate nel profilo delle proteste, dove figure alla Joe the Plumber (l’idraulico preso a icona di un certo qualunquismo) e l’impiegato francese che non riesce più a fare il pieno, sembrano rappresentare il nuovo avamposto dell’atlantismo che sfida il Sistema.

Trump e Macron sono, probabilmente, gli uomini più adatti e al tempo stesso i meno adatti per gestire questa complessità. Il tempo bipolare del singolo leader traslato sul bipolarismo istituzionale. Attualmente tanto la Francia quanto gli Stati Uniti vivono una fase di transizione critica che le mette di fronte allo specchio della storia. Eppure le differenze pesano, molto spesso, più delle analogie: le seconde sono in genere un orpello decorativo, le prime una scomoda fattualità. nel concreto la Dichiarazione francese dei Diritti dell’uomo e i famosi emendamenti della Costituzione Americana sono coevi, ma se i primi esprimono oggi il vessillo di un ideale astratto e intangibile (e forse un poco elitario) i secondi sono il baluardo (vedi questione armi da fuoco) sui quali molte riforme al Congresso inevitabilmente si arenano.

Come si vede l’architrave delle rivoluzioni atlantiche, è cioè la libertà, deve sopportare sollecitazioni estreme sia quando si colloca nel perimetro di uno Stato federale, sia quando il riferimento è il centralismo assoluto. E senza mai dimenticare una differenza culturale di fondo: se l’America dei Padri fondatori aveva un marcato senso religioso, la Francia rivoluzionaria era figlia di Lumi anticlericali. Questa differenza, dopo la secolarizzazione, sembra appannata ma continua a rivestire un ruolo decisivo rispetto alla percezione simbolica di cosa sia lo Stato e di cosa sia la politica o, come si diceva una volta, il bene pubblico. Se in Europa lo Stato deve sostituirsi alla massima autorità religiosa e farne laicamente le veci, negli Stati Uniti la morale intima del singolo rimane la bussola suprema.

Voltaire, abusatissimo, è tra i padri fondatori dei Lumi ma è proprio il concetto finale del suo Candide che forse ci aiuta a spiegare (a capire no) il bipolarismo esegetico dominatore dell’oggi: occorre imparare a “coltivare il proprio giardino” è un invito che può sedurre tanto i sovranisti quanto gli illuministi odierni. Per gli uni è il primato del nazionale e dell’autoctono, dei confini e dell’identità, per gli altri è la consapevolezza che non può esistere identità e libertà se non condivisa e confrontata con quella dell’Altro.

Trump, nonostante l’anagrafe, appare al momento più in sintonia coi tempi (e coi social media) rispetto al giovane Macron, ma entrambi sembrano aver smarrito la legacy rivoluzionaria, perché il giardino dei valori dell’Occidente è molto più ricco e affascinante dello spettacolo, con tutto il rispetto, di un idraulico arrabbiato alla pompa di benzina che detta l’agenda politica.

Ma è purtroppo questo il ritratto (o sarebbe meglio dire il selfie) impietoso che oggi tenta d’imporsi nelle due capitali atlantiche, muovendo non più dal Terzo Stato o dai farmer devoti, ma dalle fila di basi sociali ed elettorali troppo volubili.