L’America Latina alla prova della pandemia
Ci mancava solo il coronavirus per l’America Latina, continente dove i sistemi sanitari pubblici sono già di loro ovunque precari. Al 28 aprile il paese con il maggior numero di casi è il Brasile, con oltre 4603 decessi, seguito dal Messico, 1434 vittime, Perù (782), Ecuador (663) e Colombia (253). A seconda dei tempi in cui è esplosa in ogni nazione la pandemia, il trend è destinato a crescere, anche perché in Sudamerica ci si sta avviando verso l’inverno, la stagione a detta di molti esperti più pericolosa per la diffusione e la letalità del Covid-19.
Il coronavirus si va dunque ad inserire su un contesto sanitario molto fragile, con problemi cronici di epidemie ricorrenti irrisolti da decenni. Basti pensare alla dengue, una malattia che può essere mortale e che si trasmette attraverso la stessa zanzara che trasmette anche febbre gialla e zika. Solo nei primi tre mesi del 2020 sono stati oltre mezzo milione i casi accertati di dengue, 60mila nella metropoli brasiliana di San Paolo, con centinaia di morti in Paraguay e Brasile. Non c’è ancora un vaccino che funzioni, nonostante questa epidemia sia mortale e abbia colpito oltre tre milioni di latinoamericani nel 2019 secondo le statistiche ufficiali dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Mentre “Big Pharma” (le grandi società dei vaccini che forniscono l’85% dei fondi dell’OMS) si concentra spasmodicamente per trovare una cura del coronavirus che ha colpito soprattutto l’Occidente, e visto la sanità pubblica è “un mezzo disastro” un po’ ovunque, per il Covid 19 in Sudamerica ogni stato fa a modo suo.
Con 55mila letti di terapia intensiva, undici volte più dell’Italia, il Brasile è la più attrezzata di tutte le nazioni latinoamericane per affrontare l’emergenza. Qui, nonostante le follie del presidente Jair Bolsonaro che in piena epidemia ha mandato via il ministro della Sanità, Henrique Mandetta (un luminare della medicina affiancato da un’ottima equipe di esperti in epidemie), sono stati potenziati i letti di terapia intensiva e triplicate le produzioni di mascherine, respiratori, camici e guanti. Una produzione interna mai come oggi strategica. Inoltre, essendo il Brasile uno stato federale ed avendo il Parlamento votato subito la “calamità da Covid-19”, il paese ha tolto il tetto di spesa ed è dunque pronto a ogni esborso necessario a contrastare gli effetti della pandemia, a prescindere dagli sproloqui di Bolsonaro, sempre più impopolare tra la popolazione dopo avere costretto alle dimissioni anche il ministro della Giustizia Sergio Moro, il giudice simbolo della lotta contro la corruzione.
A San Paolo (con Rio la città più colpita dal virus) è stata sancita a marzo dal governatore João Doria la quarantena prorogabile sino a fine emergenza che, si prevede, durerà ancora mesi. Chiusi tutti gli stabilimenti che “non forniscono servizi o prodotti essenziali” e molti stadi di calcio trasformati in ospedali da campo. Agli anziani che devono vaccinarsi contro l’influenza tradizionale a San Paolo è dato appuntamento via WhatsApp e l’iniezione è fatta all’aperto. Obiettivo ovunque è garantire la distanza, che il ministero della Sanità brasiliano ha fissato in due metri, per evitare il contagio. Nelle favelas di Rio e San Paolo i narcos e le milizie hanno addirittura imposto il coprifuoco e proibito i balli funk mentre le associazioni comunitarie si sono mobilitate per contenere il “maledetto coronavirus”.
Storicamente il problema in America Latina è la grande differenza tra sanità pubblica, in molti casi inesistente o disastrosa, e quella privata, in paesi come il Brasile di eccellenza. Inoltre, solo un 15% della popolazione, quella più ricca, può permettersi assicurazioni private che costano in media centinaia di euro al mese. “La soluzione è integrare il sistema sanitario nazionale con quello privato”, diceva Mandetta prima di essere silurato. Nessuno sa se il nuovo ministro della Sanità scelto da Bolsonaro, Nelson Teich, continuerà con questa politica.
Un discorso a parte, poi, deve essere fatto per gli indios dell’Amazzonia che vivono in zone sperdute e sovente controllate da latifondisti. Qui per ora ad uccidere di più – conferma il CIMI, il Consiglio Indigenista Missionario – sono i delitti politici, contro i leader locali, l’ultimo nella regione del Maranhão. Se l’epidemia dovesse entrare nelle riserve però sarebbe un dramma, perché i posti letto di terapia intensiva sono ancora troppo pochi. Appena 35 nella riserva del popolo Guaraní Kaiowá.
Differente e altrettanto grave la situazione in Ecuador. Tragico il caso della città portuaria ecuadoriana di Guayaquil dove già a fine marzo i morti causati dall’epidemia non riuscivano neanche ad arrivare in obitorio, lasciati per giorni nelle case e a volte per strada. Un orrore che accade in una metropoli da 2,3 milioni di abitanti, dove molti miserabili vivono in case di bambù.
In Nicaragua, invece, il presidente dittatore Daniel Ortega, ha risolto il problema negando per decreto l’esistenza del coronavirus: al 28 aprile, il conto ufficiale delle vittime dice 3. Come? Semplice, tutti i morti per il Covid-19, moltissimi in realtà, sono stati registrati come vittime di polmonite, aumentati di oltre il 1000 per cento rispetto al 2019 nello stesso periodo. Una strategia criminale imitata dal Venezuela del dittatore Nicolás Maduro, che fa addirittura arrestare i medici che denunciano la situazione disastrosa degli ospedali, al collasso già prima del Covid-19 per la carestia che sconvolge il paese.
Cuba, paese di grande tradizione medica e che ha esportato dottori in varie parti del mondo tra cui l’Italia, ha invece subito informato correttamente la popolazione, infischiandosene della confusione creata dall’OMS e spiegando a tutti come farsi in casa una mascherina lavabile (stessa cosa fatta dal Brasile). Inoltre L’Avana ha imposto l’obbligo per chi esce di casa di indossare una mascherina, pena l’arresto.
Drammatica la situazione in Messico, dove il presidente Andrés Manuel López Obrador (per tutti AMLO), sino a pochi giorni fa stringeva le mani di tutti, compresa la madre del boss della droga Chapo Guzmán, e invitava la gente ad abbracciarsi. Il corona non uccide i poveri, diceva, state tranquilli.
Di tutti i paesi latinoamericani, infine, l’unico ad avere adottato la chiusura con multe all’italiana è l’Argentina kirchnerista di Alberto Fernández. Dato che i divieti sono arrivati col giusto anticipo, i morti ufficiali sono al 28 aprile “appena” duecento. A Buenos Aires il vero problema è il default finanziario, di fatto già una realtà sul piano interno, che impedirà alle autorità di continuare ancora a lungo il lockdown totale, a meno di non volere vedere la gente morire di fame invece che di coronavirus.
Infine, oltre ai problemi sanitari, il coronavirus sta avendo conseguenze molto gravi sia dal punto di vista economico (come in tutto il mondo del resto) che da quello delle libertà fondamentali individuali. Come denunciato dal Nobel per la Letteratura, Mario Vargas Llosa, infatti, “con l’epidemia il rischio dell’autoritarismo aumenta in modo vertiginoso”. Un rischio credibile, soprattutto dove le procedure democratiche non sono radicate, cioè quasi ovunque nel continente.
I casi sono innumerevoli, ma lo si vede soprattutto nei paesi dove l’opposizione era già prima oppressa, come in Nicaragua, Cuba e Venezuela. Si è verificato poi un rafforzamento senza precedenti della censura e del controllo delle reti internet come, ad esempio, in Argentina. Come altrove nel mondo, il coronavirus si rivela un formidabile stress-test per la tenuta e la verifica di tutti i sistemi nazionali.