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L’Africa, continente delle opportunità: una sfida culturale per l’Europa

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Si sono svolti di recente due importanti incontri internazionali aventi al centro il presente e il futuro dell’Africa e in particolare le sue relazioni di ricerca e di alta formazione con i Paesi più avanzati. Dal 30 settembre al 2 ottobre ad Addis Abeba si è tenuto l’incontro fra Unione Africana ed Unesco, a cui hanno partecipato le 900 Cattedre Unesco operanti nel mondo. Lo stesso 2 ottobre a Trieste si è svolto il G7 sul medesimo argomento, in cui i Paesi che ancora si autodefiniscono “Grandi” – Stati Uniti, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania ed Italia – si sono incontrati con delegazioni africane per delineare strategie di cooperazione in queste delicate materie.

 

Ho avuto la possibilità di essere relatore in entrambe le iniziative, assumendomi quindi l’onere di farmi portatore di quel sentimento, o meglio di quel bisogno di parità di relazione, che è oggi al centro di ogni possibile sviluppo di rapporto con questa nuova Africa. L’Africa è oggi certamente in una situazione molto critica, segnata da conflitti interni violentissimi, eredità di una decolonizzazione che seguiva gli stessi confini tirati a volte con riga e squadra dalle potenze europee, ma del tutto irriguardosi rispetto alle identità storiche, linguistiche ed etniche locali.

D’altra parte quando lo stesso Mario Draghi afferma – nel suo Rapporto per la Commissione Europea sulla competitività della UE – che il futuro dell’Europa è legato a digitalizzazione e decarbonizzazione, bisogna ricordare che queste nuove tecnologie richiedono materie prime che sono largamente sotterrate in Africa e che al controllo di quelle stesse ricchezze naturali sono oggi rivolti gli interessi americani e cinesi, ben più presenti di noi in tutto il Continente.

 

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Ad Addis Abeba, Sahle-Work Zewde, prima donna alla presidenza della Repubblica Etiope e attualmente unica donna al vertice di un Paese africano, ci ha ricordato che il futuro dell’Africa è oggi soprattutto affidato al suo straordinario capitale umano, un mondo giovane in crescita, su cui però occorre che i Paesi sviluppati e i Paesi africani investano insieme nell’interesse reciproco e nell’interesse ultimo del mondo intero, perché il mondo ha bisogno di pace duratura e di crescita sostenibile.

Questi sono stati i temi posti nell’incontro voluto da Unione Africana ed Unesco ad Addis Abeba, ma anche al meeting del G7 a Trieste, dove è risultato chiaro che questo nuovo rapporto con l’Africa può essere solo impostato e accettato su una base effettivamente paritaria.

Ad Addis Abeba, Sahle-Work Zewde, aprendo il Forum “Trasformare la conoscenza per il futuro dell’Africa”, ha posto al centro del suo potente discorso la necessità di investire massicciamente in educazione. Ha citato Nelson Mandela, padre nobile di questa nuova Africa, ricordando a tutti noi che l’educazione è l’arma più forte non solo per sradicare la povertà, ma anche per ridare dignità a un intero continente, condizione necessaria per poter impostare su base di parità un nuovo rapporto con i Paesi più sviluppati, ma anche con il resto del Sud del Mondo.

 

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In questo nuovo equilibrio l’Africa può essere un fattore di destabilizzazione perpetuo, o un elemento fondamentale per una crescita più equilibrata e rivolta ad affrontare insieme la più globale delle sfide, il cambiamento climatico, che non risparmia e non risparmierà in futuro nessuno, né a Nord né a Sud del Mondo.

In questa grande sfida per lo sviluppo e la pace, l’Africa – dichiara la Presidente Zewde – non accetta né vecchi né nuovi colonialismi, ma richiede parità e chiarezza di rapporti, specialmente sulla ricerca e l’alta educazione, ritenute chiavi strategiche della crescita ma anche dell’effettiva indipendenza africana. L’Unione Africana ha lanciato un’ambiziosa Agenda 2063, che comprende grandi progetti come la creazione di un mercato comune africano sia per le merci che per le persone, una rete universitaria per l’insegnamento digitale che copra tutto il continente, un grande progetto unitario per la produzione idroelettrica. Sono tutti progetti complessi e molto dibattuti in una fase preliminare, ma già posti chiaramente sul tavolo per il futuro del continente. Ed è in questo quadro prospettico che è stato promosso dalla stessa Unione Africana il Secondo Decennio dedicato alla Ricerca e all’Alta Formazione, esplicitamente rivolto a sostenere la crescita degli atenei africani, ma anche a spingerli a cercare relazioni di scambio ed integrazione fuori dall’Africa.

Ad Addis Abeba, chiudendo la sessione del 1° ottobre su questo Piano Decennale dell’Unione Africana sullo sviluppo della scienza, ho potuto toccare con mano la determinazione e velocità con cui gli atenei africani, saltando tutte le tappe intermedie, si stanno concentrando sull’utilizzo delle tecnologie digitali, e ora anche dell’intelligenza artificiale, per affrontare di petto le problematiche proprie di economie in rapida crescita, a partire dalla diseguaglianza interna fra aree urbane (in rapidissima espansione) e zone rurali (a rischio di abbandono).

In tale contesto l’elemento che emergeva più chiaramente è la forte richiesta di questi atenei africani di stabilire nuovi rapporti con le università europee, evitando di rimanere schiacciati fra le università americane oggi dominanti e le università cinesi fortemente all’attacco, con proposte educative e finanziamenti di ricerca straordinariamente attrattive.

Il giorno dopo, 2 ottobre, io stesso ho aperto il dibattito a Trieste sulle politiche pubbliche per la cooperazione fra G7 e l’Africa nel campo della ricerca ed ho avuto la riprova di quanto i nostri vecchi Paesi – l’Italia, la Francia, la Germania, il Regno Unito da una parte, e gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone dall’altra – sottovalutino la situazione africana, segnata dalla duplice penetrazione delle armi russe nei Paesi subsahariani, e dei capitali cinesi nei restanti Paesi.

 

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A Trieste è emerso infatti come una visione delle trasformazioni strutturali, che stanno ridisegnando la geografia mondiale e i relativi punti di forza, non possa più essere affrontata dalla sola prospettiva nazionale dei membri del G7. Pur apprezzando le azioni che i singoli governi stanno ponendo in campo per rilanciare la loro cooperazione con i loro partner africani – e fra questi certamente il Piano Mattei impostato dall’Italia – occorrono azioni di sistema ben concertate, che portino a ritrovare la via del consenso fra tutti i Paesi, necessità resa ancor più palese dalle evidenti difficoltà delle Nazioni Unite e delle sue articolazioni funzionali, di fronte a guerre che da locali possono espandersi mettendo a rischio la pace di tutti e che comunque stanno già segnando pesantemente l’economia mondiale, con il ritorno di sovranismi fuori tempo massimo.

Come ad Addis Abeba, anche a Trieste ho incontrato giovani imprenditori e imprenditrici africane, operanti in particolare nel campo della salute, e che portavano con grande forza progetti concreti per una crescita duratura e sostenibile, ma che con eguale forza richiedevano l’attenzione proprio di un’Unione Europea distratta dalla sempre rinnovata ricerca di nuovi equilibrismi interni.

D’altra parte gli ambiziosi piani dell’Unione Africana, espressi dall’Agenda 2063, quindi di ben lungo periodo, traggono esempio esplicito proprio dalla storia dell’unificazione europea, in cui sviluppo e pace si sono dimostrati inscindibili in una visione di crescita sostenibile e duratura.

In questa prospettiva dinamica, quella larga parte dell’Africa, che non vuole rimanere schiacciata fra la crescente pressione finanziaria cinese ed il monopolio digitale americano, richiede all’Unione Europea di assumersi direttamente le responsabilità di una cooperazione paritaria con tutto il Sud del Mondo, abbandonando una volta per tutte le derive protezioniste e sovraniste. Si tratta così di svolgere infine appieno un ruolo propositivo a livello globale, che può rivelarsi l’unica vera strada per un rilancio europeo e per evitare di condannarsi alla marginalità in questo mondo in rapida trasformazione.

Proprio da Addis Abeba e da Trieste emerge chiaramente come un nuovo rapporto di cooperazione educativa e scientifica con l’Africa rappresenti oggi per l’Europa – ma io ritengo soprattutto per l’Italia – la via maestra per una crescita che renda attuabile quello sviluppo duraturo, aperto e rigenerante evocato dal Rapporto Draghi: uno sviluppo basato sulla capacità di rispondere in termini produttivi ai nuovi bisogni emergenti sia nel Nord che nel Sud del Mondo, ristabilendo quei rapporti di pace necessari per una vera sostenibilità del cambiamento strutturale.

Per dare corpo e prospettiva a questa strategia è però necessario e urgente che l’Unione Europea torni a considerare l’educazione e la ricerca come le nostre principali opzioni strategiche, come “l’arma più potente per ridare a noi stessi sviluppo e dignità”, in questa fase in cui di fronte al rischio tangibile del progressivo espandersi della guerra bisogna ristabilire una via di pace duratura e di uno sviluppo equo, che proprio l’esperienza europea ha dimostrato essere le chiavi della stabilità e della crescita.

L’Unione Europea deve uscire dalla fase di stallo in cui si trova e riproporsi a livello internazionale come punto di riferimento, in particolare per l’Africa, evitando di ritrovarsi, sia economicamente che politicamente, ai margini del nuovo mondo che si sta ridisegnando ai nostri confini.