La parabola della politica estera e di difesa sotto Trump
Un anno dopo l’insediamento, l’intero impianto di politica estera e di difesa che era stato presentato in campagna elettorale dal candidato Donald Trump sembra un pallido ricordo: l’America sta rafforzando (invece di ridurre, come promesso) la sua presenza in vari teatri operativi, oltre a spendere più risorse che in passato per il proprio apparato militare.
Questa rapida parabola si può forse attribuire a una sorta di apprendimento sul campo. Il Presidente, probabilmente anche sospinto dai suoi più stretti consiglieri, tratti dagli alti ranghi delle forze armate, si è reso conto che proprio la sua volontà di restituire all’America un ruolo di leadership – quel ruolo che la presidenza Obama avrebbe gravemente danneggiato, secondo la visione di Trump e di chi lo ha eletto – richiede di fare affidamento anzitutto sulla potenza militare. Si è infatti dimostrato impossibile, a più riprese e già dai primissimi mesi dell’amministrazione, raggiungere obiettivi ambiziosi per via diplomatica, almeno nei termini desiderati dal Presidente. La presunta forza negoziale insita nel “transactional approach”, che avrebbe dovuto poggiare sull’abilità di Trump come pragmatico uomo d’affari, non ha ad oggi prodotto alcun risultato tangibile.
Una rassegna sintetica dei dossier affrontati dal gennaio 2017 in poi è assai indicativa in tal senso: i punti nevralgici in cui gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti sono gli stessi, e soprattutto non ci sono prospettive di una minore esposizione americana in tempi brevi. Ciò vale per la maggiore crisi internazionale lasciata in eredità da Obama (Siria), la crisi che ha avuto un’ulteriore accelerazione (Nord Corea), e i due impegni militari “latenti” (Afghanistan e Iraq) che lo stesso Barack Obama aveva a sua volta ereditato da G. W. Bush. E’ così anche per lo Yemen – dove anzi è cresciuto l’appoggio americano alle operazioni militari saudite – e per i vari teatri in cui droni, forze speciali e piccoli contingenti di “consiglieri” o addestratori perseguono la lotta alle reti del terrorismo jihadista.
Guardando alla politica di Trump in Siria, troviamo un concentrato dei dilemmi politico-militari che Washington deve affrontare. Prima si sono avute alcune ipotesi (peraltro molto vaghe) di intesa con la Russia per una pacificazione del paese, dando per scontato che Bashar al-Assad, il dittatore che si sperava di rimuovere, sarebbe rimasto in sella; poi (aprile 2017) un brevissimo ricorso allo strumento militare, cioè un lancio di missili su una base aerea, proprio contro le forze di Assad (per la prima volta in modo diretto, dall’inizio del conflitto); infine una scomparsa americana dai radar della diplomazia internazionale, con la tesi che ISIS fosse l’unico vero nemico da sconfiggere, e una sorta di nemico mortale.
In effetti, ISIS nella sua configurazione di “califfato” è ormai sconfitto in territorio siriano e iracheno, e ciò è accaduto senza un massiccio coinvolgimento delle forze americane, o di altri paesi occidentali. D’altra parte Assad è ancora in sella, ma certo sta diventando evidente che né Russia né Iran, alleati del dittatore, possono “pacificare” a loro piacimento la Siria, ammesso che lo vogliano davvero. Vladimir Putin ha anzi ufficialmente indicato di voler ridurre la presenza russa sul terreno.
E’ presto per dire come gli assetti locali evolveranno, ma ad oggi non sembra che l’approccio prudente e per certi versi incerto di Obama – per molti critici una “non strategia” disastrosa – avesse reali alternative. Si è visto infatti che la sconfitta di ISIS (che era presto diventata l’obiettivo prioritario) non ha richiesto una simultanea eliminazione del regime di Assad, come vari interventisti hanno sostenuto a lungo; e si è anche visto che la mancanza di una forte presenza americana sul terreno non ha consentito ad altre potenze di prendere in mano la Siria – del resto, questo sarebbe probabilmente una sorta di bacio della morte per chi vi riuscisse. Le più recenti dichiarazioni del Segretario di Stato – per quanto da prendere cum grano salis, visto il suo rapporto non proprio cristallino con il Comandante il Capo – suggeriscono che Washington sia preparata a restare militarmente nel Paese a tempo indeterminato, soprattutto per contrastare la penetrazione iraniana.
In breve, la linea seguita dall’attuale amministrazione in Siria è difficile da distinguere davvero rispetto a quella della presidenza Obama, a parte (dato importante) l’enfasi sullo scontro quasi frontale con l’Iran, che però non influenza granché il dispiegamento di forze.
Diversa la valutazione che si può dare delle scelte di di Trump verso la penisola coreana, che ricordano l’andamento delle montagne russe: l’atteggiamento del Presidente è stato molto più aggressivo e impaziente, ma anche molto erratico. Dopo aver minacciato espressamente l’uso della forza per distruggere il regime nordcoreano (in modo bizzarro, senza menzionare le implicazioni per le popolazioni civili del Nord, ma anche del Sud), sono arrivati scambi di insulti reciproci con Kim Jong-un, e poi le dichiarazioni del Presidente a smentire una disponibilità americana al dialogo ipotizzata dal Segretario di Stato Rex Tillerson. Washington intanto intensificava le pressioni su Pechino perché interrompesse ogni forma di sostegno a Pyongyang; pochi mesi dopo, improvvisamente lo stesso Tillerson affermava che Washington era davvero disposta a intavolare un negoziato, assieme a Cina e Sud Corea, perfino “senza precondizioni” – con inevitabile smentita della Casa Bianca stretto giro. All’inizio dell’anno sono poi arrivate le nuove aperture sudcoreane verso il Nord nell’occasione delle imminenti Olimpiadi invernali, un qualche riconoscimento (direttamente da Trump) del ruolo costruttivo svolto negli ultimi mesi dal governo cinese, e invece una critica al sostegno russo a Pyongyang.
Insomma, davvero arduo rintracciare una “linea” politica in questa ricerca spasmodica di una soluzione rapida e quasi magica per la penisola coreana. Quanto alla retorica e ai mille tweet, si potrebbe ricorrere a Shakespeare: “molto rumore per nulla”. L’unica opzione che è stata di fatto esclusa è quella di un negoziato classico nel formato multilaterale. Intanto, l’amministrazione Trump si ritrova al punto di partenza, dove ha preso in mano il testimone da Barack Obama, con l’aggravante che nel frattempo i missili nordcoreani sono in grado di colpire più lontano.
In tutto ciò, la National Security Strategy pubblicata lo scorso dicembre enfatizza il ruolo di Cina e Russia – entrambe, senza troppe sottili distinzioni – come avversari strategici. Ma sono proprio i due Paesi ai quali Washington dovrebbe rivolgersi per intavolare una qualche trattativa con la Corea del Nord, e naturalmente la Cina è un fondamentale partner commerciale oltre che una potenza economica globale di primo rango. Ecco allora che si può meglio spiegare l’approccio “proattivo” alla presenza militare americana che sta emergendo – perfino nei vecchi “pantani” iracheno e afgano che Trump voleva tanto abbandonare al loro destino. Visto che fare la voce grossa non porta risultati, ma neppure l’arte dei negoziati bilaterali ha dato grande prova di sé, resta l’arsenale militare della superpotenza, da brandire spesso e da rinnovare.
Il ciclo di investimenti nella difesa che gli Stati Uniti stanno avviando non si accompagna, come si poteva pensare un anno fa, a una scelta più selettiva degli impegni internazionali; al contrario, al riarmo sia convenzionale, sia nucleare, sia in ambito “cyber“, corrisponde un ampliamento del ventaglio operativo. Il quesito è semmai quali scelte diplomatiche ed economiche verranno fatte in sinergia con questa postura di sicurezza e difesa. Ma è praticamente impossibile fare una previsione o anche solo una proiezione razionale, dopo le continue fibrillazioni del primo anno di amministrazione Trump.