international analysis and commentary

La lunga alba dell’America

2,300

Il risultato delle elezioni americane è ancora sospeso, legato com’è al conteggio di tutti i voti espressi o a dati incompleti, negli Stati chiave del 2020: mancano ancora Pennsylvania e Georgia, North Carolina e Nevada, Arizona e Alaska. Finora, l’unica cosa certa è che i Democratici manterranno la maggioranza alla Camera; anche la composizione del Senato è ancora in bilico.

Una volta di più, lo spoglio elettorale è un momento chiave del voto americano

 

Eppure, dai 140 milioni di voti scrutinati finora è già possibile trarre delle conclusioni significative, che arrivano a smentire molte delle impressioni della vigilia. D’altronde, in tanti avevano avvertito che previsioni di qualsiasi tipo si dovevano prendere con le molle, in una elezione (meglio dire: un processo elettorale, che dura settimane) epocale, considerata dalla maggioranza degli americani come la più importante a memoria d’uomo, tenuto nel bel mezzo di una pandemia, e con più della metà dei voti espressi già prima dell’election day.

Intanto, la forza del candidato Joe Biden esce in qualche modo ridimensionata dalla notte elettorale: può di certo diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, ma se ciò avverrà la sua vittoria non avrà le caratteristiche del trionfo. Nel voto popolare, Biden otterrebbe al momento circa 4 milioni di voti in più di Donald Trump, vantaggio non troppo lontano da quello di Hillary Clinton nel 2016 – benché le schede mancanti potrebbero ampliare ancora il suo vantaggio.

Joe Biden

 

Di riflesso, emerge la tenuta della figura di Donald Trump nella società americana: il presidente uscente ottiene circa 68,4 milioni di voti, cinque milioni e mezzo in più della scorsa tornata. Un risultato che manda in fumo uno dei “miti” di questa elezione: il primo, che l’alta affluenza sarebbe stata una garanzia di successo per i Democratici. No, anche i Repubblicani sono andati al voto più che mai per sostenere il loro candidato, e questo grazie a una campagna in cui Trump non è sceso dal palcoscenico neanche per un attimo, con il risultato da un lato di mobilitare i propri avversari, ma dall’altro di ricompattare i suoi come non mai. D’altro canto, si può aggiungere che se Trump ha pur aumentato i suoi voti, la sua campagna di delegittimazione di Joe Biden e di tutto il processo elettorale è fallita.

Ma Biden non ha saputo capitalizzare l’entusiasmo di quell’”onda blu”, la più grande vittoria parlamentare dal 1974, che aveva trasformato le mid-term del 2018 in una grande rivincita della sinistra contro Trump, con l’effetto di dare al Partito Democratico la maggioranza alla Camera. Quella era stata una vittoria plurale e di ampie proporzioni: le tante anime dell’America che non si riconosceva nel suo presidente avevano portato una ventata di nuovi deputati al Congresso, di cui la più celebre resta la newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, appena riconfermata. Quando si è trattato di sintetizzare quella pluralità in un singolo, qualcosa non ha funzionato.

Alexandria Ocasio-Cortez

 

Prendiamo la contea di Starr, in Texas, al confine col Messico. Una delle aree più povere del paese, popolata al 96% da Latinos. Qui, Hillary Clinton aveva battuto Donald Trump 79% contro 19%. Anche Biden l’ha portata a casa, ma il suo vantaggio si è ridotto a 5 punti (52 a 47%). Cosa è successo? Nel 2016, i voti a Clinton furono poco più di 9.000, e più o meno gli stessi li ha ricevuti Biden. Ma i voti a Trump sono passati da 2.000 a 8.000. L’insuccesso di Biden tra i Latinos è stato generalizzato, e ha contato molto in sconfitte pesanti come la Florida, dove il sostegno degli ispanici ai Dem è passato dal 62% di Clinton al 51% di Biden. Se Biden perdesse anche la Georgia, tra le cause ci sarebbe di nuovo il calo del sostegno dei Latinos, dal 70 al 58%. E ancora il voto latino ha impedito che Biden si avvicinasse all’obbiettivo di conquistare proprio il Texas, dove il distacco dai Repubblicani si è comunque ridotto (da -9% a -6%).

Che l’elettorato latino povero voti il Partito Repubblicano è un premio alla campagna Trump, che su questo gruppo etnico aveva puntato molto: l’”invadente” politica della Casa Bianca rispetto agli affari latino-americani ha funzionato nel trasformare Trump in un punto di riferimento della minoranza più grande d’America. E allo stesso tempo è un cattivissimo segnale per il partito democratico e per la sua illusione di essere il referente diretto, quasi automatico, di tutte le minoranze negli Stati Uniti. D’altronde, molti ricorderanno che alle primarie democratiche in Nevada, Stato popolato per un terzo da abitanti di origine ispanica, i Latinos avevano inferto una cocente sconfitta a Biden, preferendogli addirittura Bernie Sanders.

 

Joe Biden potrebbe forse tirare un sospiro di sollievo solo in Arizona, uno dei pochi stati che i Dem avrebbero strappato (alcuni lo danno per certo, altri no) ai Repubblicani in confronto a quattro anni fa, il voto latino lo ha premiato, anche grazie a una lunga e capillare campagna organizzata contro il famigerato sceriffo italo-americano Joe Arpaio, conosciuto tra l’altro per i campi di prigionia allestiti nel deserto, per costringere i detenuti a pedalare su cyclette che avrebbero prodotto elettricità, e per le accuse di corruzione, condonate solo per mezzo di una grazia di Trump.

Ma non solo i Latinos hanno dato dispiaceri a Biden. Si diceva che i “maschi bianchi” erano quelli che avevano portato Trump alla Casa Bianca nel 2016, votando in massa per lui. Stavolta, il sostegno dei maschi bianchi per Biden è aumentato del 5%, cosa che gli ha permesso di conquistare diverse contee “suburbane”. Però il candidato democratico ha perso voti in tutte le altre categorie. Trump è cresciuto tra le donne bianche (+2%), tra gli afroamericani, maschi e femmine (+4%), e tra le altre minoranze (+5%).

Si tratta del secondo mito dell’elezione del 2020 andato in fumo: che l’evoluzione demografica – il peso dei millennial, la crescita delle minoranze, l’aumento dei laureati – fossero una garanzia di successo per i Dem. No: se Biden vincerà, la sua vittoria tutta radicata nel recupero della Rust Belt, unita alle mancate conquiste di Texas, Georgia (non è detto), North Carolina, sarà una vittoria che guarda al passato del Partito Democratico, non al futuro. Futuro che resterà da scrivere, ad orizzonte 2024, sia per i Democratici che per i Repubblicani: senza Trump, senza Biden, è possibile prevedere già ora che i partiti, i loro elettorati di riferimento, le loro parole d’ordine, saranno essenzialmente diverse da oggi.

In conclusione, se dunque il profilo moderato di Biden ha fruttato il recupero di alcuni voti andati a Trump nel 2016, il prezzo è stato quello di un’erosione “a sinistra”, tra le categorie che i Dem davano per assodate. Il verdetto del voto dirà se il gioco è valsa la candela, probabilmente sì. Ma certo è che l’accoppiata Biden-Harris non ha saputo mobilitare quanto avrebbe dovuto: se anche i Democratici ricostruissero tutto il blue wall operaio, grazie alla riconquista delle roccaforti di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, ciò sarebbe significativo ma allo stesso tempo accadrebbe per una manciata di schede. Al ticket democratico si chiedeva una vittoria tranquilla, non un’ennesima volata à bout de souffle, all’ultimo respiro.

Oppure no? La dichiarazione di Donald Trump a tarda notte “francamente, abbiamo vinto noi”, la sua minaccia di ricorrere alla Corte Suprema – senza dire contro cosa, o sulla base di cosa – pone di certo un’ipoteca non tanto sulla trasparenza, già un po’ ammaccata, quanto almeno sulla certezza dell’esito del voto nella democrazia statunitense.

 

 


*Aggiornato alle ore 17 del 5 novembre