La traiettoria politica indicata dal voto di novembre 2018
Per mesi il voto di metà mandato del 2018 è stato descritto come un referendum sulla presidenza “divisiva” di Donald Trump. In questo caso, il risultato che ne è scaturito è un sostanziale pareggio. Tra i “vincitori” vi sono i sondaggisti americani, usciti a pezzi dalla sorprendente vittoria di Trump di due anni fa: i risultati hanno infatti rispettato le previsioni della vigilia. La partecipazione, infine, è stata da primato: ha votato il 48,7% degli aventi diritto, pari a oltre 113 milioni di persone, il numero più alto di sempre per un’elezione di metà mandato.
Costituzione alla mano, il nuovo assetto politico significa che i Democratici – grazie alla confortevole maggioranza alla Camera – potranno controllare l’agenda legislativa, tutto ciò che concerne il budget e la composizione delle commissioni. Ciò comporta la facoltà di costituire commissioni investigative sul Presidente, sulle elezioni del 2016 e sui rapporti tra Trump e il governo russo. Dal canto loro i Repubblicani – grazie alla consolidata maggioranza al Senato – potranno approvare le decisioni di politica estera e ratificare le nomine presidenziali.
Si allontana d’altro canto lo spettro di una procedura di impeachment per Trump. E’ vero che ora i Democratici avrebbero i numeri per poter istruire la pratica alla Camera. Ma al Senato servirebbero comunque 60 voti su 100 per rimuovere il Presidente. E in un Congresso ormai così polarizzato, solo novità clamorose provenienti dall’indagine del super-procuratore Robert Muller potrebbero convincere qualche senatore repubblicano a votare per la rimozione. E’ probabile quindi che l’idea venga accantonata, anche considerando l’abilità di Trump a muoversi in un contesto retorico radicalizzato e a proporsi come vittima.
Al Senato, il Partito Democratico è riuscito a conquistare un seggio repubblicano in Nevada, mentre i repubblicani hanno strappato all’opposizione i seggi di Florida, Indiana, Missouri e North Dakota. E qui, il presidente può ragionevolmente dirsi soddisfatto: i primi tre sono infatti swing states dove Trump ha fatto parecchi comizi nei mesi scorsi e rappresentano un successo importante anche in vista del 2020. Non va poi dimenticato come, storicamente, le elezioni di metà mandato siano state quasi sempre punitive per il partito del presidente: tenere il Senato rappresenta senz’altro un buon risultato per Trump, specie se confrontato coi risultati delle midterm conseguiti dai suoi predecessori.
Osservando più accuratamente i risultati, ci si accorge come, in realtà, si siano confermate le tendenze elettorali emerse due anni fa. I Repubblicani hanno infatti conquistato quattro seggi senatoriali occupati da Democratici in stati che nel 2016 vennero vinti dall’attuale presidente. Uno dopo l’altro sono “caduti” quattro senatori democratici moderati quali Joe Donnelly in Indiana, Heidi Heitkamp in North Dakota, Claire McCaskill in Missouri e, probabilmente, Bill Nelson in Florida. L’eccezione è rappresentata da Jon Tester in Montana, che è riuscito a conquistare un terzo mandato in uno stato che due anni fa Trump vinse con oltre 20 punti di margine e che non vota in maggioranza per un candidato democratico alla presidenza dal 1992.
I risultati conseguiti da questi cinque senatori democratici possono essere anche letti in correlazione con la difficile scelta che si erano trovati di fronte solo poche settimane prima del voto: ratificare o meno la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. Un giudice conservatore, antiabortista e accusato di molestie sessuali, ma probabilmente non del tutto sgradito ad ampi strati dell’elettorato dei loro territori. Tutti e cinque, pur tra dubbi e difficoltà, scelsero la disciplina di partito e votarono contro Kavanaugh (che è stato poi comunque confermato). L’unico senatore democratico che il 6 ottobre scorso votò a favore della nomina di Kavanaugh fu Joe Manchin, senatore uscente in West Virginia, altro stato vinto da Trump nel 2016 ma che ancora esprimeva un senatore democratico. Ebbene, Manchin è risucito a mantenere il seggio, probabilmente anche in virtù di quella sua scelta di votare assieme ai Repubblicani.
Una delle elezioni che hanno attratto l’attenzione mediatica è stata quella per il seggio senatoriale del Texas, dove la stella nascente democratica Beto O’Rourke è arrivato a un passo dal defenestrare l’uscente Repubblicano Cruz, in un territorio che non elegge un senatore democratico dal 1993 e non vota per un presidente democrat dal 1976. O’Rourke è un 46enne deputato statale che è riuscito a farsi conoscere a livello nazionale grazie a un’efficace campagna comunicativa. Ha raccolto la cifra record di 70 milioni di dollari ed è stato da più parti ritratto come possibile contendente alle apertissime primarie democratiche del 2020. Robert Kennedy come figura di riferimento, Barack Obama come modello politico, O’Rourke ha affascinato anche celebrità come LeBron James e Beyoncé, anche se in tempi di populismo rampante gli endorsement delle star potrebbero perfino risultare controproducenti. A livello nazionale molti pensavano si trattasse di un candidato ispanico, in realtà ‘Beto’ non è diminutivo di Roberto bensì soltanto un soprannome di gioventù. Curiosamente, l’avversario Rafael Cruz è più noto con il soprannome Ted. Come ha osservato Karl Rove su Politico: solo in Texas poteva capitare che “un anglo si presentasse come un latino e un latino si presentasse come un anglo”.
O’Rourke ha perso di circa 200mila voti, ottenendo comunque un ottimo risultato e lottando fino all’ultimo per un seggio che solo pochi mesi fa pochi avrebbero considerato contendibile. E’ evidente che una vittoria lo avrebbe davvero consacrato a credibile frontrunner per le primarie del 2020. Un risultato così gli lascia ancora ampie possibilità ma dovrà gestire bene i prossimi 12 mesi per evitare di essere “dimenticato”. In questo caso, la strategia migliore sarebbe quella di capitalizzare quanto prima l’improvvisa notorietà e avventurarsi in un tour nazionale atto a tenere viva l’attenzione e ad accaparrarsi subito i finanziatori più munifici.
Questo perché il panorama democratico in vista 2020 è ancora assai indecifrabile. Joe Biden, Hillary Clinton e Bernie Sanders sono ancora le figure più in vista e in grado di raccogliere centinaia di milioni di dollari per le rispettive eventuali campagne elettorali, ma sono tutti ultrasettantenni. L’anagrafe gioca contro anche all’ex sindaco di New York Michael Bloomberg (classe 1942) che pare intenzionato a tentare una candidatura presidenziale da indipendente ma dentro il Partito Democratico, profetizzando quindi un’ipotetica (e incredibile) sfida tra miliardari newyorkesi. Dietro di loro è probabile che ci provi anche Elizabeth Warren, fresca di facile rielezione a senatrice del Massachusetts. Ma visto quel che è successo nel 2016, siamo sicuri che proprio una donna liberal possa essere la sfidante ideale di un candidato maschilista e scorretto come Trump, capace comunque di non essere danneggiato da scandali, scorrettezze e accuse varie?
E’ vero, tuttavia, che la politica statunitense pare assomigliare sempre più alla società che dovrebbe rappresentare e vari pregiudizi sembrano essere ormai superati, perlomeno in un buon numero di stati: il nuovo governatore del Colorado è il Democratico Jared Polis, primo omosessuale sposato con un uomo a essere eletto a tale carica. Debra Haland in New Mexico e Sharice Davids sono le prime due donne native americane a essere elette alla Camera (Davids è anche dichiaratamente lesbica). Infine le democratiche Rashida Tlaib in Michigan and Ilhan Omar in Minnesota sono le prime due donne musulmane a diventare deputate. La storia di Omar è forse la più eclatante di tutte: nata a Mogadiscio nel 1981, è emigrata negli Stati Uniti a 14 anni, entrando nel Paese con un permesso da rifugiata politica.