La partita geopolitica aperta in Asia centrale
La guerra scatenata da Mosca contro l’Ucraina e i suoi esiti, opposti alle aspettative del Cremlino, stanno accelerando la perdita di influenza della Russia sulle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Un processo già iniziato da alcuni anni, anche grazie alla presenza in aumento delle diplomazie di Cina e Turchia, entrambe intenzionate a incrementare il proprio peso in questi territori, strategici sotto diversi punti di vista.
Ma la posizione di Mosca, negli ultimi mesi, si è ulteriormente indebolita e, come se non bastasse, la mobilitazione parziale annunciata dal presidente russo lo scorso 21 settembre rischia di creare nuovi motivi di tensione, soprattutto con il Kazakistan, il Paese più importante della regione e l’unico a condividere un confine con la Russia. Un sentiero senza ritorno, frutto della scellerata decisione di invadere l’Ucraina, ma anche di una effettiva perdita di autorevolezza, causata anche da una gestione delle relazioni bilaterali, da parte di Mosca, di stampo ancora sovietico.
«A partire dal 24 febbraio 2022 – spiega ad Aspenia online Alexander Dubowy, analista specializzato nello spazio post-sovietico – la Russia ha perso controllo e influenza su molte ex repubbliche sovietiche, incluse quelle dell’Asia Centrale. Questo è avvenuto a causa della brutale guerra contro l’Ucraina e dell’incapacità delle forze armate russe di prendere il controllo del territorio e avere la meglio sulla resistenza ucraina. Ci sono poi da ricordare alcuni annunci particolarmente aggressivi, come quello di Dmitrij Medvedev, che nelle scorse settimane ha lasciato intendere che la parte nord del Kazakistan potrebbe subire la stessa sorte dell’Ucraina. Questo ha creato un profondo disagio in tutta la regione».
La dimostrazione più evidente di quanto la Russia sia stata ridimensionata, sono state le immagini lo scorso settembre provenienti dal vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), nato inizialmente per riunire i Paesi che gravitano sulla via della Seta e che si sta trasformando sempre di più in una cordata di Stati in funzione anti-occidente e a trazione cinese. A Samarcanda, che ha ospitato il summit, Vladimir Putin è stato il leader più snobbato e le sue speranze di ottenere un appoggio, militare ed economico, da parte della Cina che lo aiutasse nel prosieguo della guerra, sono andate completamente infrante. Al capo del Cremlino non è rimasto altro che osservare come il suo alleato di convenienza, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, sia stato accolto in maniera completamente diversa, ossia come leader in ascesa.
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Ma il segnale a Mosca che qualcosa stava cambiando era già arrivato due mesi prima. In luglio si è tenuto il quarto vertice dei Capi di Stato dell’Asia Centrale, ossia Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan. L’edizione di quest’anno è stata quanto mai importante. Il 2022 ha visto quasi tutti i Paesi della regione destabilizzati. In gennaio quasi 200 persone sono morte a causa di proteste in Kazakistan che hanno costretto il governo a chiedere aiuto proprio a Putin, che inviò uomini secondo quanto previsto dal CSTO, il Collective Security Treaty Organization, guidato da Mosca e del quale fanno parte, oltre alla Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan.
A inizio luglio, Uzbekistan e Tagikistan sono stati entrambi colpiti da ondate di ribellione provenienti dalle rispettive regioni autonome di Gorno-Badakhshan e Karakalpakstan. L’obiettivo del vertice è stato dare impulso a una maggiore cooperazione regionale e superare tutte le dispute territoriali in sospeso, prima fra tutte quella fra Kirghizistan e Tagikistan nella regione di Bakten. Più unione e meno contrasti portano indiscutibili vantaggi sotto molti aspetti, primo fra tutti, poter fare a meno dell’aiuto di Mosca per garantire la sicurezza nella regione.
Il presidente kazako, Kassym-Jomart Tokayev, ha voluto sottolineare come l’alleanza fra le cinque repubbliche ex sovietiche ‘non è stata creata per opporsi a Paesi terzi’. Ma appare chiaro che i Paesi della regione abbiano deciso di dare una declinazione diversa al loro futuro, sicuramente meno dipendente sotto più aspetti da quella Mosca che una volta era il centro di tutto. Soprattutto dopo questa guerra, che non è ancora finita, ma che ha già cambiato tutti gli equilibri geopolitici.
«Nello spazio post sovietico – continua Dubowi – il Kazakistan è sempre stato considerato tradizionalmente come l’alleato più stretto dopo la Bielorussia. Per questo Mosca si aspettava sostegno nel conflitto contro l’Ucraina. Dopo tutto, il Paese è stato sempre coinvolto negli sforzi di integrazione politica regionale compiuti da Mosca dopo la dissoluzione dell’Urss. E non dimentichiamo che il presidente Tokayev è riuscito a mantenere il suo potere nel gennaio 2022 proprio grazie al Cremlino. Però questo sostegno non è arrivato: al contrario la leadership kazaka ha enfatizzato in molte occasioni che non era sua intenzione riconoscere le Repubbliche di Donetsk e Lugansk e nemmeno di voler aiutare la Russia nell’aggirare le sanzioni occidentali. Ricordiamo poi le modifiche costituzionali apportate da Tokayev, per attuare un maggiore bilanciamento dei poteri e la proposta di inizio settembre, di concedere l’amnistia a chi ha partecipato alle rivolte di gennaio e anticipare le elezioni presidenziali. Appare chiaro che voglia mandare un messaggio a Stati Uniti e Unione Europea, anche per acquisire più credibilità. Non ci dimentichiamo però che non potrà voltare le spalle del tutto alla Russia, perché un quinto dell’export nazionale finisce proprio lì».
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Oltre alla dipendenza sulla sicurezza, le repubbliche dell’Asia Centrale stanno cercando di diminuire anche quella economica. Ma, anche qui, si tratta di una differenziazione degli interlocutori da attuare con prudenza. Come fa notare Dubowy, anche se sta attraversando un momento particolarmente delicato e dagli esiti incerti, la Russia rimane comunque il principale partner del quintetto.
Da tempo però Kazakistan e Uzbekistan hanno iniziato a rivolgersi altrove, seguiti a ruota dagli altri tre Paesi. Astana sta cercando rotte del gas in grado di aggirare la Russia, con il presidente Tokayev che ha fatto pervenire la disponibilità ad aumentare i flussi diretti all’Unione Europea. Le attenzioni dei cinque, però, sono dirette soprattutto a est. Il Sudest asiatico è l’area dove le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale stanno concentrando le loro attenzioni, soprattutto per le opportunità commerciali che offrono. Oltre ovviamente alla Cina e alla Turchia, gli altri due big player dell’area, che da tempo stanno dedicando a questi Paesi molte attenzioni.
La guerra in Ucraina rischia poi di incidere anche sotto un altro aspetto. Mosca, per decenni, ha rappresentato per gli Stati dell’Asia Centrale un polo di attrazione, la meta dove andare a studiare e lavorare per ambire a un futuro migliore. L’inizio del conflitto e il deterioramento delle prospettive economiche ha portato migliaia di kazaki, uzbeki, kirghisi a lasciare la Russia, facendo ritorno nei loro Paesi d’origine. Astana sta anche gestendo la presenza di quasi 200mila russi sul suo territorio nazionale, scappati a causa della mobilitazione parziale indetta da Putin, e ai quali ha garantito asilo purché non abbiamo precedenti penali nel loro Paese. Un ribaltamento dei ruoli e un guanto di sfida lanciato al presidente.
Le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale iniziano ad andare per la loro strada. Il problema è che Mosca, non solo non può fermarle; ma non ha nemmeno risorse, economiche o di altro tipo, per fare cambiare loro idea.