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L’America alla vigilia del voto

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Alle ultime battute della campagna presidenziale americana, i due sfidanti non sembrano più in grado di dare grandi scossoni. Anche perché quelli che ci sono stati finora bastano e avanzano: il ritiro di Biden, la nomina di Harris, l’attentato a Trump. Ma ora, in un’atmosfera di tensione crescente, con milioni di persone che hanno già votato per posta, l’inerzia dei candidati sembra inarrestabile: questo significa che il vincitore lo sarà di un soffio, e che la notte elettorale sarà molto lunga – e non è affatto detto che si tratti di una sola notte.

Trump in veste di cameriere a un drive-in Mc Donald’s in Pennsylvania

 

Come si vince

Partiamo da un dato: Kamala Harris è in testa nella media dei sondaggi: +1,8%. Un dato che però non conta nulla: i sondaggi nazionali stimano il numero di elettori americani che voterebbe per l’uno o l’altro candidato, ma non è così che si arriva alla Casa Bianca. Conta chi vince nel numero sufficiente di Stati, singolarmente: che li vinca per 99 voti a 1, o per 51 a 49, non fa differenza. Non fa dunque una gran differenza il totale assoluto dei voti. Nel 2016, Hillary Clinton ottenne comunque più voti, globalmente, del rivale: quasi tre milioni in più, un dato spesso dimenticato da chi liquida quell’elezione come il trionfo di Trump. Ma perse, perché il Repubblicano conquistò più Stati decisivi: e gli bastarono soltanto 80mila voti, divisi tra Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.

Quali sono gli Stati in bilico stavolta, da osservare per capire chi vince? Di nuovo Pennsylvania, Michigan e Wisconsin (nel Nord-Est ex industriale del Paese). Poi, nel Sud, Georgia e North Carolina. E Nevada e Arizona, nella “cintura del sole” sud-occidentale. Qualcuno ricorderà l’elezione del 2000, che George W. Bush vinse contro Al Gore per 537 voti in più raccolti in Florida; ma ci volle la Corte Suprema per stabilirlo, con una decisione molto controversa, che Gore non contestò. La Florida: uno swing state classico che ormai non lo è più, finito com’è nelle mani dei Repubblicani, vera e propria “sede imperiale” trumpiana, con la residenza di Mar-A-Lago, a Palm Beach. Lo stesso vale per l’ex seguitissimo Ohio.

Nonostante queste considerazioni, un altro dato importante emerge dai sondaggi nazionali: il vantaggio di Harris è in calo. Aveva superato il 3% nelle settimane di agosto, le successive alla sua nomina, ma ora l’effetto novità è svanito. E si tratta di un’evoluzione preoccupante per la candidata democratica, le cui speranze di vittoria si basano su un’alta partecipazione degli elettori. Forse paga l’arrivo tardivo su una ribalta di cui non è davvero esperta, senza avere il tempo per farci la mano. Forse paga il mancato passaggio attraverso le primarie democratiche, meccanismo che le avrebbe consentito una vicinanza e una comunanza con gli elettori che ora le manca. Forse paga l’immagine di persona troppo legata all’amministrazione Biden, cioè una presidenza bocciata dall’opinione pubblica su punti importanti, e che non consente all’attuale Vicepresidente di incarnare quel cambiamento che gli elettori vorrebbero. Perché una cosa è certa, in effetti: se gli americani potessero scegliere, voterebbero per qualcun altro. Vorrebbero un’altra contesa.

Il candidato vicepresidente democratico Tim Walz con l’ex presidente Barack Obama a un evento elettorale in Wisconsin

 

Dilemmi sociali ed economici

Mentre ci avviciniamo al voto, va registrato un dato generale, cioè che Trump è riuscito a portare la campagna elettorale su due temi che lo favoriscono: immigrazione ed economia. Due grandi temi unificanti per la propria narrazione, di cui i Democratici non dispongono. Sull’immigrazione, la situazione alla frontiera meridionale con il Messico è tesa da tempo, le polemiche infuriano nella maniera più aspra sul numero e la “natura” dei clandestini che entrano – criminali da deportare in massa, ha sintetizzato Trump, che martella contro di loro senza requie. L’unica certezza è quella di un confine percepito come fuori controllo, e il fatto che Kamala Harris fosse stata delegata da Biden per occuparsene non fa che pesare sulle spalle della candidata democratica, che per di più, anche per la propria storia personale, con la mamma indiana e il papà jamaicano, appare legata all’immigrazione e alla diversità.

Sull’economia i numeri sono positivi, rivendicano i Dem: il PIL cresce come da nessun’altra parte in Occidente. I prezzi si sono fermati. C’è il record di posti di lavoro. Ma la realtà è diversa, e ciò che conta è che è percepita come negativa, anche dagli elettori democratici. Non è solo colpa dell’inflazione che ha colpito le tasche degli americani: l’unico gruppo sociale che afferma di essere contento della situazione economica è quello degli ultrasessantacinquenni democratici. I giovani sono i più negativi. I tanti investimenti di Biden, con il famoso Inflation Reduction Act (IRA) da 700 miliardi da spendere per reindustrializzare il Paese, offrendo dunque posti di lavoro solidi e duraturi, avranno bisogno di anni per portare frutti, ben oltre alcuni effetti positivi iniziali, e solo in parte ricostruiranno i settori più colpiti nel recente passato.

L’economia americana poggia oggi infatti su due grandi pilastri. Le materie prime di base, cioè soprattutto l’energia. Gli USA hanno raggiunto una strategica autosufficienza negli ultimi anni, che permette al Paese di staccarsi dalle reti di altri produttori, come la Russia, senza troppi danni. E poi l'”etere”, cioè soprattutto la tecnologia digitale, i servizi attraverso internet.

Il problema è tutto quello che c’è in mezzo a questi due estremi: la produzione industriale, e anche agricola, è in caduta libera. Gli Stati Uniti non sono mai stati così dipendenti dal resto del mondo (in primis la Cina), per tutti i beni di consumo e i beni anche di base: la bilancia commerciale segna un passivo pesantissimo. Persino la produzione di armamenti risulta deficitaria, e dipendente da componentistica asiatica.

Ciò è accaduto grazie alla globalizzazione, che ha spostato i centri di produzione dove costava meno. Un processo che, sregolato e incontrollato, ha desertificato economicamente e umanamente intere regioni del Paese. E ha prodotto il trumpismo, che, all’inizio, era appunto una virulenta reazione alla globalizzazione: non è un caso che la vittoria a Trump del 2016 fosse data proprio da Pennsylvania, Michigan e Wisconsin: tre Stati che avevano visto smantellato il proprio grande apparato industriale.

Tornare a quel passato non è affatto facile. Per farlo, ovviamente, ci vogliono per cominciare i dazi: nessun sistema produttivo nazionale, soprattutto se debole e da rilanciare, regge senza una protezione legislativa. Tanto più se deve vedersela con la concorrenza a basso prezzo dell’industria asiatica, che oggi è la prima nel mondo. Washington dovrà passare al protezionismo dopo decenni trascorsi a sostenere il libero commercio. E poi ci vogliono gli ingegneri, gli operai, i tecnici: non è detto che ci siano nel numero adeguato, né che l’immigrazione basti per integrarli. E non è nemmeno detto che gli americani vogliano tornare al lavoro industriale, dopo essersi abituati a quello nei servizi. La società dovrà sopportare prezzi più alti, rinunciando alle merci a basso costo che hanno viziato il consumatore occidentale. Senza considerare che la Cina può benissimo aggirare i dazi spostando le produzioni, ad esempio, in Messico: sta già accadendo. E possono farlo anche altri, se fossero oggetto di una guerra commerciale. Sarà insomma una sfida cruciale per l’America dei prossimi venticinque anni.

L’oggi, però, è fosco. Lasciamo per un momento da parte i numeri del PIL e della disoccupazione, che oggettivamente dipingono un Paese che non esiste, in teoria al colmo della propria ricchezza e produttività, e diamo un’occhiata alla situazione sociale. I dati sono tristemente eloquenti. La speranza di vita è in calo – sono gli anni di vita che si stimano per un nuovo nato: siamo scesi molto più in basso che in Europa. Negli USA si vive in media 7 anni in meno che in Italia, e vale per tutte le fasce sociali, non solo per i poveri come spesso si pensa. La mortalità infantile è in aumento: superiore perfino a quella della Russia. La natalità, tradizionale punto di forza rispetto all’Europa, è in ribasso, fino a scendere sotto il livello di sostituzione naturale: se la popolazione americana continua ad aumentare è solo grazie agli immigrati. Infine, gli standard intellettivi raggiunti dagli studenti si stanno abbassando in maniera costante, e c’è una diminuzione di un milione (quasi tutti maschi) negli iscritti ai college rispetto a una decina d’anni fa, nonostante il numero dei diplomati sia rimasto all’incirca lo stesso.

Kamala Harris

 

La difficile sintesi di Harris 

Cosa rimane a Kamala Harris? I cardini su cui ha ruotato la sua campagna nelle ultime settimane sono due. L’anti-trumpismo, declinato come difesa della democrazia e delle istituzioni – istituzioni però di cui gli americani non si fidano più. E il diritto all’aborto, che la Corte Suprema di osservanza trumpiana due anni fa ha declassato, con una sentenza molto impopolare nell’opinione pubblica e che i democratici hanno attaccato da subito, vincendo una serie di referendum in Stati anche conservatori, e altri dieci se ne terranno insieme alle presidenziali il 5 novembre. Tra l’altro, parte dell’aumento della mortalità infantile viene proprio imputato all’aumento di nascite indesiderate. L’obiettivo strategico della candidata democratica è quello di conquistare i centristi e i Repubblicani moderati, e togliere così all’avversario un polmone decisivo per vincere.

Tuttavia, anche le due guerre “mondiali” in corso pesano a danno dell’amministrazione uscente. L’America non è riuscita ad aiutare l’Ucraina come promesso, anche appunto per le mancanze inattese dell’industria, e ora si apre all’ipotesi di un possibile ritiro dalla contesa. Dopo quasi tre anni di sanzioni e aiuti, si rischia una pace favorevole a Vladimir Putin. Un regalo per Mosca, che vincerebbe non per meriti propri ma per abbandono dell’avversario, portandosi sul podio i volenterosi aiutanti Iran e Corea del Nord. E’ Trump a ventilare questo scenario – benché sia stato lui il primo, nel 2017, a fornire le armi (i famosi Javelin) a Kiev, alimentando le pretese del nazionalismo ucraino. Harris si trova nella scomoda posizione di difendere la giocata fatta da Biden, per finire a seguire invece la strada tracciata da Trump.

E sempre Biden non è riuscito a incidere minimamente su Benjamin Netanyahu in Medio Oriente. Nonostante uno scenario catastrofico e una guerra di cui non si vede il senso, la strategia e la fine: o meglio, se ne intravvedono effetti altrettanto catastrofici. Il fallimento diplomatico della Casa Bianca ha fatto sì che in questi mesi, accanto a Hamas e Hezbollah per l’Iran, sembrasse che anche Israele avesse un proxy: gli Stati Uniti d’America. 100 militari USA sono da poco sbarcati a Tel Aviv per preparare l’imminente attacco all’Iran, e/o gestirne le conseguenze.

Al di là degli effetti diplomatici sul piano internazionale, ciò potrà avere conseguenze immediate sul voto del 5 novembre: le comunità arabe ormai contano nell’elettorato, ad esempio proprio in Michigan, nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone. Avranno voglia di confermare un’amministrazione che ha dato carta bianca a Israele? I giovani, altro segmento cruciale per i Dem, hanno protestato per mesi nelle università, e in generale sono i più critici con l’appoggio americano a Netanyahu: si decideranno a votare per Kamala Harris?

Gli elettori democratici, lo dicono tutte le statistiche, sono di più: dal 1996 a oggi i candidati di quel partito hanno sempre raccolto la maggioranza dei suffragi espressi alle presidenziali – con l’unica eccezione del 2004, la riconferma di George W. Bush sull’onda dell’11 Settembre e delle illusorie vittorie in Afghanistan e Iraq.

Il problema è che questi voti sono mal distribuiti sul territorio nazionale, spesso sono troppo concentrati nelle zone metropolitane: dunque, per vincere, i Democratici devono mobilitare più elettori del necessario. I simpatizzanti, a differenza dei Repubblicani che sono più omogenei, vengono da tanti segmenti sociali diversi, a cui non è semplice parlare con lo stesso messaggio: devono essere però motivati e andare alle urne in massa, o votare per posta. Altrimenti perdono.