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L’accordo di Idlib e le strategie siriane di Mosca e Ankara

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L’accordo concluso a metà settembre da Russia e Turchia per impedire – o quantomeno rinviare – l’offensiva del regime di Damasco nella provincia di Idlib, ultima roccaforte rimasta nelle mani dell’opposizione al presidente siriano Bashar al-Assad, conferma il desiderio di Mosca di mantenere aperto il dialogo con Ankara, di scongiurare un possibile riavvicinamento turco con gli Stati Uniti, e di prevenire una catastrofe umanitaria che avrebbe rischiato di far saltare il processo negoziale e gli sforzi russi di stabilizzare la Siria.

Dopo che le forze fedeli ad Assad avevano riconquistato gran parte del territorio nazionale a ovest dell’Eufrate, ad eccezione proprio di Idlib e della regione controllata dai turchi a nord di Aleppo, la diplomazia russa si era impegnata nel tentativo di spostare l’attenzione internazionale dal teatro militare al tavolo negoziale. Mosca aveva anche avviato una campagna volta a facilitare il rientro dei profughi in Siria, per la quale stava cercando non solo l’appoggio della Turchia e degli altri stati confinanti, ma l’approvazione e il sostegno dei paesi europei.

L’aspirazione strategica del Cremlino è infatti non solo assicurare al regime di Damasco la vittoria militare sul campo, ma la sua riabilitazione a livello internazionale accompagnata dall’avvio di una ricostruzione possibilmente sponsorizzata anche da donatori europei. Un’offensiva militare su vasta scala a Idlib avrebbe messo a rischio questi obiettivi. Una possibile carneficina e una nuova ondata di profughi avrebbero infatti sconfessato la tesi russa che la Siria è un paese in via di stabilizzazione, nel quale è possibile organizzare il ritorno di coloro che erano fuggiti dal conflitto e mettere a punto un piano di investimenti per la ricostruzione.

Rovine dopo un bombardamento a Idlib

 

Le dure reazioni di Ankara, di Washington e delle capitali europee di fronte all’imminente offensiva hanno certamente giocato un ruolo nel raggiungimento dell’accordo russo-turco. La Turchia aveva inviato rinforzi militari presso i propri “punti di osservazione” – presenti nella provincia di Idlib in base al precedente accordo di “de-escalation” stipulato nel quadro del cosiddetto processo negoziale di Astana – e addirittura armi ai gruppi ribelli siriani più vicini ad Ankara nell’eventualità che l’offensiva avesse davvero inizio.

Dal canto suo l’Europa aveva ribadito che la propria indisponibilità a partecipare alla ricostruzione in assenza di una reale transizione politica sarebbe stata ancor più ferma nel caso di un’offensiva su Idlib. Inoltre, Londra, Parigi, e in parte anche Berlino, avevano unito le loro voci a quella di Washington nell’annunciare nuovi bombardamenti contro il regime qualora si fosse verificato un ulteriore attacco chimico nel corso di tale offensiva. L’ammonimento occidentale appariva credibile alla luce dell’intervento congiunto compiuto da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna all’indomani del presunto attacco chimico dello scorso aprile nel quartiere di Douma, alla periferia di Damasco, attribuito al regime da questi paesi.

Dal punto di vista del Cremlino, la minaccia più pericolosa era certamente quella proveniente da Washington. Mosca continua a considerare gli Stati Uniti come l’ostacolo più serio al raggiungimento dei propri obiettivi strategici in Siria, non solo dal punto di vista militare. Le forze americane presenti sul terreno a est dell’Eufrate svolgono una funzione di supporto agli sforzi curdi volti a costituire strutture governative semi-ufficiali e indipendenti, che vengono viste dai russi come una minaccia all’unità territoriale della Siria. Inoltre, diversi responsabili dell’amministrazione Trump hanno recentemente ribadito l’intenzione di mantenere una presenza militare in Sirianon solo fino al raggiungimento della vittoria sull’Isis, ma fino a quando le forze filo-iraniane non avranno lasciato il paese.

Alla luce di questi fatti, l’esigenza di mantenere un dialogo con la Turchia assume un valore ancora maggiore per il Cremlino. Mosca e Ankara si trovano in una posizione di mutua dipendenza in Siria. I russi hanno bisogno dei turchi per gestire i gruppi ribelli e jihadisti presenti a Idlib, visti i contatti privilegiati esistenti fra tali gruppi e Ankara. D’altra parte la Turchia dipende dal Cremlino nella gestione dei rapporti con il regime di Damasco. Solo la Russia avrebbe potuto fermare l’offensiva del regime, che rischiava di creare una pericolosa ondata di profughi (e jihadisti) verso il confine turco. Per converso, solo il governo turco può tentare di spingere i gruppi armati di Idlib a negoziare con Damasco. Allo stesso tempo, né Mosca né Ankara controllano completamente i rispettivi alleati che si scontrano sul terreno in Siria.

La situazione strategica turca è particolarmente contraddittoria. Pur continuando ufficialmente a far parte del fronte occidentale e della Nato, Ankara ha rapporti freddi con l’Europa ed è in rotta di collisione con gli Stati Uniti. Le ragioni della crisi con Washington sono molteplici, e vanno dalle sanzioni recentemente imposte dalla Casa Bianca per la detenzione del pastore americano Andrew Brunson da parte delle autorità turche, al rifiuto statunitense di estradare il predicatore Fethullah Gülen, accusato in Turchia di essere coinvolto nel tentato golpe del luglio 2016. Ma il motivo di maggior attrito fra Ankara e Washington è l’appoggio americano ai curdi in Siria. La creazione, grazie all’aiuto statunitense, di un territorio semi-indipendente a guida curda sul proprio confine meridionale è vista da Ankara come una minaccia esistenziale.

Il contrastato rapporto turco-americano contribuisce a spiegare l’interesse russo a preservare il dialogo con Ankara, al fine di scongiurare un possibile ricompattamento del fronte anti-Assad, e di mantenere un rapporto con l’unico attore in grado di influenzare i gruppi armati siriani e di facilitare una loro riconciliazione con il regime.

L’accordo di Idlib è frutto di queste esigenze. Esso prevede la creazione entro il 15 ottobre di una zona demilitarizzata di 15-20 Km fra i ribelli e le forze filo-governative, e una “roadmap” per liquidare Hayat Tahrir al-Sham (HTS), la formazione militarmente più pericolosa a Idlib, ultima incarnazione del gruppo qaedista Jabhat al-Nusra.

L’intesa allontana per il momento i rischi che un’offensiva militare avrebbe comportato sia per Mosca che per Ankara. Tuttavia presenta numerose incognite. La Turchia si assume l’arduo compito di smembrare HTS, eventualmente anche contro la volontà dei leader del gruppo. Il governo turco farà ricorso ad allettamenti e incentivi, ma potrebbe anche trovarsi costretto a usare la forza militare.

Per altro verso, l’accordo rafforza il controllo di Ankara sulla provincia ribelle, consentendo ai turchi di consolidare la propria presenza militare in corrispondenza della zona demilitarizzata, ed eleggendoli a garanti della riapertura delle autostrade M4 ed M5 che collegano Aleppo rispettivamente con Latakia e Damasco. Ciò pone un’ulteriore minaccia all’integrità territoriale siriana che Mosca continua a sostenere di voler salvaguardare. Inoltre, se l’accordo dovesse fallire – ipotesi del tutto plausibile alla luce dei notevoli ostacoli alla sua implementazione – si ripresenterebbe il rischio di un’offensiva militare potenzialmente in grado di distruggere il rapporto fra Mosca e Ankara, e con esso ogni prospettiva di negoziato.