La narrativa rivoluzionaria, tra gli stereotipi occidentali e le nuove generazioni
La memoria della rivoluzione islamica e la sua moderna percezione è oggetto di interpretazioni tanto diverse quanto contrastanti. La narrativa occidentale, che si è andata progressivamente affermando nel corso dei quarant’anni che ci separano dalla rivoluzione, è costruita sull’immagine della radicalizzazione e del ritorno del paese ad un oscurantismo di matrice religiosa, capace di portare l’Iran dai fasti della monarchia alla brutale violenza della teocrazia. La narrativa poggia sullo stereotipo del nemico, e cerca di sfruttare appieno la percezione di una memoria – alquanto distorta – di un passato fatto di grandeur, libertà e modernità.
L’arma della nostalgia
Come spiegato in modo eccellente da Alex Chams in un articolo del 2017 a proposito della percezione della società afgana degli anni ’60 e ’70, anche per l’Iran si è fatto spesso ricorso alla diffusione di immagini del passato per cercare di costruire una memoria ex post basata sul concetto di modernità, libertà e sviluppo.
Si tratta di un’operazione tutto sommato tanto semplice quanto efficace, di sicuro impatto nelle nostre società occidentali, mediamente prive di strumenti analitici per la verifica del messaggio e ormai culturalmente predisposte ad una lettura critica di tutto ciò che riguarda il mondo musulmano.
Anche nel caso dell’Iran, è soprattutto l’immagine della donna a dominare il confronto, anzitutto attraverso l’impari rappresentazione dell’abbigliamento odierno con quello degli anni Settanta.
A questa raffigurazione si accompagna l’impianto narrativo della modernità e dello sviluppo economico e industriale attuato dello Scià, visto come contraltare dell’arretratezza e del sottosviluppo dell’Iran odierno, stretto nella morsa delle sanzioni e dell’isolamento.
Ma è una percezione tanto forte e diffusa in Occidente, quanto errata e manipolatoria nella sua sostanza.
Se all’Iran odierno non possono essere risparmiate critiche, anche severe e su questioni di grande rilevanza come i diritti umani, la narrativa della comparazione con l’epoca monarchica nasconde una pericolosa frode interpretativa, che è funzionale ad esigenze ben diverse da quelle della chiarezza e del rigore storico.
La monarchia Pahlavi fu tutt’altro che un modello di sviluppo virtuoso e un sistema liberale. Dopo il colpo di stato che nel 1953 interruppe l’esperienza politica del primo ministro Mohammad Mossadeq, lo Scià Mohammad Reza Pahlavi trasformò l’istituto della monarchia in chiave assoluta, ripristinando le prerogative che furono di suo padre, Reza Khan, prima dell’esilio impostogli dagli alleati nel 1941 in conseguenza delle sue simpatie filo-naziste.
Il processo di modernizzazione della società e di rapida industrializzazione voluto dal giovane sovrano si rivelò alquanto difficoltoso sin dai primi anni Sessanta. Se, oggettivamente, le riforme sociali dello Scià incentivarono enormemente l’alfabetizzazione e innovarono profondamente i diritti delle donne, sul piano dell’economia il fallimento della riforma agraria e il processo di sviluppo basato sul massiccio ricorso alla manodopera specializzata straniera andarono a determinare una grave crisi occupazionale e una trasformazione problematica della società iraniana.
Masse di contadini e allevatori abbandonarono le aree rurali del paese per trasferirsi nei principali centri urbani, ingrossando periferie degradate e senza servizi, che diventarono il collettore della disoccupazione, e di un nuovo sottoproletariato gradualmente sempre più ostile ai programmi economici e sociali della corona. Una società a maggioranza rurale venne quindi urbanizzata in poco meno di vent’anni, alterando i tradizionali equilibri sociali del paese ed ampliando enormemente il gap economico tra i ceti più bassi e il piccolo ceto privilegiato che prosperava attorno alla corona.
Come ha puntualmente indicato Charles Kurzaman nel suo libro “The unthinkable revolution of Iran” (Harvard University Press, 2004), la rivoluzione non fu una sorpresa solo per l’Occidente, ma anche per gli stessi iraniani. Le grandi trasformazioni sociali dell’Iran degli anni Sessanta e Settanta vennero infatti del tutto ignorate dalla borghesia dei quartieri settentrionali di Teheran, caratterizzati dall’autoreferenzialità dell’opulenza e dall’arroganza con cui la monarchia e il suo entourage credettero di poter governare il paese.
Al tempo stesso, invece, nelle periferie meridionali della stessa capitale, tra le avanguardie culturali delle università e nella gran parte delle città di provincia e nei centri industriali, andò progressivamente prendendo forma un’ostilità feroce nei confronti dello Scià e del suo modello di sviluppo sociale ed economico. Un modello largamente basato sull’esclusione, sull’autoritarismo e sull’incapacità di comprendere i profondi mutamenti della società iraniana degli anni Settanta.
È in questo contesto che maturò e crebbe il vasto quanto eterogeneo ambito ideologico che dette poi corpo e forma alla rivoluzione a partire dalla metà del 1978. Ciò che i propugnatori dell’“arma della nostalgia” non riescono a spiegare è quindi proprio questo: come è stato possibile che in un contesto come quello dell’Iran del 1978 si sia sviluppata una rivoluzione – una vera rivoluzione – che non solo ha portato per strada milioni di cittadini, ma ha anche rovesciato un regime ritenuto sino a poco tempo prima tra i più stabili e promettenti della regione?
La transizione generazionale e il declino dell’epica rivoluzionaria
Oltre il 70% degli iraniani, oggi, è nato dopo la rivoluzione, e buona parte di loro dopo la fine della guerra con l’Iraq nel 1988: è quella che si definisce convenzionalmente la “terza generazione”. Ciò significa che questa enorme massa giovanile non ha alcun legame ideologico o personale né con l’epica costruita dalla Repubblica Islamica, né con quella eroica degli otto anni di conflitto con l’Iraq (1980-88), mancando in tal modo di qualsiasi elemento di connessione con i due pilastri fondanti del moderno stato iraniano.
I giovani ignorano in larga maggioranza le dinamiche rivoluzionarie, avendone solo qualche nozione scolastica, e solitamente ne abbinano il ricordo alla retorica politica nazionalista spesso ignorata se non addirittura rifiutata. Di fatto, dello Scià e della monarchia, così come della rivoluzione e della successiva guerra con l’Iraq, i giovani iraniani sanno ben poco: vanno a cercare altrove i propri riferimenti culturali e ideologici.
Al contrario, la narrativa rivoluzionaria rappresenta il pilastro ideologico della prima e della seconda generazione, sebbene per ragioni diverse. La prima generazione, ormai numericamente sparuta, è quella che la rivoluzione l’ha fatta e soprattutto vinta, fungendo da pilastro del nuovo impianto istituzionale. È quindi una generazione la cui legittimazione politica deriva in modo diretto e indissolubile dalla rivoluzione e dalla sua narrativa post-rivoluzionaria (quella emendata dalla presenza di forze esogene al contesto religioso).
Anche la seconda generazione ha un legame diretto con la rivoluzione, sebbene non per averla condotta quanto per averla difesa nel corso della lunga guerra con l’Iraq. La percezione del conflitto, nell’ottica iraniana, è quella non già di un mero quanto autonomo attacco iracheno ad un debole vicino, quanto quella di un tentativo da parte della comunità internazionale di impedire il consolidamento dell’Iran rivoluzionario. In questo conflitto si legittimò quindi il ruolo della Sepah-e Pasdaran, l’armata rivoluzionaria che si affiancò a quella regolare detta Artesh, ma che da questa si differenzia per la propria peculiare finalità, che non è quella di difendere il paese e i suoi confini (a questo è preposta l’Artesh) quanto i valori rivoluzionari della Repubblica Islamica.
Nessuna di queste prerogative interessa invece la terza generazione, quella numericamente predominante nel contesto demografico iraniano: la continuità e la propagazione della narrativa rivoluzionaria diventa dunque molto difficile per i vertici della Repubblica Islamica. Ha sopperito temporaneamente a questo problema, però, la rinnovata ostilità della Casa Bianca, con Donald Trump, nei confronti del paese. Questa ostilità in teoria si prefigge l’obiettivo di rovesciare il governo di Teheran per sostituirlo con uno più “vicino” all’Occidente, ma in pratica ha provocato una nuova fiammata del nazionalismo iraniano. Il nazionalismo, forse il vero coagulante socio-politico della società, è tornato ad assumere un connotato sociale preminente, a tutto vantaggio di quell’establishment istituzionale iraniano che la Casa Bianca vorrebbe abbattere.
Questa paradossale coincidenza di interessi, tuttavia, ha natura squisitamente temporanea e non risolve il problema di fondo della trasmissibilità della narrativa rivoluzionaria alle nuove generazioni, con la prospettiva di un rapido declino nell’ambito della società iraniana.
A quarant’anni dalla rivoluzione che rovesciò la monarchia dello Scià e determinò così importanti mutamenti in gran parte del Medio Oriente, quindi, la continuità dello spirito rivoluzionario è oggi affidata alla concezione strategica della politica estera e di difesa della Repubblica Islamica, ancora solidamente costruite sui principi rivoluzionari. Una concezione espressa dalla visione politica della prima e della seconda generazione della società iraniana, e che trova invece scarsa sponda nell’ambito del ben più vasto bacino della terza generazione: questa non esprima ancora, tuttavia, una sua classe politica ed una sua leadership istituzionale.