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La pandemia e il futuro di Eurafrica

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Ricorrono il 9 maggio i settanta anni dalla Dichiarazione del ministro degli Esteri francese Robert Schuman, che nel 1950 gettò le basi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, tappa fondativa della costruzione di scopi e strumenti comuni. Sarà l’occasione per approfondire la riflessione in corso sul futuro dell’Unione. Ma dovrà essere anche l’occasione per allargare gli orizzonti e per allungare lo sguardo. Pochi forse ricorderanno che nella dichiarazione si trova un riferimento all’Africa, sia pure in un contesto storico diverso. “L’Europa – disse Schuman – potrà, con mezzi accresciuti, perseguire l’attuazione di uno dei suoi compiti fondamentali: lo sviluppo del continente africano”. L’Europa unita nacque anche su queste basi.

L’Africa sta pagando oggi un costo, che è destinato a crescere, alla pandemia. Certo, alcuni paesi sono colpiti più di altri, Sudafrica in testa. Ma in generale l’accesso alla rete idrica rimane nel continente scarso (10% in Niger, 15% in Tanzania, 20% in Guinea); il distanziamento sociale è difficile, se non impossibile, nelle baraccopoli dove in molti paesi vive la gran parte della popolazione urbana (90% in Sudan, 80% in Mozambico, 70% in Etiopia); il lockdown è contraddittorio in un continente dove circa l’80% della popolazione attiva, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, è occupata nel settore informale. Non si tratta di scegliere tra economia e salute, ma tra sopravvivenza e sopravvivenza.

Un murale di prevenzione contro il coronavirus in Senegal

 

A livello macroeconomico incidono il crollo dei prezzi delle materie prime, la fuga dei capitali e il declino delle rimesse, l’incremento degli spread sovrani. Lo spazio fiscale ridotto, già scarso, limita la possibilità di intervento pubblico. Vi è poi il problema del debito estero, con al suo interno una esposizione debitoria che negli ultimi due decenni è cresciuta verso la Cina (sei paesi hanno elevate “commodity exposure” e “China exposure”: Angola, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Guina Equatoriale, Mauritania, Zambia). La Banca Mondiale prevede una recessione tra il 2,5 e il 5% nel 2020, con contrazioni significative nei tre grandi dell’economia subsahariana, la Nigeria (il cui PIL è il 40% del continente), il Sud Africa, l’Angola. A fronte di ciò, sono state già avanzate proposte di respiro globale che vanno da una moratoria sul servizio del debito estero fino all’emissione aggiuntiva di “Diritti speciali di prelievo” per incrementare del 10% le disponibilità dei paesi in via di sviluppo (ma India e Stati Uniti si oppongono). Secondo la Banca mondiale, l’Africa ha bisogno di uno stimolo di 100 miliardi di dollari (di cui 44 miliardi per la moratoria).

All’inizio del suo mandato, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato che avrebbe dato alla sua azione una forte impronta geopolitica: non si riferiva soltanto alla Cina, alla Russia o agli Stati Uniti. Il suo primo viaggio fuori dall’Unione, a fine febbraio, è stato ad Addis Abeba, in Etiopia, per incontrare i vertici dell’Unione Africana (UA), la cui struttura ricalca quella dell’Unione Europea (inclusa la prospettiva di lungo termine di una valuta comune, l’Afro). In autunno vi sarà il summit triennale UE-UA. La pandemia coglie l’Africa nel pieno di una grande trasformazione, legata alla nascita, inizialmente prevista per il prossimo luglio, della African continental free trade area (Afcta), l’area di libero scambio continentale: il mercato comune più popoloso del mondo, con 1,3 miliardi di persone, che diventeranno 2,5 nel 2050.

L’Unione ha attivato, negli ultimi anni, strumenti di cooperazione e di co-sviluppo transcontinentale come l’Africa Investment Platform e lo EU-Africa Infrastructure Trust Fund. Ma restano limitati per scala e scopo. Non si può continuare a restare a guardare l’ascesa della Cina, dell’India o della Turchia nel continente. È vero che il 32% del commercio africano è con l’Unione Europea (il 17% con la Cina, il 6% con gli Stati Uniti). Ma non nascondiamoci dietro a un numero: dietro il 32% ci sono sempre singoli paesi e vecchi schemi in cui si compete per aree di influenza e mercati. L’Africa può trasformarsi e in parte si sta già trasformando (come hanno capito alcune aziende cinesi: per esempio in Uganda) anche in un hub industriale e manifatturiero. Ma fino a quando gli europei non riscopriranno la logica degli scopi e degli strumenti comuni (l’unità nasce dal fare insieme cose concrete), inclusi progetti e soggetti industriali plurinazionali, sarà impossibile non procedere in ordine sparso. L’Europa, a sua volta, può offrire molto: si pensi soltanto all’accumulazione di capitale umano, che è la grande ricchezza dell’Africa (ma solo il 10% dei giovani tra 18 e 24 anni seguono un programma di istruzione o di formazione post-scolastico).

La grande crisi del 1929 – spesso evocata – avviò processi irreversibili nel rapporto tra Nord e Sud del mondo (oltre che all’interno degli stessi paesi del Sud), rendendo ancora più inaccettabile la dipendenza coloniale. Né seguì una mobilitazione anche politica e sociale. La pandemia è un “evento-epoca”, che disegnerà le nuove relazioni – anche economiche – internazionali per i prossimi decenni, in larga parte accelerando processi già in corso.

Tutto è già in movimento – lo è sempre stato – mentre affrontiamo la pandemia: la corsa alle nuove tecnologie, i grandi investimenti infrastrutturali, i prezzi delle materie prime, i regimi politici. È stato ripetuto, nelle ultime settimane, che siamo “tutti sulla stessa barca”: si tratta però di definire chi sono quei “tutti” e quanto è larga la “barca”. Non lo suggerisce solo un senso di generosità e solidarietà, ma una più attenta considerazione dei nostri interessi di lungo termine, in un mondo che sarà relativamente più chiuso e in cui i blocchi regionali conteranno di più vis a vis i nuovi e vecchi imperi.

Africa ed Europa sono il più grande voting bloc all’interno delle Nazioni Unite. E possono collaborare in consessi come il G-20 e il WTO. Sono alleati naturali nella tenuta e nello sviluppo di un sistema aperto di relazioni internazionali, che è ciò di cui abbiamo tutti, in prospettiva, bisogno più di ogni altra cosa. Se il mondo si chiude come dopo il 1929, tutti – e non solo l’Africa – pagheremo un prezzo molto elevato.