international analysis and commentary

La via stretta dell’Ucraina verso la pace

278

Victory Plan”. Questo è il nome scelto da Volodymyr Zelensky per la strategia in cinque punti redatta dal suo governo e che dovrebbe preparare il terreno per una conferenza di pace con la Russia. Il cuore del documento, reso pubblico lo scorso 16 ottobre durante un intervento tenuto da Zelensky al Parlamento ucraino e che include anche tre punti tenuti riservati, riguarda soprattutto due richieste che da tempo costituiscono l’urgenza più pressante di Kiev: l’adesione a UE e NATO e la possibilità di utilizzare i missili a lungo raggio forniti dagli alleati per colpire la Russia ben dentro il suo territorio. Tutte queste istanze, per il momento, non sembrano ricevere particolare attenzione né da parte degli Stati Uniti, né dalla maggioranza dei Paesi dell’Unione: il tour europeo del presidente ucraino, 36 ore fra il 10 e il 12 ottobre durante le quali è passato da Londra, Parigi, Roma e Berlino, non ha infatti suscitato particolari entusiasmi.

Zelensky alla presentazione del “Victory Plan” al parlamento di Kiev

 

Le mosse diplomatiche di Zelensky

Passato da Parigi, Londra, Roma e Berlino nella speranza di raccogliere nuovo supporto e soprattutto più armi, Zelensky ha raccolto molta freddezza e nessun appoggio diretto al suo Victory Plan. Si sono invece susseguite, una dopo l’altra, comunicazioni protocollari minimaliste, con Emmanuel Macron che ha liquidato la visita di Zelensky con una rapida dichiarazione nel cortile dell’Eliseo e il neo-segretario generale della NATO Mark Rutte che, pur parlando di “segnale forte”, ci ha tenuto a sottolineare che l’Alleanza Atlantica “non può dire di sostenere integralmente il piano, è un po’ difficile al momento, ci sono molte questioni da risolvere”.

La proposta di Zelensky non era stata accolta con grande fervore nemmeno nel suo viaggio statunitense di settembre, durante il quale la diplomazia USA l‘aveva bollata, secondo quanto riportato da Bloomberg, come una “wish-list” priva di sorprese e che semplicemente reitera le richieste di armi. Non ha poi certo aiutato la scelta di Joe Biden dell’ultimo minuto di annullare la riunione dell’Ukraine Defense Contact Group, anche noto come Ramstein Format, che si sarebbe dovuta tenere sabato 12 ottobre al termine di una visita di tre giorni del presidente statunitense in Germania. Biden ha invece deciso di rimanere a Washington per seguire da vicino gli sviluppi dell’uragano Milton sulla costa della Florida e l’incontro non è ancora stato ricalendarizzato. Si tratta di un rinvio non di poco conto, in quanto il Ramstein Format coordina il supporto militare per Kiev ed è una piattaforma fondamentale per discutere l’aumento delle forniture di sistemi di difesa aerea e munizioni all’Ucraina, ed era stato scelto da Zelensky come sede cruciale per la presentazione della sua proposta.

Lo scarso supporto raccolto da Zelensky ha anche affossato, in maniera ormai quasi definitiva, il secondo summit di pace programmato per la fine di novembre e che avrebbe dovuto tenersi utilizzando come base di lavoro proprio il Victory Plan, includendo peraltro la partecipazione al vertice di rappresentanti russi, che non erano invece stati invitati al primo appuntamento, tenutosi in Svizzera lo scorso giugno. A sgombrare ulteriormente il campo è arrivata anche la dichiarazione ufficiale della portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, che ha affermato, già alla fine di settembre, che la Russia non avrebbe preso parte alla riunione.

 

La situazione sul fronte, con la Russia all’offensiva

La questione del rapporto fra Ucraina e alleati assume insomma dei contorni sempre più intricati in una fase del conflitto molto delicata per l’esercito comandato dal generale Oleksandr Syrsky. L’incursione ucraina nel territorio russo di Kursk è ormai arrivata al terzo mese e fino ad ora ha prodotto risultati contrastanti. Da una parte, infatti, l’offensiva ha raggiunto la maggior parte dei suoi obiettivi a breve termine, soprattutto per quanto riguarda un cambio della narrazione, che aveva bisogno di un successo forte sul campo di battaglia a favore degli ucraini e di dimostrare, anche agli alleati, che la Russia non è imbattibile e può essere colpita nel suo territorio: l’operazione da questo punto di vista è andata a segno.

Un altro elemento positivo riguarda la possibilità di utilizzare i territori della regione ora sotto il controllo ucraino come merce di scambio durante possibili futuri colloqui di pace. E’ mancata però la conquista della centrale nucleare di Kursk, che gli ucraini avrebbero potuto utilizzare in un’eventuale trattativa per rientrare in controllo di quella di Zaporizhzhia (nella parte sudorientale del Paese), ormai da due anni in mano russa.

La cattiva notizia è che dopo l’offensiva di Kursk le forze ucraine sono state sottoposte a pressioni fortissime sia sul fronte orientale che su quello meridionale, mentre l’avanzata ucraina in Russia è ormai ferma, dopo l’invio di 50.000 uomini da parte di Mosca nell’area. Nonostante Zelensky affermi che l’operazione nel Kursk abbia rallentato l’avanzata russa nell’Ucraina orientale, i dati forniti dall’Institute for the Study of War (uno dei centri-studi risultati più precisi e affidabili dall’inizio del conflitto, basato a Washington) mostrano invece che Mosca ha fatto i suoi maggiori progressi mensili da ottobre 2022 ad oggi, proprio fra agosto e ottobre del 2024, avanzando su oltre 500 chilometri quadrati di territorio ucraino.

L’esercito di Kiev si è insomma dovuto mettere sulla difensiva nel Donetsk, dove gli attacchi russi stanno sfondando. All’inizio di ottobre il comando dell’esercito ucraino ha dovuto ritirarsi dalla città mineraria di Vuhledar, che era stata assediata dall’inizio della guerra e che dopo due anni è caduta in mano russa. La decisione è arrivata per evitare l’accerchiamento e la conseguente perdita di uomini, e ha ricevuto l’avallo diretto di Zelensky. Vuhledar è una cittadina collinare non particolarmente strategica, ma da cui è possibile controllare in maniera molto funzionale le rotte logistiche di Mosca, oltre a essere un ottimo punto di osservazione per ulteriori attacchi.

 

Leggi anche: I soldati nordcoreani sul fronte ucraino e i riflessi asiatici

 

Una situazione molto simile a quella di Vuhledar si sta sviluppando a Toretsk, 35 chilometri a nord di Donetsk, sottoposta da mesi a un assedio che l’ha ormai praticamente polverizzata: si calcola che da agosto a oggi i russi abbiano lanciato sulla città oltre seicento “glide bombs”, bombe plananti sganciabili anche a distanza, rendendola di fatto un villaggio fantasma. Toretsk resta comunque un avamposto di grande importanza territoriale, visto che una sua caduta porrebbe grandi ostacoli per l’esercito ucraino nelle rotte di rifornimento dietro le linee meridionali del Donetsk.

L’obiettivo finale russo nell’area è quello di comporre un fronte che porti le linee militari di Mosca fino a Pokrovsk, dove si trova l’unica miniera di tutta l’Ucraina che produce carbone da coke, un elemento essenziale nella produzione di acciaio, la cui esportazione è seconda solo all’agricoltura nella bilancia economica di Kiev. L’Ucraina nei primi otto mesi del 2024 ha esportato metallo per oltre 2 miliardi di dollari e l’eventuale perdita della miniera di Pokrovsk causerebbe un crollo radicale della produzione di acciaio, che passerebbe dai quasi 8 milioni di tonnellate attuali a 2-3 milioni di tonnellate al massimo, come spiegato da Oleksandr Kalenkov, presidente della USSC, l’associazione dei produttori di acciaio ucraini. Pokrovsk, inoltre, è un importante snodo che riunisce un triangolo di collegamenti stradali e ferroviari cruciali e dal quale la Russia potrebbe sferrare attacchi molto in profondità dentro l’Ucraina centrale, infliggendo inoltre a Kiev un duro colpo logistico nel Donetsk meridionale.

L’Ucraina, ad ogni modo, si sta difendendo secondo una strategia molto chiara, che vede l’esercito di Kiev, in condizioni di inferiorità numerica, accettare di cedere terreno, nel lasso temporale più ampio possibile e infliggendo ai russi perdite costanti e importanti. Bisognerà capire nei prossimi mesi quanto questa tattica risulterà funzionale a un contenimento controllato dell’avanzata russa o se, al contrario, si esaurirà in un dispendio inefficace di risorse militari per difendere obiettivi solo simbolici. Ancora secondo i dati dell’Institute for the Study of War, l’esercito russo, negli ultimi nove mesi, avrebbe perso, nella sola regione di Pokrovsk, almeno cinque divisioni di carri armati e veicoli corazzati. Un recente report del ministero britannico della Difesa, invece, spiega come l’esercito russo a settembre ha perso oltre 1200 uomini al giorno sul campo di battaglia, e oltre 1000 al giorno da aprile in avanti, un trend che non sembra destinato a invertirsi prima della fine del prossimo inverno e che, sempre secondo le analisi dell’intelligence di Londra, vedrebbe il numero totale di morti nelle fila dell’esercito russo dall’inizio della guerra a oggi attestarsi a oltre 650.000 soldati.

Anche per questo motivo la sensazione è che, nonostante l’avanzata nel Kursk sia a una fase di stallo (ma la Russia ci metterà molto più di un mese, come aveva invece dichiarato ad agosto, per riconquistare i suoi territori) e gli attacchi russi nel Donetsk molto violenti, l’Ucraina mostri ancora segni di controllo della sua fase difensiva nel Donbass. Proprio in virtù della nuova ondata di attacchi russi (che nelle ultime tre settimane, secondo i dati comunicati dallo stesso presidente ucraino Zelensky, sono ripartiti a colpire pesantemente anche le città più occidentali, con più di 2000 glide bombs e quasi 1000 droni) la richiesta di aiuto agli alleati si è fatta ancora più pressante.

 

La questione degli aiuti e i dubbi degli alleati

Ecco così che torna a mostrarsi cruciale la questione della fredda reazione al Victory Plan di Zelensky, e il rifiuto, per ora, di nuove armi proveniente da Kiev. Le relazioni fra Zelensky e Olaf Scholz, il Cancelliere tedesco, su tutte, sembrano molto contraddittorie. Se infatti la Germania ha sinora inviato ben 28 miliardi di euro di aiuti militari a Kiev, seconda solo agli Stati Uniti (che hanno invece mandato oltre 60 miliardi), dall’altra continua a rifiutarsi di rifornire l’Ucraina di missili Taurus.

I Taurus sono dei terra-aria sviluppati da Germania e Svezia con tecnologia stealth, vale a dire con una serie di accorgimenti tecnici che li rendono molto difficili da rilevare. Funzionano tramite un motore turbofan, una turboventola che, diversamente da un normale getto turbo, lavora su due flussi d’aria separati. Il Taurus è in grado di colpire obiettivi strategici fino a 500 chilometri di distanza, vale a dire il doppio degli ATACMS statunitensi, degli Storm Shadow britannici e degli SCALP francesi, attualmente nella disponibilità dell’esercito ucraino. A nulla sono servite le rassicurazioni di Zelensky, che ha chiarito come l’utilizzo dei Taurus non avverrebbe per colpire eventuali obiettivi in territorio russo, ma solo in qualità di armi controffensive sul suolo ucraino.

In Germania crescono elettoralmente i partiti favorevoli alla distensione con la Russia, con l’estrema destra di AfD e il nuovo partito populista di sinistra fondato dalla ex Linke Sarah Wagenecht, entrambi fortemente contrari all’invio di aiuti militari a Kiev, protagonisti di buoni risultati alle recenti elezioni regionali di Turingia e Sassonia. Anche per questo Scholz è ormai da mesi irremovibile sulla questione; ha inoltre sostenuto che i missili non potrebbero in nessun caso essere utilizzati senza la presenza di soldati tedeschi sul territorio ucraino.

 

Leggi anche: Il fattore energetico verso l’inverno ucraino

 

Il punto di tensione più alto negli equilibri futuri fra Kiev e alleati si raggiungerà però il 5 novembre, in vista cioè di una tornata di elezioni presidenziali USA che potrebbero avere un effetto molto profondo sull’esito della guerra in Ucraina.

Kamala Harris ha chiaramente indicato che, se vincente, proseguirà sulla linea tracciata dall’amministrazione di Joe Biden, dunque garantendo un sostegno incondizionato all’Ucraina ed evitando al contempo il rischio di un coinvolgimento diretto della NATO. Trump invece è sempre stato molto più vago in merito all’impegno di supporto militare che gli Stati Uniti, in caso di sua elezione, prenderanno verso Kiev, dichiarando piuttosto la sua intenzione di muoversi per una conferenza di pace e indicando in diverse interviste di voler condizionare eventuali ulteriori aiuti all’Ucraina all’impegno di Zelensky a partecipare ai negoziati.

Trump, peraltro, è stato fra i principali critici del disegno di legge che lo scorso aprile, dopo un lungo iter al Congresso, ha confermato un pacchetto di aiuti da 61 miliardi di dollari a Kiev e ha sempre sostenuto che qualsiasi aiuto per l’Ucraina dovrebbe provenire in maniera collegiale da tutti gli alleati degli Stati Uniti nella NATO. Ciò anche in virtù di una teoria secondo la quale gli USA starebbero sprecando in Ucraina risorse fondamentali a scapito di possibili scenari di guerra che potrebbero aprirsi qualora la Cina decidesse di invadere Taiwan.

Le dichiarazioni di Donald Trump sulla necessità di chiudere rapidamente la guerra e le sue continue esternazioni contro la possibile adesione dell’Ucraina alla NATO metteranno una grande pressione su Kiev in caso di vittoria repubblicana. È forse anche per questo che Zelensky ha scelto in queste settimane di accelerare nella richiesta di aiuti e nella redazione di un piano politico-militare che però, almeno sino ad ora, come abbiamo visto, non sembra aver raccolto l’approvazione degli alleati.