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L’Argentina, l’instabilità politica cronica e le opportunità da non perdere

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Paese dalle enormi potenzialità geopolitiche, l’Argentina si conferma vittima delle storture inscritte nel suo DNA politico e socioeconomico: Buenos Aires rimane instabile all’interno e dipendente dall’estero per il finanziamento del suo debito sovrano. Lo attestano due eventi occorsi nelle ultime settimane.

Una strada di Buenos Aires

 

L’attentato a Cristina Kirchner e l’accordo con il FMI

Primo, il tentato omicidio di Cristina Kirchner, attuale vicepresidente e capo dell’ala oltranzista del peronismo, al centro di un procedimento penale che la vede imputata per malversazione, emblema della “grieta” nazionale, frattura che dal 2007 vede il paese scisso in kirchneristi e anti-kirchneristi e che si iscrive in una tradizione di polarizzazione spesso sfociata in violenza. Il secondo evento è la nomina a inizio agosto di Sergio Massa a “superministro” dell’Economia (gestirà anche politiche agricole e produttive) incaricato di tenere a galla le finanze – e dunque a bada le piazze – del paese, permettendo l’implementazione dell’accordo con il Fondo Monetario Internazionale sulla ristrutturazione del debito faticosamente raggiunto a fine febbraio e avversato dall’ala kirchnerista.

Attuale presidente della Camera e terza figura di riferimento del Frente de Todos, (coalizione progressista che aggruppa kirchneristi e peronisti, oltre a gran parte delle compagini di sinistra) Massa è stato il terzo ad assumere la guida del dicastero dell’Economia nel giro di un mese, dopo le dimissioni dei due ministri tecnici Guzmán e Batakis (il primo afferente a Fernández, il secondo a Kirchner). Il continuo alternarsi di ministri è dimostrazione plastica che nessun politico di punta, specie dopo la batosta rimediata ad opera della coalizione di centro-destra all’opposizione, Juntos por el Cambio alle elezioni di metà mandato del 2021 e mentre si avvicinano le elezioni del 2023, osa assumersi la responsabilità delle misure strutturali richieste da organismi e investitori internazionali ma decisamente impopolari, soprattutto in un quadro di contributi pubblici il quale prevede, ad esempio, sussidi all’energia che – se espunti – farebbero schizzare le bollette energetiche.

Massa, in questo senso, è probabilmente l’ultima carta da giocare per dar modo all’esecutivo di presentarsi alle prossime elezioni mitigando gli effetti della crisi economica interna, cui si aggiungono quelli della pandemia prima e della guerra in Ucraina poi. Mentre viene contestato l’accordo con l’FMI, che peraltro prevede condizionalità più lasche di quelle imposte ad altri paesi, l’inflazione ha superato il 60% (secondo gli economisti raggiungerà il 90% a fine anno), le riserve di valuta estera hanno toccato il minimo storico e il valore della valuta nazionale è in caduta libera.

Alberto Fernández, peronista “moderato” eletto presidente dell’Argentina nel 2019, aveva promesso un chiaro disegno di rottura rispetto alla precedente amministrazione di Mauricio Macri: amico personale di Donald Trump, Macri era autore dell’accordo con l’FMI del 2018, definito un “cappio al collo” dai peronisti, votato all’ultraliberismo e all’allineamento agli Stati Uniti su questioni regionali cruciali quali l’isolamento del Venezuela di Maduro. Ma la svolta è stata solo parziale.

Il presidente argentino Alberto Fernández e il super-ministro Sergio Massa.

 

Ponti con Washington

Il bagno di realtà che il suo governo ha dovuto compiere, malgrado l’inversione a U su temi quali i rapporti con Venezuela e Bolivia (dal pieno ripristino delle relazioni diplomatiche con il paese guidato da Nicolás Maduro alla lettera di scuse all’omologo boliviano Luis Arce per il ruolo dell’esecutivo di Macri nel golpe che ha deposto Evo Morales a fine 2019), dimostra quanto l’Argentina sia schiava del debito ereditato dalle precedenti amministrazioni. Ciò spinge Buenos Aires a non alienarsi l’FMI, organismo segnato dal peso specifico di Washington. Non a caso, nonostante la retorica incendiaria, sfoggiata anche in occasione del Vertice delle Americhe di giugno, quando Fernández non ha lesinato critiche a Joe Biden per il mancato invito di Venezuela, Cuba e Nicaragua, l’Argentina si è guardata dal rompere i ponti con Washington; per di più, gli Stati Uniti sono il terzo partner commerciale del paese dopo Brasile e Cina.

 

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Negli ultimi mesi si sono infatti susseguiti incontri negli Stati Uniti tra funzionari americani e argentini, tra cui quello di Massa di inizio settembre, che dovrebbero essere sublimati nell’annunciato meeting tra Biden e Fernández, posticipato a causa della positività al Covid-19 del presidente statunitense. Incontri guarda caso incentrati, oltre che sul negoziato in ambito FMI, sulla potenziale collaborazione bilaterale nei comparti strategici, compresi quelli al centro della proiezione cinese.

Dalla prospettiva nordamericana, l’America Latina continua infatti a rivestire il ruolo di cortile di casa la cui disponibilità assicura alla superpotenza la possibilità di proiettare influenza all’estero e dunque di preservare il primato mondiale. Condizione che potrebbe essere alterata dalla penetrazione nella regione di potenze ostili come la Federazione Russa e soprattutto la Repubblica Popolare Cinese.

 

La carta russo-cinese

Eppure, l’Argentina di Fernández (e Kirchner, anima del peronismo e contraltare del dualismo che ha frenato l’azione governativa) ha approfondito le relazioni con Cina e Russia. La Repubblica Popolare, in particolare, negli ultimi anni ha sopravanzato Washington come partner commerciale del paese sudamericano ed è divenuta tra i suoi principali investitori esteri, concentrando la propria presenza in comparti strategici tra cui infrastrutture, miniere, energia nucleare, spazio, telecomunicazioni. Mentre a Mosca, dov’era in visita nei giorni precedenti l’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte delle forze russe, Fernández ha dichiarato che l’Argentina intende costituire la “porta d’ingresso” della Federazione in Sud America. Subito dopo si è recato nella capitale cinese, dove ha presenziato all’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali (unico leader di uno dei paesi membri del G20), ha aderito ufficialmente alle “Nuove vie della seta” (che dovrebbero portare in dote progetti valevoli 24 miliardi) e si è assicurato l’ampliamento dello swap agreement (da 18,5 a 21,5 miliardi).

Inoltre, a marzo è stata assegnata alla Cina la costruzione della quarta centrale nucleare (Atucha III) del paese; senza contare la base spaziale in Patagonia costruita dai cinesi e in comodato a Pechino per cinquant’anni (unica in Sud America), che gli americani temono possa essere usata a fini spionistici. Alla luce delle strutturali costrizioni economico-finanziarie, Fernández mira dunque ad acquisire quanto più margine negoziale possibile nei confronti degli Usa e di organismi a trazione americana quali FMI, Banca Interamericana di Sviluppo e Banca Mondiale, e al contempo ampliare il novero dei partner internazionali nel segno della Realpolitik.

Analogamente, le relazioni col Brasile di Jair Bolsonaro – che ha definito Fernández “un comunista” contro cui “non c’è vaccino” – stanno timidamente riprendendosi dopo un biennio al vetriolo. Non solo per questioni ideologiche e per i solidi rapporti tra il peronismo e Lula da Silva, in vantaggio nei sondaggi per essere rieletto Presidente del Brasile. Ma anche per la diatriba in seno al Mercosur, bloccato da uno stallo sulla sua “flessibilizzazione” che vede opposte proprio Buenos Aires e Brasilia (insieme a Montevideo), tradizionali competitor economici.

 

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Negli ultimi mesi, tuttavia, le due principali economie sudamericane stanno cercando di mettere da parte le divergenze ideologiche – che pure le hanno portate a tenere un atteggiamento simile, cioè ambiguo (condannando l’aggressione all’Ucraina senza tuttavia partecipare alle sanzioni contro la Russia), nei riguardi di Mosca dopo il 24 febbraio – consapevoli dell’interdipendenza che le lega e che ne condiziona l’economia, specie a seguito delle crisi indotte o esacerbate dall’aggressione delle Russia all’Ucraina, a partire dagli ambiti energetico e alimentare. Da qui, per esempio, il sostegno di Brasilia all’ingresso di Buenos Aires nei Brics. Come ha ammesso Fernández, il suo paese semplicemente non può permettersi di avere una “cattiva relazione” con il vicino.

 

Finestra di opportunità

Insomma, l’Argentina è di fronte all’ennesima finestra di opportunità. La geografia la scherma da potenziali aggressioni su buona parte dei propri confini, le assicura abbondanti risorse naturali e la possibilità di movimentare agilmente le merci verso l’Oceano Atlantico tramite il sistema fluviale nazionale. Ad esempio, l’Argentina è dotata delle seconde riserve al mondo di litio, è il terzo produttore mondiale di grano e il secondo di soia.

Se riuscisse a sviluppare le ingenti risorse di cui dispone, anche sul piano energetico – a partire per esempio dal giacimento di Vaca Muerta, secondo di shale gas al mondo e quarto di shale oil, attualmente lungi dall’essere messo a frutto – potrebbe elevare la propria caratura geopolitica, sfruttando il corteggiamento degli Stati Uniti e quello dei suoi rivali in una fase propedeutica al riassetto degli equilibri strategici globali.

L’alternativa è continuare a essere preda dell’instabilità ciclica che ne contraddistingue la storia, esacerbata dalle ramificazioni sudamericane della partita tra Washington e Pechino, sempre più attiva nel cortile di casa della superpotenza.