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La Russia di Putin slitta verso una guerra esistenziale – per il regime

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La clamorosa scorreria dei miliziani mercenari della Wagner agli ordini del capo Evgeny Prigozhin, giunti in convogli militari quasi indisturbati dal fronte ucraino ai dintorni di una capitale dove montava la paura, era uno degli eventi meno prevedibili in Russia: un Paese spesso considerato – da amici e nemici di Vladimir Putin – come un colosso stabile, ordinato, obbediente e pronto a scattare ai desideri di quell’unico leader indiscusso. I fatti hanno smentito questa ennesima narrazione montata sull’affastellarsi confuso degli eventi degli ultimi mesi, dall’abilità mediatica quasi magica di molte delle parti in causa, capaci di costruire montagne dall’inesistente, e dalla difficoltà di conoscere con precisione la situazione della Russia, dove praticamente ogni voce libera è stata messa a tacere. E’ utile ricapitolare questi fatti, allora, per avere un’idea più precisa di cosa accade davvero nel teatro di guerra europeo.

Putin nel suo breve discorso alla nazione del 24 giugno, in cui denuncia la “pugnalata alla schiena” di Prigozhin

 

L’insubordinazione di Prigozhin, naturalmente, non nasce dal nulla. Le truppe della Wagner sono presenti in Ucraina fin dal momento dell’invasione, e – come negli 8 anni precedenti, dall’annessione della Crimea e dalla guerra in Donbass – sono incaricate di missioni delicate e speciali. Di fatto, si sono dimostrate sul campo tra le forze più efficienti nell’intero panorama militare russo. Tra le operazioni più ardite, secondo ricostruzioni giornalistiche, anche il tentativo di assassinio del Presidente ucraino Zelensky nei primi giorni della guerra, oltre che la presa di Bakhmut il mese scorso.

Il capo della PMC Wagner (PMC sta per Private Military Company) e Vladimir Putin sono legati da tempo da un interesse reciproco. Per il primo, l’arricchimento; per il secondo, il ricorso a una forza ibrida di dispiegamento rapido che faccia da braccio militare alle ambizioni imperiali del Cremlino. Come uno stato fantoccio, un esercito fantoccio, nel senso però molto serio di un soggetto a cui si possa demandare il lavoro sporco, e da cui ci si possa dissociare a livello ufficiale appena serve. Braccio duttile e flessibile: i miliziani di Prigozhin sono in Medio Oriente (come in Siria), Caucaso, Africa (dalla Libia a una serie di stati sub-sahariani finiti in parte sotto la protezione di Mosca grazie a colpi di stato militari), e in Venezuela. I suoi hacker lavorano a pieno regime sulle reti sociali di quattro continenti – inclusa la stessa Russia, in cui alimentano un discorso populista e anti-élite funzionale alla strategia politica del loro capo.

In effetti, tutto questo non poteva avvenire senza calpestare alcuni piedi molto importanti. Prigozhin ce l’ha in particolare con Sergej Shoigu, il ministro della Difesa russo, “colpevole” di ostinarsi a considerare le truppe Wagner alla pari dei soldati comuni sul fronte ucraino – e dunque di non risparmiarle dal macello a cui le truppe regolari russe sono sottoposte. Per inciso, il ricorso alle truppe mercenarie sarebbe vietato dalla legge, ma l’appalto delle funzioni di sicurezza e difesa dello Stato conviene troppo a Putin, che tuttavia si giustifica asserendo che è la Russia a guadagnare dai mercenari, e non il contrario. Così, Shoigu è stato accusato da Prigozhin di boicottare Wagner, di ingannarla, addirittura di sparargli addosso nelle retrovie del fronte russo – e a riprova sono stati forniti alcuni video che nessuno ha ancora smentito. E’ proprio contro il ministro della Difesa che, venerdì 24 giugno, ha lanciato la sua sollevazione: “Non tollererò più oltre”, ha detto: “andremo a Mosca a fare giustizia”.

E così, 25mila mercenari Wagner (la cifra è di Prigozhin, potrebbero essere meno) sono passati dall’Ucraina a Rostov sul Don, città di un milione di abitanti dove hanno occupato degli uffici del quartier generale delle operazioni meridionali sul fronte ucraino (ospitato in una città vicina) e l’aeroporto militare, infliggendo un’umiliazione davvero significativa alle truppe russe incaricate del controllo di un centro così importante, a 150km dalla linea di combattimento. Entrati in incognito nella notte di venerdì (senza segni di riconoscimento, lo stesso metodo d’altronde che Putin aveva usato per occupare la Crimea nel febbraio 2014), sono stati poi accolti senza astio dalla gente di Rostov il sabato mattina. Dopo aver diffuso un paio di video in cui si facevano beffe di due generali russi catturati sul posto, avevano dichiarato l’intenzione di marciare su Mosca, a 800km di distanza verso nord, via autostrada, ed erano partiti. A Mosca, nessuno si aspettava nulla del genere: alla notizia molti dei pesci grossi scappavano, chi a Dubai chi a San Pietroburgo – cioè vicino all’odiata frontiera NATO, evidentemente percepita come più sicura della capitale russa: lo stesso aereo di Putin era dato dal sito Meduza in partenza alle 14.16, senza poter specificare se il presidente russo fosse a bordo o meno. Venivano evacuati i quartieri centrali e quelli delle sedi governative, e si disponevano il blocco delle strade e il taglio dei ponti sulle arterie che portavano in città da sud. Arrivato a meno di 200km dalla capitale, però, Prigozhin annunciava il dietrofront: “non voglio spargimenti di sangue”, “tutto è andato secondo i piani”. A quel punto, mentre Putin aveva detto poche ore prima che “il traditore rinnegato sarà punito”, il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov annunciava che non ci sarebbe stato nessun procedimento contro il capo di Wagner, lasciando intendere il raggiungimento di un compromesso.

L’itinerario della “marcia” di Prigozhin

 

Quale compromesso? Prigozhin aveva fondato la sua milizia mercenaria grazie ai miliardi del suo luccicante impero food: nel suo locale di San Pietroburgo, New Island, avevano cenato solo nel 2002 oltre a Putin anche George W. Bush e Nicolas Sarkozy; ma certamente più fruttuoso era l’appalto che gli affidava la fornitura di tutto il cibo a tutto l’esercito russo, un miliardo di euro l’anno secondo Forbes, a riprova degli appoggi di Prigozhin ai piani più alti della gerarchia politica russa. Nulla sarebbe potuto accadere senza l’approvazione di Putin. Obbiettivo della nuova milizia: guadagnare ancora di più. L’idea era stata condivisa dall’addestratore in capo, Dmitri Utkin, soprannominato “Wagner” perché tra le sue manie neo-naziste c’era l’adorazione smodata per il compositore preferito da Hitler, che diede poi il nome a tutto il gruppo.

Il cuore del conflitto con Shoigu, quindi, è tutto qui: il ministro della Difesa, insieme al Capo di Stato maggiore Gerasimov, vuole che i mercenari di Wagner (molti dei quali contrattati in Medio Oriente e Africa, o nelle prigioni russe) continuino a combattere in prima linea in Ucraina, a “morire per Mosca” insomma. Ma ormai è chiaro che da guadagnare c’è ben poco, da quelle parti: il Paese è distrutto, le prospettive di successo sono misere, legate soprattutto alla sfumatura da dare alla parola “fallimento”, l’esercito avversario è agguerrito e determinato, non c’è più niente da prendere. La vittoria-carneficina di Bakhmut, mesi di combattimenti feroci attorno a una cittadina che prima della guerra aveva 70mila abitanti e oggi conta sì e no qualche fantasma che vive tra campi di rovine, è stata una svolta. Per i wagneriti, meglio allora il Mali, dove la nuova giunta militare al potere paga (secondo stime) la protezione del gruppo mercenario 10 milioni di dollari al mese. Meglio il Burkina Faso dove, secondo l’accusa del presidente del Ghana, l’impegno dei mercenari è remunerato con la concessione di una miniera d’oro. In Africa si ruba e si uccide senza conseguenze. Dal canto loro, Shoigu e Gerasimov non vogliono che Prigozhin si tiri fuori dal pantano ucraino, lasciando a loro e soltanto a loro l’onere della colpa che Putin dovrà pur scaricare su qualcuno, dovessero le cose peggiorare ancora. In molti sottolineano, da questo punto di vista, l’esodo di alti ufficiali dall’esercito regolare ai ranghi di Wagner, più “convenienti”.

 

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La (mezza) marcia di Prigozhin verso nord può suonare allora come un avvertimento: “guarda cosa sono capace di fare”. E’ innegabile infatti che la Russia di Putin ne esca in maniera farsesca. Un Paese preso in ostaggio per un giorno da una masnada di mercenari che se ne va a passeggio per centinaia di chilometri senza che nessuna forza pubblica riesca a fermarla – a parte uno scontro nei pressi di Voronez, chiuso secondo alcune fonti con l’abbattimento di ben sei velivoli dell’esercito regolare grazie ai lanciarazzi wagneriti, con 13 vittime. Non riesce a fermarla perché le truppe non ci sono? Perché i soldati non obbediscono ai comandi? Perché gli ufficiali sono inetti? Ciascuna delle tre ipotesi è molto imbarazzante per il potere putiniano. Un presidente di cui si mitizza il potere assoluto e il consenso, che assiste alla messa in piazza mondiale delle lotte intestine al proprio regime, e che si trasforma in un giorno da mito intoccabile a bersaglio mobile. Un regime, appunto, di cui i fatti espongono la dipendenza delle scelte strategiche dalla sete di famelici oligarchi più che dall’obbedienza a chissà quali regole e condizionamenti geopolitici.

Prigozhin saluta i suoi
e lascia Rostov nella serata di sabato 24 giugno

 

Il corpo mercenario di Prigozhin assume così le caratteristiche non più del braccio armato alle dipendenze dello Stato, ma di un soggetto autonomo capace di esprimere la propria volontà. Forse addirittura capace di imporla? Lo sveleranno gli eventi dei prossimi giorni, ma intanto è stato dichiarato che il “traditore rinnegato” Prigozhin non sarà più processato e può lasciare la Russia. La mediazione – confermata – dell’autocrate bielorusso Lukashenko e la possibilità che l’”ordine” potesse essere riportato da miliziani ceceni all’ordine di Kadyrov, che si sarebbero dovuti scontrare con i Wagner – poi non si sono visti – non fanno che confermare queste dinamiche. I commenti della tv pubblica russa – “la mediazione di Lukashenko entrerà nella storia” – e del ministro degli Esteri Sergej Lavrov – “nessuno toccherà le attività di Wagner in Africa” – e dello stesso Prigozhin – “non abbiamo mai voluto rovesciare il governo” – alimentano la sensazione di essere di fronte a un regolamento di conti soltanto mascherato da iniziativa politica.

 

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Difficile altrimenti dire esattamente perché Prigozhin si sia fermato. Ha tentato davvero un colpo di stato, che però non si è materializzato? Aveva esagerato a credere che l’entourage politico-militare sarebbe passato con lui? Voleva soltanto mandare un messaggio a Putin (definito “ingannato”) e spaventare i suoi nemici? E Putin potrà mai lasciare impunita la sceneggiata messa in atto dal capo della Wagner, nonostante l’apparente happy end che ha chiuso la vicenda? Non va dimenticato, per il futuro, che i soldati russi sono molto sensibili alla propaganda orchestrata da Prigozhin contro il ministero della Difesa e lo Stato maggiore, ritenuti i primi responsabili delle loro disgrazie in Ucraina: forse è proprio questo il motivo principale per cui “il ribelle” è ancora vivo. Senza dubbio, considerando il grado dei nemici di Prigozhin, il Gruppo Wagner avrà un altro compito d’ora in poi: quello di guardia del corpo del suo capo.

Intanto si può almeno affermare che è iniziata una nuova fase: la guerra che Putin ha definito “esistenziale” lo è diventata fino in fondo, soprattutto per il leader del Cremlino. E’ chiaro, da ormai troppi segnali, che Mosca la sta perdendo. Nel mondo ispanico, il pronunciamiento è una speciale forma di colpo di stato in cui i protagonisti, di solito dei militari, non si muovono direttamente per prendere il potere, ma “dichiarano” all’opinione pubblica la propria posizione di dissidenza e contrarietà, con l’obbiettivo di provocare un cambiamento nelle gerarchie di comando senza usare la violenza, ma soltanto minacciandola. Se vogliamo leggere l’insubordinazione di Prigozhin come una dichiarazione, da interpretare anche con le sfumature delle logiche paramafiose dello stato oligarchico russo, possiamo capire in quale altro modo Putin potrebbe pagare la decisione di invadere l’Ucraina: i cambiamenti in una struttura di potere possono essere anche graduali e poco intellegibili, ma i mutamenti al vertice arrivano poi in modo improvviso.