La ribellione dell’M23 e l’instabilità cronica del Congo orientale
Il gruppo paramilitare M23 ha conquistato Bukavu, capitale provinciale del Kivu Sud, nella Repubblica Democratica del Congo, il 17 febbraio 2025, senza incontrare resistenza da parte dell’esercito governativo. Con l’ingresso nel centro urbano da oltre un milione di abitanti, i ribelli di etnia tutsi, supportati e diretti dal vicino Ruanda, ora controllano le due città più grandi della regione orientale del grande paese africano, avendo già preso possesso di Goma, capitale del Kivu Nord, in cui vivono due milioni di persone, il 27 gennaio precedente, dopo una battaglia durata appena tre giorni.
Si stima che siano centinaia di migliaia i tutsi residenti nella Repubblica Democratica del Congo, comprese decine di migliaia di persone nel Kivu Sud appartenenti alla comunità Banyamulenge, che mantiene forti legami coi tutsi ruandesi. Costituiscono comunque una ristretta minoranza etnica nel paese congolese, dove vivono 115 milioni di persone appartenenti a circa 250 gruppi etnici, in larga maggioranza parlanti lingue della famiglia bantu.
L’M23, uno degli oltre cento gruppi armati attivi in Congo, è composto in netta maggioranza da tutsi congolesi. Sostiene di battersi per mettere fine alle persistenti discriminazioni di cui l’etnia ha effettivamente sofferto per mano del governo centrale di Kinshasa sin dall’indipendenza del paese nel 1960. La formazione è nata nel 2012 a seguito dell’ammutinamento di soldati congolesi che in precedenza erano stati parte di un’altra formazione ribelle a guida tutsi, il Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP). I miliziani erano stati integrati tra le fila delle forze armate regolari a seguito di un accordo di pace, a loro dire poi disatteso nei suoi termini più importanti, siglato col governo il 23 marzo 2009.
Da sempre supportato e finanziato dal Ruanda, l’M23 ha concluso la sua prima ribellione con una cocente sconfitta dopo appena un anno, riparando nei campi profughi in Uganda. Dopo una prima infruttuosa incursione in Congo nel 2017, su iniziativa personale del comandante Sultani Makenga, l’M23 ha ripreso le armi nel 2021, dopo che i negoziati col governo congolese sono andati in stallo.
L’attuale campagna dell’M23 è cominciata a marzo 2022 dalle roccaforti dei ribelli al confine ruandese e si è intensificata nel gennaio di quest’anno, quando nuove offensive gli hanno permesso di conquistare città e territori strategicamente importanti in tutta la provincia settentrionale, per poi prendere il controllo di parte di quella meridionale. A fine gennaio, l’area sotto l’influenza dei paramilitari era già stimata ad almeno 7.800 km2, un’estensione pari a quella del Friuli-Venezia Giulia. Il conflitto ha già causato gravi conseguenze umanitarie a spese della popolazione civile: dall’inizio dell’anno oltre 700.000 persone sono sfollate e quasi 3.000 sono state uccise. Tutte le parti, comprese le Forze armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC), si sono inoltre rese responsabili di terribili violazioni dei diritti umani quali esecuzioni sommarie, stupri e reclutamento di minori.

Il Ruanda dietro l’M23 e l’intervento degli altri attori regionali tra diplomazia e conflitto
Il successo dell’avanzata del gruppo paramilitare è attribuito al massiccio coinvolgimento del Ruanda, dato per certo dagli osservatori internazionali ma negato dal presidente del Paese Paul Kagame – anch’egli, come i ribelli, appartenente all’etnia tutsi. Secondo un report delle Nazioni Unite dello scorso luglio, ci sarebbero 4.000 militari della Forza di Difesa del Ruanda (RDF), stima peraltro conservativa, a fianco di altrettanti paramilitari dell’M23. Il sostegno di Kigali avrebbe inoltre permesso ai ribelli di acquisire un crescente grado di sofisticazione bellica, inclusi l’utilizzo di armamenti avanzati, compresi missili terra-aria, droni per la ricognizione e potenzialmente per attacchi mirati, attrezzature per la visione notturna, sofisticati sistemi di comunicazione e coordinazione delle tattiche. Caratteristiche che li rendono nettamente superiori agli oltre cento altri gruppi armati non statali operanti nel Congo orientale, ma anche alle stesse forze armate congolesi.
Nonostante il negazionismo di facciata del governo ruandese, il piccolo ma ben armato Stato africano è stato invitato come controparte della Repubblica Democratica del Congo ai colloqui mediati dall’Angola che avevano portato a un primo cessate il fuoco il 31 luglio scorso, infranto l’ottobre successivo con la ripresa dell’avanzata dell’M23. Kigali ha poi cercato di distanziare nuovamente la propria immagine da quella dei ribelli nel secondo round di trattative. Queste ultime sono anzi andate a vuoto proprio per l’insistenza di Kagame affinché il governo congolese negoziasse direttamente con la formazione paramilitare. Postura mantenuta dall’autocrate ruandese anche durante il vertice interafricano tenutosi a Dar es Salaam, in Tanzania, lo scorso 8 febbraio. Durante la riunione, sia la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (SADC) sia la Comunità dell’Africa orientale (EAC) – di cui peraltro il Ruanda è teoricamente parte – hanno esortato vanamente tutte le fazioni a fermare i combattimenti e intavolare colloqui di pace.
Un’iniziativa dietro cui si celano peraltro le difficoltà dei corpi di spedizione militari inviati da entrambe le organizzazioni a sostegno delle FARDC contro l’M23. Venti peacekeeper di SAMIDRC, la missione SADC, sono stati uccisi in combattimento dai ribelli; quattrodici erano sudafricani, e Pretoria ha conseguentemente inviato centinaia di truppe di rinforzo. L’ EACRF, che invece è la missione dell’EAC, deve fare i conti, a seguito della caduta di Bukavu, con il ritiro delle truppe del Burundi, che pure aveva schierato sul campo oltre 8.000 uomini. Inoltre, resta ambiguo il posizionamento dell’Uganda, altro membro dell’organizzazione: secondo le Nazioni Unite, il Paese avrebbe permesso il passaggio di uomini e mezzi ruandesi e ribelli sul suo territorio. Le truppe di Kampala sono del resto anch’esse presenti in territorio congolese, impegnate a ricacciare lontano dal confine tra i due Paesi i jihadisti ugandesi delle Allied Democratic Forces, oggi in parte affiliati allo Stato Islamico.

I “blood minerals”
Il coinvolgimento di Ruanda e Uganda nel conflitto congolese orientale è ricondotto soprattutto allo sfruttamento delle risorse di cui è ricca la regione, in particolare – ma non solo – quelle minerarie. A maggio 2024 l’M23 si è impadronito della miniera di Rubaya, che ammonta al 15% della produzione mondiale di coltan, il minerale da cui si estrae il tantalio, essenziale per la fabbricazione dei condensatori degli smartphone e dei computer. Secondo le Nazioni Unite i paramilitari controllerebbero il contrabbando di circa 120 tonnellate al mese di coltan in Ruanda, incassando così almeno 800.000 dollari mensili.
L’importanza di questo traffico illecito nell’alimentare il conflitto ha spinto il Parlamento Europeo, lo scorso 14 febbraio, a chiedere all’Unione Europea di annullare il protocollo d’intesa siglato l’anno scorso con Kigali proprio per favorire la fornitura ai Paesi europei di tantalio e altri minerali ritenuti necessari per la transizione ecologica. Lo stesso presidente congolese Tshisekedi, ispirato forse dall’accordo che il governo Trump vorrebbe imporre all’Ucraina, ha definito il protocollo “uno scandalo” e ha chiesto a Unione Europea e USA un maggiore sostegno, offrendo in cambio un migliore accesso alle ricchezze minerarie del paese, oggi per lo più sfruttate dalla Cina.
Non è un tentativo destinato automaticamente a fallire, visti i precedenti. Lo scorso dicembre, un’azione legale intentata dalla RDC contro le filiali francese e belga di Apple con l’accusa di impiegare questi cosiddetti “blood minerals” nella sua filiera ha spinto il colosso tecnologico, che pur ha respinto le accuse, a dichiarare di aver chiesto ai propri fornitori di sospendere l’utilizzo di minerali congolesi e ruandesi.
L’M23 e il Ruanda sarebbero inoltre coinvolti, come molti altri gruppi armati e attori regionali, nel contrabbando dell’oro. Le Nazioni Unite stimano che ogni anno almeno 700 milioni di dollari in oro, estratto illegalmente da soggetti privi di permessi governativi, vengano contrabbandati dal Congo orientale, per lo più in Ruanda, Uganda e poi negli Emirati Arabi Uniti, prima di essere riciclati e immessi sui mercati globali. Nel 2023, in particolare, gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato di importare circa 885 milioni di dollari in oro dal Ruanda, con un aumento del 75% rispetto alla media quinquennale precedente, secondo un’analisi Reuters delle Nazioni Unite, nonostante Kigali non sia un grande estrattore del biondo metallo. Con la recente cattura da parte dell’M23 della città mineraria di Lumbishi e di Bukavu, uno dei centri regionali del commercio aurifero, è possibile che il contrabbando d’oro possa aumentare la sua importanza come fonte di finanziamento per i ribelli.

Le tensioni etniche e il problema della pacificazione
È tuttavia errato interpretare la campagna dell’M23 unicamente come uno schema criminale per l’arricchimento dei suoi vertici, e dei suoi protettori ruandesi. Dietro questo che è solo l’ultimo acuirsi di uno stato di conflitto permanente, che insanguina ormai il Congo da trent’anni, ci sono anche perduranti tensioni etniche, a loro volta riflesso delle rivalità per la terra e per il potere. L’M23 afferma di voler difendere i tutsi congolesi, dalla discriminazione e dai soprusi delle autorità governative, così come il Ruanda sostiene di volersi difendere dai miliziani delle Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), costituite dagli estremisti hutu ruandesi responsabili del genocidio del 1994, riparati quello stesso anno in Congo, dove tuttora operano, dopo essere stati sconfitti in patria dalle forze del Fronte Patriottico Ruandese di Kagame.
Al di là della complessità della verità dietro ai proclami, è evidente che la risoluzione di questo e degli altri principali conflitti del Congo orientale non potrà essere solamente militare: la sconfitta patita dall’M23 nel 2013 non è stata evidentemente sufficiente a decretarne la fine. Le parti in causa dovranno affrontare le cause profonde del conflitto: ponendo fine alla discriminazione dei tutsi da parte del governo di Kinshasa, attuando un pieno reintegro dei miliziani nella società civile e promuovendo un processo di riconciliazione.
Questo richiederà anche che i paesi confinanti, a partire dallo stesso Ruanda, pongano fine alla loro ingerenza destabilizzante in Congo, un obiettivo a cui le potenze occidentali possono contribuire esercitando forme di pressione diplomatica e, come abbiamo visto, anche economica. Nonostante le innumerevoli difficoltà, e le altrettante innumerevoli complicazioni, che tali sforzi richiedono, non vi è altra strada per il raggiungimento di una pace duratura. L’unica alternativa è il proseguimento infinito della spirale di violenza.