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Lavoro, aziende innovative e nuove community

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“Molti miglioramenti tecnologici cambiano le regole del gioco permettendo alle imprese di riorganizzarsi e riprogettare il modo in cui lavorano. I miglioramenti nell’organizzazione e nei processi spesso rendono obsoleti non solo i lavori, ma anche le competenze. Un cassiere verrà licenziato quando una banca installa il bancomat, il servizio migliorato crea il bisogno di assumere più ingegneri di rete, non cassieri.” Il fattore tecnologico è insomma chiaramente decisivo, come del resto chiarisce già il sottotitolo del libro da cui questa citazione è tratta: “Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale”. Il titolo del saggio del 2016 di Jerry Kaplan è se possibile ancora più eloquente: “Le persone non servono”.

È in corso un fenomeno altrettanto fondamentale: le economie emergenti vanno trasformando il nostro capitalismo viene trasformato anche dalle economie emergenti, che lo contaminano con innovazioni e metodi che provenienti da quei mondi. Oltre a crescere dal punto di vista materiale, appunto grazie alla tecnologia , questi Paesi sono ormai diventati una fonte di idee competitive anche sul terreno immateriale dell’economia della cono­scenza.

Queste due grandi novità di enorme portata stanno trasformando velocemente i nostri modelli di business, le nostre organizzazioni. Di conseguenza, le competenze di cui l’economia e la società avranno bisogno in futuro dovranno essere adeguate, secondo un processo che parte dall’istruzione di base fino a quella professionale.

Quando si parla di organizzazione del lavoro non si possono ignorare gli ambienti in cui le persone svolgono la loro vita lavorativa: anche questo ambito è interessato da grandi trasformazioni. Alcune aziende più di altre stanno tentando di adeguarsi a una modalità lavorativa che grazie alla tecnologia ha subito un cambiamento irreversibile.  Ma in molti casi tali dinamiche non sono state ancora comprese né in termini di cultura organizzativa né in termini di offerta di servizi, mentre i nuovi modelli di mercato stanno già funzionando e stanno cambiando le nostre abitudini di consumatori e di cittadini –  vedi tutti i fenomeni legati all’e-commerce o ad aziende come Uber, Airbnb, ecc.

Nel suo libro del 2012 “Atelier: i luoghi del pensiero e della creazione”, la scrittrice Elisabetta Orsini ci immerge in un ambiente d’eccezione, quello dell’artista, in cui assistiamo proprio alla fusione tra l’uomo e il suo luogo di lavoro. “L’atelier costituisce una singolare sintesi fra il fuori e il dentro, fra il mentale e il corporeo. L’artista quando lavora nel suo studio permane dentro se stesso e si esilia dal mondo, escludendolo, ma ciò nonostante e proprio grazie al suo lavoro nell’atelier, dimentica se stesso e la sua individualità per divenire parte della sua opera e del suo spazio di creazione. […] Finché l’artista continua a lavorarvi lo spazio è il suo corpo, (…) l’habitat esterno riflette quello interiore e prolunga il corpo dell’artista nel corpo dello studio.”

Al giorno d’oggi, non c’è impresa che non sia alla ricerca di strumenti per integrare al meglio gli obiettivi individuali con quelli aziendali.

Le radicali trasformazioni in atto, inevitabilmente spingono le organizzazioni ad ampliare la loro concezione di lavoro verso nuovi orizzonti. Non sono tutti esperimenti riusciti, ma la direzione è segnata: la destrutturazione spazio- temporale è ormai un dato acquisito grazie a “device” che ci permettono, connessi alla rete, di lavorare in qualsiasi luogo e nei tempi e modi che desideriamo – basta come si dice, raggiungere il risultato richiesto.

Emulando casi di successo, alcune aziende  stanno appunto tentando di costruire ambienti che facilitino sempre di più il processo di identità dell’individuo con il proprio lavoro. Le grandi multinazionali della tecnologia si sono specializzate in una versione particolare di questo adattamento: ne sono un esempio il Googleplex, quartier generale di Google, l’Apple Campus (in fase di costruzione) a forma di astronave, e la nuova sede di Facebook, (con un immenso spazio in comune al pianterreno dove i dipendenti possono lavorare insieme, piccoli spazi per lavori privati, una sala conferenze con all’interno una vasca piena di palline per rilassare e divertire i dipendenti e un’area verde di 9 km sul tetto con oltre 400 alberi).

Googleplex, che ho avuto l’occasione di visitare più volte, è davvero la “fabbrica più immateriale del mondo” – come amano ricordare i suoi creatori. Eppure la dimensione “materiale” è rilevante per la qualità del lavoro: il complesso è arredato in modo originale con lampade colorate, giganteschi palloni di gomma, divani rossi e numerosi servizi (ambulatori medici, bar, palestra, piscina, campo da beach volley). Gli uffici, le caffetterie e gli spazi in genere sono progettati per favorire le interazioni tra i Googlers e per parlare di lavoro come se si stesse giocando.

Interessante è leggere il rapporto di Jane McConnell “Digital Workplace Trends 2013” per scoprire che le aziende che si muovono verso un digital workplace stanno aumentando, ma in realtà solo il 25% delle organizzazioni sta attuando strategicamente questo concetto. La conoscenza delle nuove modalità di lavoro è ancora scarsa in alcuni settori, e la sfida principale è  quella di integrare le nuove opportunità comunicative e produttive all’interno dei processi aziendali. In particolare, la creazione di un “sense of community” fra le persone nell’ambiente di lavoro, sembra decisiva: altrimenti, si continuerà a subire queste trasformazioni anziché essere protagonista e agente del cambiamento, adattando concetti generali alle proprie specifiche esigenze.

In questo è stato di straordinaria lungimiranza l’insegnamento di Adriano Olivetti, che  si traduce in “Impresa come ‘comunità di intenti e interessi’. Impresa come ‘espressione del vivere’ cui prendono parte soggetti diversi (lavoratori, investitori, clienti, territorio, fornitori) ciascuno portatore di particolari interessi, che però cooperano per conseguire una serie di obiettivi comuni che vanno ben oltre i loro interessi individuali. Impresa concepita come entità storico sociale in costante relazione con l’ambiente fisico, sociale e culturale che la circonda, verso cui assume responsabilità molto al di là del conseguimento del profitto.”

Ancora in questo solco, seppure in un contesto profondamente mutato, si può interpretare un’esperienza come quella della Leaf Community del Gruppo Loccioni (azienda italiana che opera nello sviluppo di sistemi automatici di misura e controllo), basata sulla forte volontà di ridare valore alla dimensione di essere “naturali” cioè in armonia con l’ecosistema. In questa logica, con alle spalle una storia quarantennale di attività nelle tecnologie,  il Gruppo basato in provincia di Ancona, insieme ad un network di imprese di eccellenza, definisce e costruisce la prima comunità integrata completamente ecosostenibile in Italia.

Passando a un colosso internazionale di marca americana, Starbucks ha creato una community di ascolto e partecipazione dei clienti e si differenzia dai suoi concorrenti per un modello che si esprime in: condividi, vota, discuti le proposte, e guardale realizzate.

Being Girl” è la community della Procter&Gamble che dal 2000 risponde alle tante domande difficili che l’età prepubere comporta, attraverso articoli, interviste, video, rubriche. Come una sorella maggiore digitale, la comunità consente una discussione aperta e la possibilità di chiedere ad esperti una consulenza sui diversi argomenti. Questa community è diffusa in 46 Paesi del mondo e la sua forza sta proprio nel confronto e nella condivisione fra milioni di ragazze. Il successo è nella fiducia che queste persone ripongono nel marchio, che per loro si identifica concretamente con una condivisione costruttiva di esperienze e pareri.

Con oltre 2,5 milioni di soci impegnati, il SAP Community Network – che riunisce gli utilizzatori di uno dei più diffusi software aziendali – è stato definito da Richard Adler dell’Aspen Institute “il maggior esempio di utilizzo dei social media da parte di un’azienda fino ad oggi”. I membri della comunità vanno da grandi multinazionali, come Disney e Bose, ad innumerevoli piccole e medie imprese, tutti in grado di connettersi e trarne reciprocamente beneficio. Il vero successo della comunità sta nel fatto che molti membri sono impegnati e disposti a contribuire con tempo e competenze per far crescere la forza della rete. Il beneficio per tutti è quello di sviluppare relazioni e idee utili a far evolvere il loro modello di business e i relativi strumenti operativi.

Un caso assai diverso, ma ugualmente interessante, è quello della community della Playstation, che ha fatto un lavoro eccezionale fornendo uno spazio online ai giocatori. Gli utenti possono suddividere per settori i loro interessi specifici, sia che si tratti di gioco, di altri interessi vari, o del tipo di supporto tecnico di cui hanno bisogno. La comunità inoltre è strettamente legata ai canali social media della Playstation, come YouTube e Twitter. Gli utenti sono anche in grado di provare il contenuto generato sia dal marchio che dagli utenti stessi, perché uno dei punti di forza della comunità è proprio il metodo ”user-generated content creation” che ha dato vita a nuove funzionalità sulla console.

Le community che spesso nascono solamente per sviluppare il tema dell’assistenza/fidelizzazione del cliente o del fornitore, in molti casi beneficiano di una  sorta di scatto evolutivo all’interno di un processo che l’azienda mette in atto per poter avere successo in un modo molto differente rispetto al passato. Le dinamiche che posso essere innescate, tuttavia, si spingono spesso oltre le intenzioni originarie per creare ulteriori evoluzioni – a volte inaspettate e positive.