L’accordo di pace che non sigla una pace
Gli Emirati Arabi hanno circa 10 milioni di abitanti. O meglio, di residenti. Gli stranieri, infatti, gli expat, tipici del Golfo, sono l’88,5% della popolazione. E quindi, per i palestinesi è stato facile minimizzare la normalizzazione dei rapporti con Israele siglata dagli Emirati a Washington il 15 settembre: parliamo dello 0,03% dei 442 milioni di arabi del mondo, hanno commentato da Ramallah. Non cambia niente.
Ma non è così, naturalmente. La novità è una novità di principio. Si è sempre detto: pace in cambio di terra, e così è stato sia per l’Egitto, nel 1979, che ha recuperato il Sinai, sia per la Giordania, che nel 1994 ha riconosciuto Israele nel contesto di Oslo, con l’istituzione dell’Autorità Palestinese. Ma questa, ora, è pace in cambio di pace. Anzi, ha detto Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità: pace in cambio di niente. Netanyahu, infatti, ha solo sospeso il suo piano di annessione della West Bank. Che in realtà, avrebbe compromesso la maggioranza ebraica di Israele, e quindi era molto contestato dagli israeliani stessi. Oltre che vietato dal diritto internazionale.
Per i palestinesi, comunque, non si tratta che dell’iniziativa di un principe cinico, di nome Mohamed bin Zayed. Che più che alla pace, pensa agli affari: ai propri interessi. Gli Emirati Arabi, in fondo, sono una monarchia assoluta. Con a capo l’emiro di Abu Dhabi, e oggi, di fatto, il suo fratellastro, appunto Mohamed bin Zayed. Che senza dubbio, da un accordo così ha molto da guadagnare. Guida una delle più forti economie al mondo, con un PIL pro capite superiore anche a quello di Israele, 43mila dollari l’anno contro 41mila, ma soprattutto, con il più ampio fondo sovrano del Medio Oriente: 840 miliardi di dollari. E per investire, per diversificare dal petrolio, da cui ora dipende l’85% delle entrate, cosa è meglio di Israele, che ha invece una delle economie tecnologicamente più avanzate? E ha anche, come è noto, una delle più avanzate industrie militari. I suoi nuovi caccia F-35 stanno agli attuali F-16 (di produzione americana, in entrambi i casi) come gli smartphone ai telefoni. E tornerebbero molto utili in Libia, in Yemen, e in tutte le altre guerre per procura di questi anni. Per Mohamed bin Zayed, il senso di questo accordo con Israele è evidente: passa da comparsa a protagonista.
Così come è evidente che anche Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno pensato ai propri interessi, al proprio futuro, oltre che al futuro del Medio Oriente. Trump, che è a ridosso delle elezioni di novembre, ha rischiato l’impeachment per abuso di potere, e Netanyahu il carcere per frode e corruzione. E se gli Stati Uniti continuano a segnare record di morti per Covid, Israele è stato il primo a imporre un nuovo lockdown nazionale. La pace con gli Emirati Arabi è arrivata mentre mezza Israele era in piazza per chiedere le dimissioni del governo. E gli Stati Uniti, per Black Lives Matter.
E proprio quando Bob Woodward ha svelato come Trump ha a lungo mentito sulla letalità del Covid, poi, è arrivata la pace con il Bahrein. All’ultimo minuto, il suo ministro degli Esteri si è unito alla cerimonia di Washington. Così all’ultimo minuto che ha letto il testo integrale dell’accordo solo quando è apparso sul giornale israeliano Haaretz.
Ma in realtà, la cooperazione tra gli Emirati Arabi e Israele è in corso da anni, e neppure tanto sottotraccia. Tutto è iniziato dalle energie rinnovabili, settore cardine per entrambi: l’agenzia dell’ONU fondata nel 2009 per promuovere il loro sviluppo ha sede a Abu Dhabi. Forse non è molto romantico, ma è più o meno quello che è avvenuto anche tra due altri paesi: la Francia e la Germania – la pace in Europa è nata così: dal carbone e dall’acciaio. Questo accordo era inevitabile, ha detto Anwar Gargash, ministro degli Esteri degli Emirati Arabi. Avrebbe potuto aversi tra un mese, o un anno, o dieci, ha detto. Ma era inevitabile. Perché quello che era possibile nel 1948, o nel 1967, o anche nel 1994, a Oslo, oggi, ha detto, semplicemente, non è più possibile.
Oggi, è chiaro a tutti: Israele è in Medio Oriente per restarci. I tempi avrebbero potuto essere diversi, certo, e le concessioni di Israele maggiori: ma più che dei suoi mediatori, questa normalizzazione è il prodotto del suo contesto. Il contesto internazionale, prima di tutto. Perché sono anni ormai che in Medio Oriente la questione palestinese non è più la questione centrale, e niente è più in bianco e nero.
Domina invece la rivalità tra i sunniti e gli sciiti, e soprattutto, quella tra gli islamisti, e cioè Turchia e Iran, e i conservatori filo-occidentali dell’Arabia Saudita. Con cui è schierata Abu Dhabi. E tutti usano Israele. Nessuno ha una reale legittimità popolare: e quindi, sono pro o contro Israele in base a quello che più conviene per restare al potere. Il caso più eloquente forse è proprio quello di Hezbollah, che più si pretende paladino dei palestinesi. In Libano sono 450mila. Ma in realtà, dal censimento del 2018 risultano essere 174mila. Privi di ogni più minimo diritto, alla fine, semplicemente, stanno andando via.
Però conta anche, e molto, il contesto interno. Intanto, gli Emirati Arabi hanno guardato sempre a est, più che a ovest. Vendevano perle, che arrivavano in Europa attraverso l’India. Attraverso l’Impero Britannico. E ancora oggi, esportano essenzialmente verso il Giappone, l’India, l’Iran e la Corea del Sud. Ma soprattutto, nel 1948 neppure esistevano: sono stati fondati nel 1971. E prima del petrolio, scoperto nel 1958, erano di una povertà assoluta. Gli Emirati sono stati costruiti dal niente, letteralmente, dal niente e dagli expat, cosa che ha forgiato due caratteristiche che colpiscono subito: sono pragmatici e aperti. Mentalmente, non solo economicamente, aperti. Consapevoli che la vera sfida non è né con Israele né con l’Iran: è con il deserto. E un paese così, un paese moderno, efficiente, ricco, in cui funziona tutto, e in cui l’età media è 33 anni, un paese in cui chi viene dall’Europa ha la sensazione di venire dal passato, che opinione può mai avere degli altri paesi arabi? Di paesi, appunto, come il Libano, in cui mentre a Abu Dhabi veniva introdotto un test laser istantaneo per il Covid, Beirut finiva in macerie: un paese da cui vogliono andare via non solo i palestinesi, ma anche i libanesi?
E per molti, moltissimi, la destinazione è proprio Dubai. Secondo i palestinesi, gli Emirati Arabi sono un’eccezione. Il mondo è altro: ed è ancora contro Israele. E la Palestina, ancora un simbolo. Ma tra gli expat che vivono negli Emirati, molti, moltissimi sono di paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, lo Yemen, la Siria, il Sudan. Sono in fuga da vite spesso più drammatiche di quelle dei palestinesi. Conflitti più brutali. E altrettanto complessi. Parli di Gaza, e non hanno idea di dove sia. Cosa sia.
Il 15 settembre, durante la cerimonia di Washington, su Israele sono piovuti razzi. Il modo, per i palestinesi, di ricordare che sono sempre lì: che questa è una pace che non chiude nessuna guerra. Ed è vero. Ma la guerra che resta non è più con loro. Netanyahu ha sospeso l’annessione formale della West Bank: ma quella di fatto continua. E i palestinesi presto non saranno che la minoranza araba di Israele. E poi, però, la sua maggioranza. Israele è ancora in guerra. Ma con se stesso.