L’Asia divisa in due
A tre mesi dall’inizio dell’epidemia, l’Asia oggi è divisa in due: da un lato i Paesi che, più o meno a buon diritto, ritengono di avere superato la fase più delicata e si preoccupano semmai di non “importare” persone affette dal virus Covid-19. Dall’altro quelli che cercano di bloccare l’arrivo della prima ondata, alla quale sarebbero finora miracolosamente sfuggiti. Un po’ a metà strada si colloca il Giappone, che denuncia un numero di infettati relativamente alto ma senza una curva in crescita e che sembra accontentarsi di mezze misure, confidando sull’efficienza del suo sistema sanitario e nella speranza, assai fievole dopo il G7 telematico del 16 marzo, di salvare le Olimpiadi.
Il primo gruppo è composto da Cina, Taiwan e Corea del Sud. In Cina la visita del presidente Xi Jinping a Wuhan il 10 marzo ha contrassegnato, con ridondante ufficialità, l’inversione di tendenza. Il messaggio era preciso: molti problemi ancora esistono ma la situazione, almeno dal punto di vista sanitario, è sotto controllo. Poi i dati – quelli diffusi – hanno dato ragione alle autorità a dimostrazione del fatto che la “guerra di popolo” combattuta da tutta la Nazione è stata vinta. Merito di disciplina e abnegazione che – si fa notare in Cina non meno che a Taipei e Seul – informano il senso comunitario dei popoli asiatici e fanno difetto invece agli occidentali. Merito anche, ça va sans dire, di una guida energica, sicura, responsabile. Le nuove infezioni giornaliere sono scese quasi a zero. Il problema è piuttosto la crescita delle infezioni importate. Il 16 marzo quelle intercettate nel solo aeroporto di Pechino sono state 10 e già i malati provenienti dall’estero individuati sono più di 100.
Come contromisura la Cina non ha chiuso le frontiere ma in un primo momento ha imposto che chi arrivava dall’estero, straniero o cinese che fosse, si isolasse in quarantena a casa per 14 giorni a parte chi ne è esentato per “particolari circostanze”; poi, dal 16 marzo, ha ordinato che i nuovi arrivati eseguano la quarantena in apposite strutture, per giunta pagandone il costo, e che le loro condizioni di salute vengano monitorate per tutto il soggiorno. Massima libertà, invece, alle attività economiche, tanto che il primo ministro Li Keqiang ha annunciato che si terrà regolarmente la Fiera internazionale di Canton prevista per metà aprile.
Anche la Corea del Sud, che un paio di settimane fa sembrava nel caos, canta ora vittoria e già pensa alle misure di rilancio economico e al sostegno delle imprese, partendo dalla espansione della disponibilità di dollari e facendo ricorso alle riserve in valuta pregiata. L’idea è ripetere lo schema seguito con successo dopo la crisi finanziaria del 2008. Il numero complessivo di infettati è di 8.300 ma dal 14 marzo la loro crescita giornaliera è bassa, sempre meno di 100. La battaglia non è stata ancora vinta, ma si è capito come ci si deve muovere. E ci si lamenta del fatto che continuano ad aumentare (sono ben 150) i Paesi che non accettano l’ingresso di sudcoreani.
Ne sono derivati piccoli e grandi incidenti diplomatici, con la Thailandia, col Vietnam e soprattutto con il Giappone. L’imminenza delle elezioni sudcoreane, previste per il 15 aprile, ha inevitabilmente indotto la maggioranza a prese di posizione propagandistiche. L’opposizione conservatrice, di rimando, non si stanca di rinfacciare al governo di non avere chiuso subito le frontiere con la Cina. In ogni caso ora la maggiore preoccupazione viene dai pericoli di reimportazione dell’epidemia, dato che gli infettati provenienti dall’estero superano quelli interni. Il 16 marzo è scattata la quarantena obbligatori per tutti coloro che provengono dall’Europa in aggiunta alla misura precedentemente adottata nei confronti dei viaggiatori provenienti da Cina, Hong Kong, Macao, Giappone e Iran, ma è scontato che a breve la misura verrà estesa a tutto il mondo. Soprattutto gli Stati Uniti per l’iniziale negazionismo dall’Amministrazione Trump sono considerati il focolaio di infezione potenzialmente più pericoloso.
Chi va in quarantena deve notificare l’indirizzo, dare il numero del cellulare e inserirvi una app che consente a un sistema centralizzato il controllo dei suoi spostamenti e del suo stato di salute. Continuano ad essere in vigore le misure di prevenzione che comunque si limitano a raccomandare la mascherina, la distanza di sicurezza ed evitare gli assembramenti. Particolare attenzione è rivolta alle sette religiose, perché a provocare il boom di infezioni è stata una setta cristiana, la Shincheonji, usa a riunioni in spazi ristretti di un gran numero di fedeli, alcuni dei quali si erano recati proprio a Wuhan.
Le autorità, a Seul come a Taipei, dove in realtà il Covid 19 non è mai arrivato visto che in tutta Taiwan si segnalano solo una cinquantina di casi, vantano i meriti della procedura operativa messa in atto, elaborata facendo tesoro della crisi della SARS del 2002/3 e della MERS. I punti chiave della procedura sudcoreana sono: aggressiva e trasparente campagna di informazione anche per evitare fake news; grande quantità di test: 210mila contro i circa 20mila del Giappone; quarantena basata sulla pubblica cooperazione; sistema sanitario efficiente, disinfezione e decontaminazione dell’ambiente. Sembra soprattutto che sia stato vincente un sistema web che diffondeva gli spostamenti di ogni nuovo “positivo” (per es. chiese, ristoranti, negozi) e consentiva a chiunque di controllare se rischiava di essere stato infettato, e quindi di ricorrere al test. Test peraltro fattibile facilmente, anche col sistema drive in.
Situazione analoga a Taiwan (efficienti controlli e pochi casi) è quella di Hong Kong, dove proprio negli ultimi giorni è tornato l’allarme per l’aumento considerevole dei casi importati (14 nella sola giornata del 18 marzo). Si tratta per lo più di cittadini dell’isola rientrati dall’Europa. E’ stata così imposta una quarantena obbligatoria per tutti coloro che entrano nel Paese e che è stata ora allargata anche a chi era rientrato prima che questa misura venisse adottata.
In Giappone, 800 infettati e 32 morti, il premier Abe Shinzo si è affrettato fin dall’inizio della crisi a chiudere le scuole, nella maggior parte delle quali la didattica era sospesa per le vacanze primaverili. La consegna dei diplomi, in questi giorni, è stata fatta con pubbliche cerimonie seppure con certe precauzioni. Il primo aprile comincerà il nuovo anno scolastico e per ora non si parla di rinvii. In linea di massima sono stati cancellati o sospesi eventi che presuppongano affollamento. Nello sport spesso si va avanti a porte chiuse come nel caso del Torneo imperiale di Sumo in corso a Osaka, considerata il maggiore focolaio interno. L’arcidiocesi cattolica di Tokyo ha sospeso le messe e l’Associazione giapponese dei musulmani la preghiera del venerdì in moschea.
Le restrizioni personali sono in realtà poche e la normalità è turbata più che altro dalla corsa all’accaparramento di alcuni generi di prima necessità e dalla carenza di mascherine. Ma ora incombe lo hanami, la passeggiata/scampagnata per godere della fioritura dei ciliegi, quest’anno anticipata per le alte temperature. E’ l’evento di massa per eccellenza ma è anche quanto di più irrinunciabile per i giapponesi. Come regolamentarlo è una scelta delicata.
Abe si muove con cautela. La quarantena è imposta fino ad oggi solo a chi proviene da Cina, Corea, Iran e parte dell’Italia settentrionale: probabile ampliamento di Paesi e aree italiane nei prossimi giorni. Dopo avere cercato di salvare la visita che Xi Jinping avrebbe dovuto compiere a Tokyo in aprile, il premier ha dovuto accettarne il rinvio. La settimana scorsa ha poi fatto approvare una legge che gli consente di dichiarare lo stato di emergenza e dunque di intervenire sulle libertà individuali dei cittadini (per esempio obbligandoli a sottoporsi ai test o a restare a casa), ma per ora Abe nega di volerne usufruire. Anche sulle Olimpiadi, se insiste a dichiarare che restano in programma, è per evitare critiche interne e nella consapevolezza che il rinvio dei Giochi costerebbe al Paese – ha calcolato la Nikko Sicurity Inc – una riduzione della crescita del PIL dell’1,4%. I profitti per tutto il sistema industriale a causa della riduzione del turismo e dei consumi, sarebbe del 24% rispetto al 2019.
La miscela delle due crisi – Covid 19 più rinvio delle Olimpiadi – sarebbe esplosiva. E infatti a Tokyo si sta meditando di cancellare l’aumento dell’IVA dall’8 al 10% attuato in ottobre. Nel contempo sono stati varati, come un po’ ovunque, sostanziosi pacchetti di aiuti alle imprese e di sostegno alle famiglie per 6/7 miliardi di dollari.
Cominciano solo ora ad adottare serie misure preventive molti Paesi del Sud Est asiatico. Una svolta si è avuta verso metà mese, quando si è registrata una crescita dei casi, per lo più strisciante e al livello di poche unità al giorno, ma anche talvolta improvvisa come in Malaysia.
In molti sigillano le frontiere in entrate o, come il Brunei, in entrata e in uscita, chiudono le scuole e vietano riunioni di massa, sebbene qualche difficoltà resti nell’impedire gli assembramenti per motivi religiosi: il neo primo ministro malaysiano Muhiddin Yassin, ad esempio, ha preferito lasciare la decisione sulla chiusura delle moschee ai singoli governatori. In Cambogia, dove peraltro ora gira voce che tra gli ammalati ci sia lo stesso premier Hun Sen, reduce da un viaggio in Cina, si è proceduto come negli altri Paesi, con la ragguardevole eccezione di lasciare libera circolazione con la Cina. Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte ha reagito all’aumento dei casi alla sua solita eclatante maniera. Ha sigillato Manila proibendo di entrarvi e uscirne e proclamando il coprifuoco notturno.